DISCERNERE

Uno sguardo profetico sugli eventi

SAN FRANCESCO SAVERIO, LA PAZIENZA DI DIO E IL FUOCO D'UN AMORE SENZA CONFINI

Per chi vive e annuncia il Vangelo in Giappone oggi è un giorno speciale. 504 anni fa nasceva San Francesco Saverio, un apostolo innamorato di Cristo, il fuoco dell'amore e dello zelo ardeva nel suo cuore sino a bruciare le camice, in dieci anni ha percorso l'intera Asia. In Italia è quasi sconosciuto. Io spero che oggi molti possano accostarsi alla sua figura e alzare lo sguardo sulla chiamata di Dio. La sua vita è stata fantastica, avventurosa, sempre colma di amore. Si direbbe una vita realizzata. Spesso, come diceva Benedetto XVI nell'Omelia dell'Inizio del pontificato, "noi desidereremmo che Dio si mostrasse più forte. Che Egli colpisse duramente, sconfiggesse il male e creasse un mondo migliore. Tutte le ideologie del potere si giustificano così, giustificano la distruzione di ciò che si opporrebbe al progresso e alla liberazione dell’umanità. Noi soffriamo per la pazienza di Dio. E nondimeno abbiamo tutti bisogno della sua pazienza. Il Dio, che è divenuto agnello, ci dice che il mondo viene salvato dal Crocifisso e non dai crocifissori. Il mondo è redento dalla pazienza di Dio e distrutto dall’impazienza degli uomini". Dio ha avuto molta pazienza con San Francesco Saverio. Come ne ha con noi. Ogni giorno. Non comprendiamo cosa ci succeda, a che cosa Dio ci stia chiamando. Dubitiamo che Egli sia davvero Amore. E abbiamo paura. "Non abbiamo forse tutti in qualche modo paura - se lasciamo entrare Cristo totalmente dentro di noi, se ci apriamo totalmente a lui – paura che Egli possa portar via qualcosa della nostra vita? Non abbiamo forse paura di rinunciare a qualcosa di grande, di unico, che rende la vita così bella? Non rischiamo di trovarci poi nell’angustia e privati della libertà? Ed ancora una volta il Papa voleva dire: no! chi fa entrare Cristo, non perde nulla, nulla – assolutamente nulla di ciò che rende la vita libera, bella e grande. No! solo in quest’amicizia si spalancano le porte della vita. Solo in quest’amicizia si dischiudono realmente le grandi potenzialità della condizione umana. Solo in quest’amicizia noi sperimentiamo ciò che è bello e ciò che libera. Così, oggi, io vorrei, con grande forza e grande convinzione, a partire dall’esperienza di una lunga vita personale, dire a voi, cari giovani: non abbiate paura di Cristo! Egli non toglie nulla, e dona tutto. Chi si dona a lui, riceve il centuplo. Sì, aprite, spalancate le porte a Cristo – e troverete la vera vita" (Benedetto XVI, ibid.). Ecco, oggi, per tutti, il mio augurio e la mia speranza è che si possa davvero spalancare le porte a Cristo e trovare, come San Francesco Saverio, la vera vita. Poco più di cinquecento anni fa è nato un Santo che ha incendiato l'Asia con l'amore di Dio. Oggi, con lui, può nascere in ciascuno di noi, un Santo capace di incendiare ogni dove siamo chiamati a vivere. Fidanzati, sposati, studenti, anziani, per tutti è pronto lo stesso zelo di Francesco Saverio, l'amore indomito e paziente di Dio che brucia il peccato e fa di ogni istante delle nostre vite un irripetibile atto d'amore. Vivere come Saverio, ognuno nelle particolari situazioni, con il carattere e le attitudini, con le debolezze e i doni che ci appartengono e ci fanno unici e preziosi agli occhi di Dio. Tutto di noi è santo, di valore inestimabile. Non possiamo buttar via nulla, neanche un istante. Questa vita ci è donata per essere vissuta sino in fondo, con Gesù sulle strade del mondo, incendiata nel Suo amore, perduta e ritrovata per l'eternità. Tutto per Cristo perchè Crsito ha dato tutto per noi. E' il segreto, l'unico, della vera felicità, la gioia piena che nessuno potrà mai toglierci.


