ROBERTO MUSSAPI
L a notizia sentita alla radio, un veloce flash di qualche emittente colta a caso in un bar dove sovrasta la musica. La parola Polonia associata alla franta notizia di un capo di Stato certamente deceduto, di un aereo precipitato. A frammenti, a lacerti, un senso di sgomento e rispetto, prima di avere informazioni più precise sulla tragedia. Quelle due realtà, tragedia e Polonia, si rivelano combinate indissolubilmente nella mente. Qualunque morte ci ferisce e ci sottrae qualcosa, qualunque popolo soffra significa una parte di noi che sta soffrendo, anche quando non ce ne rendiamo conto, se siamo semplicemente umani, non necessariamente buoni, solo umani.
Ma esistono realtà in cui tragedia e grandezza sembrano fuse indissolubilmente, dalla nascita.
Penso al capo di uno Stato che se ne va con quasi tutto l’organico, a un buco gigantesco. Quel Paese ha subito decenni di dittatura comunista, soffrendo come altri dell’Est Europa, ma proponendo un’opposizione che non si limitava a opporsi: quella del popolo di Walesa era un’opposizione propositiva di valori. Quel Paese ha visto nascere il grande, futuro papa Wojtyla, figura magnifica anche per la sua complessità umana: operaio, antinazista, poeta di valore e drammaturgo di statura internazionale.
Quel Paese non è l’unico a conoscere nobiltà e tragedia, che in fondo segnano la nascita di ogni uomo alla vita terrena. Ma in Polonia tutto è più forte.
Umiliati dalle atrocità del comunismo, i polacchi non si lasciano erodere l’anima: in pieno regime non producono opere d’arte e di anima da esuli, da emarginati, ma da uomini al centro della terra: i poeti Milosz e Herbert sono tra i massimi del Novecento, il cinema propone fuoriclasse come Wajda, Polanski, Kieslowski. Il teatro la grande rinascita spirituale e rituale di Grotosky e le ombre angoscianti e piangenti di Kantor.
L’anima polacca non parla come se fosse ai margini, ma come se si esprimesse in un tempo e in una situazione di pienezza: non i pur nobili russi esiliati, ma qualcosa di simile ai drammaturghi elisabettiani, quando la loro Londra era capitale del mondo, o i poeti latini alla corte di Augusto signore dell’impero. I grandi polacchi che segnano con un taglio profondo l’arte del Novecento sono esuli o perseguitati, anche se vivono come se fossero al centro del mondo.
Il genio polacco per la poesia e l’arte, inscindibile da un senso religioso naturale e insieme libero, sembra indissolubile dalla tragedia.
Uno dei cinque più grandi scrittori della letteratura inglese di ogni tempo dopo Shakespeare, si chiama Joseph Conrad. Aveva assunto quel nome in Inghilterra, era un nobile polacco costretto a fuggire in esilio dopo l’uccisione della famiglia e il sequestro delle proprietà. In pochi anni fu comandante della marina britannica, ottimo ufficiale e uno dei massimi autori della lingua inglese, che non era certo quella della sua nascita.
I suoi romanzi sono metafisici, trattano del bene e del male, della luce e del buio, come il teatro dei polacchi Grotowski e Kantor.
Personalmente non posso giudicare il valore del presidente Kaczynski, non è questa una riflessione politologica. E’ un fatto che il capo di Stato della Polonia scompare con molte alte cariche governative e militari, un aereo si schianta e mezzo governo viene cancellato. C’è, in questo, un senso di grandezza e tragedia, come se la Polonia non potesse essere mai soltanto sfiorata, o lasciata riposare, dal Destino.
© Copyright Avvenire 15 aprile 2010