BIOGRAFIA DI SAN FRANCESCO SAVERIO

Antonio Maria Sicari


(1506-1552)


II Regno di Cristo è vero ed esigente, tanto che è possibile, nella vita, ascoltare «l'appello del Re» che chiama a combattere. La guerra si combatte anzitutto nello spirito dell'uomo e ognuno deve «esercitarsi» per saper rispondere e prendere parte alla santa battaglia. Poi il mondo intero diventa il campo in cui si schierano decisamente «i compagni di Gesù». Così pensava, nel 1522, il soldato convcrtito Inigo di Loyola, componendo a Manresa un testo di Esercizi spirituali che avrebbe segnato profondamente la Chiesa nei secoli a venire. Allora egli immaginava che avrebbe combattuto la sua battaglia a servizio di Cristo direttamente a Gerusalemme, la città del Re Crocifisso, caduta in mano agli infedeli. Ed erano tempi in cui i Turchi - conquistata Rodi e cambiate in moschee tutte le chiese in un solo giorno (quello di Natale) - si dicevano sicuri di giungere a espugnare la stessa Roma. E se a Oriente la minaccia era il Turco, in Occidente era Luterò. Ma a fermare Ignazio e i suoi amici era proprio la Chiesa. L'Inquisizione aveva messo gli occhi sopra il suo libro di Esercizi e Ignazio si era fatto anche qualche mese di prigione preventiva. La sentenza era stata quella temuta: a lui e ai suoi amici era proibito interessarsi di anime «finché non avessero studiato di più, dato che non avevano studi di teologia». Così Ignazio comprese che egli per primo doveva cominciare a obbedire: per servire Cristo, avrebbe dovuto rimettersi a studiare, a tren-tasette anni! Latino, logica, filosofia e teologia gli erano necessari per l'apostolato che si prefiggeva. «E così risolvette di andare a Parigi», la città universitaria più prestigiosa del tempo, che contava trecentomila abitanti, quattromila studenti e trenta collegi. Cominciò a studiare latino in una casa dove lo insegnavano ai bambini di nove anni. Nel 1529, nel collegio di S. Barbara, iniziò filosofia, e qui ebbe la sorte di dividere la camera con altri due studenti: uno originario della Savoia, Pietro Favre, e uno navarrino, Francesco Xavier. Lontani dal supporlo, erano tutti e tre incamminati alla santità. Il nuovo arrivato decise di conquistarseli. Pietro Favre non era difficile da modellare. Francesco, invece, era - secondo Ignazio - «la più selvaggia pasta di uomo che gli fosse mai capitata tra le mani». Aveva ventisette anni, era di nobile famiglia, e studiava teologia, programmandosi accuratamente un prestigioso futuro. Non avendo molto denaro, si manteneva intanto agli studi, insegnando filosofia. Pensava che, una volta divenuto maestro di Teologia, non gli sarebbe mancato l'aiuto di un cugino - ch'era ritenuto il maggior canonista del tempo — per intraprendere la carriera ecclesiastica. Intanto aveva chiesto al castello natio che gli inviassero tutta la documentazione per dimostrare la sua antica nobiltà di sangue: doveva (e poteva) dimostrare di avere almeno trentadue antenati nobili nell'albero genealogico, in modo da poter sollecitare un posto nel Capitolo di Pamplona. Quando si vide capitare in camera Ignazio, quel piccolo spagnolo già avanti negli anni che ancora studiava e viveva d'elemosine, attorniato da amici originali come lui, Francesco sorrise di disprezzo. E per parecchio tempo seppe dimostrarglielo: «Non lo incontrava mai senza prendersi gioco dei suoi progetti e senza mettere in ridicolo gli amici di Ignazio». Tanto più che c'era tra loro anche un'antica rivalità: nel famoso assedio di Pamplona i fratelli di Francesco avevano combattuto nel campo avverso a quello di Ignazio, perdendovi ricchezze e libertà. Ma paradossalmente proprio quel "mendicante" si mostrava un signore con lui, prestandogli a volte del denaro con somma liberalità. E non solo: per fargli fare bella figura, Ignazio mandava i propri amici a frequentare le lezioni di filosofia tenute da Francesco. Voleva guadagnarlo a Cristo, tanto più che proprio nel collegio di S. Barbara viveva allora un altro studente di giurisprudenza, che spargeva le sue idee "protestanti" e verso il quale Francesco provava qualche inclinazione: si chiamava Giovanni Calvino. Ripetutamente Ignazio ricordava a quel difficile compagno di camera la tagliente parola di Gesù: «Che giova all'uomo guadagnare il mondo intero se poi perde la propria anima?». A Francesco sembrava un tarlo che gli rodeva la coscienza. Finché si accorse ch'era invece lo Spirito Santo che gli parlava per bocca di Ignazio. Negli anni a venire, Francesco non conoscerà frase evangelica più risolutoria di questa, e sognerà di poterla proclamare anche in faccia ai re di questo mondo. Scriverà nel 1548: «Se ritenessi che il re [Giovanni III, del Portogallo] è convinto dell'amore sincero che gli porto, gli domanderei una grazia, tutta a suo vantaggio: che ogni giorno dedichi un quarto d'ora a domandare a Dio nostro Signore di concedergli di capire e di sentire sempre meglio, dentro di sé, questa parola di Cristo: "Che giova all'uomo guadagnare il mondo intero, se poi perde la propria anima?"». E di questa persuasione Francesco farà la sua divisa e il suo principio pedagogico nell'educazione di altri giovani religiosi e missionari. In quei primi tempi, dunque, egli si lasciò lentamente penetrare dalla parola di Ignazio, fino a che si operò in lui una vera conversione: un nuovo orientamento del suo io, proprio in fatto di "sogni", di desideri e di fervore. Quando, il 15 agosto 1534, alcuni compagni si unirono ad Ignazio, nella cappella sotterranea di Montmartre, per fare voto di povertà, castità e obbedienza, Francesco era del gruppo. Poi, nelle successive vacanze, si immerse pienamente nel progetto della "compagnia", sottoponendosi per quaranta giorni agli Esercizi spirituali, sotto la guida dello stesso Ignazio. Fu allora che Francesco acquistò quella totale disponibilità a lasciarsi usare da Gesù, suo Re e Signore, in ogni maniera e in ogni forma che a Lui fossero piaciute. Disponibilità che Ignazio chiamava "indiferencia", non nel senso di un apatico "lasciar fare", ma nel senso sommamente contemplativo e attivo di chi non mette ostacolo alcuno a un disegno amato che lo sovrasta da ogni parte. Era il 1535: Ignazio aveva poco meno di quarantacinque anni,Francesco ne aveva quasi trenta, e altri cinque compagni li affiancavano. Solo Favre era già diventato sacerdote, e già da un anno tutti s'erano legati stabilmente a Dio e tra loro, non solo con i tre voti ma anche con la promessa di recarsi in Terra Santa al servizio del loro Signore Gesù. Se nel corso di un anno non fosse stato possibile passare in Palestina, si sarebbero messi a disposizione del Papa pronti a ogni suo cenno, per il «maggior servizio di Cristo». Nel 1537 tutti avevano completato gli studi, come stabilito, ed erano in procinto di radunarsi a Venezia per compiere assieme il loro voto di pellegrinare in Terra Santa. Qualcun altro s'era aggiunto al gruppo e così Ignazio poteva contare su «nove fratelli nel Signore». A Venezia attesero a lungo l'opportunità di imbarcarsi e frattanto si misero a servizio di due ospedali della città, dove erano ricoverati gli "incurabili" appestati di lue. Nella Chiesa, che offre sempre nuove esperienze e nuove profondità, i «compagni di Ignazio e di Gesù» esperimentarono, così, una nuova e inedita forma di carità e di ascesi monastica: tutti i mesi di attesa (al principio, e poi sempre in seguito) li passavano esercitando la carità negli ospedali o tra gli emarginati. Inoltre - in pieno "rinascimento" - si immergevano volutamente nelle più ripugnanti forme di ascesi, quelle più "medievali" e per noi quasi inaccettabili. Francesco arrivò fino a lambire il pus di un malato, per vincere la ripugnanza che provava. Lo scopo era assolutamente nuovo: disporsi anticipatamente a tutti i disagi della missione; prepararsi ad affrontare pericoli, avversità, repulsioni, malattie, fame, freddo, calori intollerabili, interminabili nausee di mare, compagnie squallide e immorali, sfinimenti, incomprensioni, fallimenti... Se riusciamo a immaginare una missione come quella che toccherà a Francesco Saverio nelle sterminate terre dell'India, condotta senza nessun sostegno e senza avere a disposizione nessuno di quei mezzi che oggi ci sembrano ovvi (dalle veloci comunicazioni, alle medicine, ai mezzi di trasporto, alle risorse economiche), riusciamo a capire un poco che tipo di uomini occorressero per l'impresa. I «compagni» vi si prepararono con la necessaria durezza verso se stessi, come ci si prepara a rischiare la vita. Dal Papa avevano intanto ottenuto il permesso di farsi ordinare sacerdoti. Ma la situazione era mutata e nessuna nave poteva più salpare: Venezia aveva dichiarato guerra al sultano di Costantinopoli. Fu così che gli amici di Ignazio (che proprio in questa occasione si attribuirono il nome di «Compagnia di Gesù») si divisero per le città universitarie italiane di Padova, Ferrara, Bologna, Siena e Roma. A Francesco toccò Bologna. Vi esercitò il ministero con tanta intensa carità che lo definirono «uomo di molti desideri e di molta preghiera». Dopo un anno, riconoscendo nella persistente impossibilità di recarsi a Gerusalemme, una divina indicazione, tutti si radunarono ai piedi del Papa per mettersi totalmente a sua disposizione. E Ignazio, che aveva aspettato a celebrare la sua prima Messa perché voleva farlo a Betlemme, la celebrò a S. Maria Maggiore dove si conservava una reliquia del presepe. E poiché Roma — la loro nuova Gerusalemme - proprio in quell'inverno fu scossa da una terribile carestia, si diedero a curare orfani, poveri e moribondi, destando l'ammirazione del popolo e dei cardinali. All'inizio erano chiamati "poveri preti di Cristo", o semplicemente "Apostoli". Quando tornò la calma si diedero a sistemare le questioni della Compagnia anche da un punto di vista canonico. Ma ormai Francesco era già in mare e viaggiava verso le Indie. Il Papa aveva mandato i "compagni" nelle città universitarie «per riformare la Chiesa», ma aveva ceduto al Re del Portogallo che chiedeva quattro gesuiti per le Indie. Ignazio - che allora aveva solo dieci confratelli - rispose al Re che, se gliene mandava quattro, «gliene sarebbero rimasti soltanto sei per il resto del mondo» e quindi gliene poteva inviare al massimo due. «Gliene restavano sei per il resto del mondo»: è questa folle capacità di avere un piccolo seme e di pensare già in termini mondiali a rivelarci il carisma del Fondatore. Ma i due che Ignazio designò per le Indie non riuscirono a partire: uno s'ammalò e l'altro fu fermato dal Re a Lisbona. Così restò disponibile soltanto Francesco Saverio, che ricevette dal Papa il titolo di Nunzio Apostolico: rappresentante del Pontefice «verso tutti i principi e signori dell'Oceano, delle province e terre delle Indie, di qua e di là del Capo che si chiama di Buona Speranza e delle terre vicine». In pratica gli era chiesto «di prendere possesso di quasi tutta la quarta parte del mondo, per la Croce di suo Figlio». Ed era un uomo solo.La scelta sembrò casuale, ma tutti i compagni sapevano che era quello il più ardente desiderio del cuore di Francesco. Racconta un testimone: «Quando i padri percorrevano l'Italia, servendo negli ospedali, il padre Francesco e il padre Laynez dormivano uno vicino all'altro. Succedeva che il padre maestro Francesco, svegliandosi ogni tanto, dicesse al compagno: "Gesù, come sono stanco! Sapete cosa sognavo? Portavo sulle spalle un indiano e pesava così tanto che non potevo trasportarlo"». Un altro compagno l'aveva udito esclamare e quasi gridare, sempre nel sonno: «Ancora di più, ancora di più!». Da sveglio, Francesco gli aveva poi spiegato: «Io vedevo nel sogno grandissime fatiche e pericoli per il regno di Dio nostro Signore; eppure la sua grazia mi sosteneva e mi animava a tal punto che non potevo trattenermi da domandarne ancora di più». «Mas! Mas!» («Di più! Di più!») divenne così il grido, il programma di Francesco, che non gli consentirà più di fermarsi. Sua caratteristica sarà sempre quella di procedere oltre quando un'iniziativa o un progetto si sono appena appena consolidati, fino a raggiungere l'estremo confine della terra. Francesco, che morirà a quarantasei anni, avrà in tutto dieci anni di tempo, durante i quali realizzerà tre missioni (una sulle coste indiane della Pescheria, una nelle Molucche - Celebes e Nuova Guinea - e una in Giappone): missioni che richiederanno due anni ciascuna. Passerà in viaggio il resto del tempo, percorrendo - spesso con mezzi di fortuna - più di centomila chilometri. Circa tre anni li passerà per mare e uno viaggiando per terra. Sbarcò sulla spiaggia di Goa, capitale delle Indie portoghesi, nel maggio del 1542, dopo una navigazione durata più di un anno. Gli avevano raccomandato di viaggiare e presentarsi con tutte le comodità e con il seguito e le vesti dovuti al suo rango di Nunzio Pontificio. Rispose: «Intendo da me stesso lavarmi la biancheria, occuparmi del mio pentolino, e servire gli altri: e con questo spero di non perdere di autorità». E subito fu sua decisione radicale quella di considerarsi missionario in azione, in ogni istante della sua vita. È importante comprendere bene il senso di questa espressione. Francesco non fu mai un missionario in attesa di raggiungere la sua postazione. Se, ad esempio, doveva restare in nave per un anno, quell'anno e quella nave e quei compagni di viaggio (anche se si trattava di marinai ubriaconi, pervertiti e bestemmiatori) erano la sua missione, notte e giorno. Tutti coloro che lo attorniavano erano o i suoi fedeli o i suoi pagani, di cui si sentiva responsabile davanti a Dio. Si curava della catechesi, del rinnovamento morale, della preghiera; preparava malati e morenti all'incontro con Dio, anche se doveva farlo quand'era lui stesso febbricitante o in pericolo di vita. Lo stesso avveniva durante i lunghi viaggi per terra, nei villaggi dove sostava, con i viandanti che incontrava. Francesco non era mai in viaggio verso la sua missione: era sempre in missione. E se nella zona dove giungeva c'era un lebbrosario o una prigione o un ospedale, questi erano sua terra di missione, a costo di farsi un giaciglio di fortuna ai piedi del letto degli infermi. Organizzava scuole di catechismo per i principianti, anche se poi doveva raccogliere il suo pubblico suonando un campanello per le strade; preparava celebrazioni e preghiere, e si estenuava nell'amministrazione dei sacramenti, soprattutto nelle confessioni. Appena aveva un momento libero, era capace di farsi vedere nelle taverne o dove si giocava a dadi e a carte, e prendeva perfino parte al gioco, pur di conquistare qualcuno. L'espressione di san Paolo: «Mi sono fatto tutto a tutti», era per lui un programma di vita su cui non transigeva mai. Con i ricchi che lo disprezzavano, usava la tattica di autoinvitarsi a pranzo (e non si poteva dir di no a un Nunzio Pontificio, per quanto apparisse zotico e malridotto): e un pranzo gli bastava per affascinare i suoi ospiti... Non aveva certo dimenticato le sue nobili origini e la sua formazione parigina. Si sentiva inviato ugualmente ai pagani incolti e idolatri, ai poveri schiavi senza speranza, ai ricchi e potenti musulmani, e ai cattolici portoghesi che lo facevano arrossire per la loro indegna condotta e per la terribile contro-testimonianza che opponevano alla sua predicazione. Su questi ultimi dava un giudizio terribile, scrivendo così a un confratello portoghese: «Non permettete a nessuno dei vostri amici di venire nelle Indie con incarichi e uffici del Re, perché di essi si può dire a giusto titolo: "Siano cancellati dal libro dei viventi e non siano annoverati tra i giusti". Per quanto abbiate fiducia nelle loro virtù, se non sono stati confermati in grazia come gli apostoli, non sperate di vederlifare quello che devono... Tutti seguono la strada dell'"io rubo, tu rubi". E sono stupito nel vedere come coloro che arrivano trovino subito tanti modi, tempi e participi di questo disgraziato verbo "rubare"». Di temperamento naturale Francesco era violento e intransigente con se stesso e con gli altri, ma anche capace di grande delicatezza. Era quasi duro soprattutto con i suoi confratelli che cominciavano ad affluire, perché era loro responsabile; da essi perciò esigeva una dedizione simile alla sua e un'obbedienza superiore a ogni indugio. Quando scriveva a Roma, raccomandava ad Ignazio che non avessero paura di essere molto rigidi e severi nella formazione delle nuove reclute: rigidi nell'ascesi, severi nell'obbedienza. Senza ciò un missionario non poteva dedicarsi davvero alle anime. Il suo primo territorio di missione - in senso proprio - fu nell'estremità meridionale della penisola indiana, tra pescatori di perle, gente umile e sempre sfruttata, costantemente depredata da governanti cristiani e da pirati musulmani. Giunse tra di essi con un bagaglio che consisteva in un breviario, alcuni paramenti sacri e un paio di stivali. La maggior parte di quei poveretti eli cristiano aveva solo il battesimo, che era stato loro impartito anni prima da alcuni sacerdoti portoghesi. Francesco non comprendeva la loro lingua; aveva, sì, degli interpreti incerti, ma si accorse che la trasmissione era più di danno che di aiuto. E così si fece preparare una traduzione scritta delle principali preghiere e formule di catechismo.Dicono che Dio gli desse a volte la grazia di capire e farsi capire, al di là delle insufficienze linguistiche. Certo è che egli stesso disse: «I poveri mi fanno capire senza interpreti i loro bisogni e io, vedendoli, li capisco senza interpreti. Per le cose più importanti non ho bisogno di interpreti». Le sofferenze erano quelle previste, anzi più gravi ancora: a volte gli toccava attraversare mari di fango, a volte affondava nella neve, altre volte percorreva terreni infuocati, sopportando privazioni e pericoli d'ogni genere. Quando non doveva affrontare briganti, predatori, pirati, cannibali, c'erano le bestie selvagge e i serpenti velenosi. E, in certi casi, ci si metteva anche il demonio. Francesco ammetteva: «Le sofferenze sono tali che per nulla al mondo oserei affrontarle, nemmeno per un solo giorno». Ma le affrontava lietamente per il suo Signore Gesù. E c'era poi la pena continua di non poter mai comunicare agevolmente: e quel dover imparare sempre nuove lingue e dialetti (ogni isola un dialetto), sentendosi sempre come un bambino che deve cominciare tutto da capo. E, ancora, lo attanagliava un persistente senso di inutilità: quante giornate in cui si doveva restare immobili per il capriccio dei venti o si era squassati da immani tempeste! Mesi in preda a un continuo mal di mare, mesi in attesa che giungesse un vascello o che ne partisse uno. Se Francesco voleva fare un po' di conti, si accorgeva che un giorno su due della sua vita era praticamente inutile, affidato al caso. Ma quando una giornata si annunciava vuota o perduta, egli si diceva: «Inutile angustiarsi, il Signore vuole questa giornata tutta per sé», e la passava in preghiera. Quando, invece, era sopraffatto dal lavoro, pregava la notte, per lunghe ore. Gli riusciva quello che riesce soltanto ai Santi: la sua preghiera notturna diventava il suo sonno, e il suo sonno diventava preghiera notturna. Dicevano di lui che «durante il giorno apparteneva totalmente agli uomini, la notte apparteneva totalmente a Dio...». Passava, dunque, gran parte della notte in preghiera e quegli indigeni, che faticavano a capire le idee, capivano quanto dovesse essere bella e profonda quella preghiera estatica in cui lo sorprendevano quando, a volte, lo spiavano attraverso le fessure della sua capanna. Gli chiedevano allora di pregare soprattutto sui malati, e attendevano la guarigione. Dio spesso si commuoveva, e i miracoli accadevano con magnifica sovrabbondanza. «E vero, maestro Francesco, che avete risuscitato un bambino nelle isole Comorin?», gli chiedevano poi nella capitale gli amici incuriositi da certe chiacchiere che si spandevano a macchia d'olio. Francesco arrossiva o sorrideva... Ma non si curava solo di catechismo o di preghiere: quand'era necessario organizzava perfino la resistenza alle torme dei saccheggiatori che periodicamente giungevano a depredare e distruggere Intanto Dio gli maturava nell'anima una comprensione nuova di che cosa fosse nella Chiesa il mistero dell'unità e della comunione. Era quasi sempre solo. All'inizio aveva contato sulla corrispondenza e si era quasi affidato a quest'ultimo legame che gli era rimasto.Prima di partire aveva chiesto a un confratello: «Scrivetemi tutto lungamente su due o tre fogli di carta... Vi supplico, fratelli carissimi, di scrivermi a lungo su tutti i membri della compagnia perché, dal momento che in questa vita io non spero più di vedervi "faccia a faccia", che almeno vi veda attraverso le vostre lettere. Non rifiutatemi questa grazia... Quando ci scriverete nelle Indie, parlate di tutti, uno per uno, dal momento che ciò avverrà una volta sola all'anno e mandate una lettera che ci impegni a leggere per otto giorni. Noi faremo lo stesso». Si era perfino illuso che attraverso la posta gli potessero giungere direttive, indicazioni utili per il suo apostolato: «Per quanto riguarda la condotta che devo tenere con questi mori e pagani, verso i quali vado, scrivetemi lungamente in proposito, per il servizio di Dio nostro Signore. Spero, infatti, che il Signore mi farà capire per vostro mezzo la condotta da adottare qui per convertirli alla santa fede in Lui! Quanto agli sbagli che commetterò mentre aspetto la vostra risposta, spero in Nostro Signore che le vostre lettere me li faranno conoscere e mi aiuteranno a correggermi per l'avvenire». Presto capì che anche questo tenue filo di comunione era destinato ad allentarsi. Erano tempi in cui un corriere da Roma al Giappone richiedeva quasi quattro anni, per l'andata e il ritorno, ... se i venti erano favorevoli! Così le prime lettere che egli ricevette furono quasi le ultime, e Francesco se le strinse al cuore anche fisicamente: «Per non dimenticarvi mai», scriverà il 10 maggio 1546, «per conservare di voi un ricordo continuo e speciale, per mio grande conforto, fratelli miei carissimi, sappiate che ho ritagliato i vostri nomi dalle lettere da voi spedite, i nomi scritti dalle vostre stesse mani, e li ho uniti ai voti della mia professione. Per la consolazione che ne provo, li porto sempre su di me». Si firmava: «II vostro fratello e figlio più piccolo». Dopo quattro anni lo raggiunse finalmente una lettera di Ignazio. La lesse in ginocchio e rispose: «Mio vero Padre, tra le tante consolanti e sante parole contenute nella lettera, ho letto queste ultime: "Tutto vostro, senza che mai io possa dimenticarvi, Ignazio". Queste parole le ho lette con le lacrime e con lacrime le scrivo...». Dopo la morte di Francesco, in un sacchetto che egli portava sempre attaccato al collo, i confratelli trovarono i ritagli delle loro firme e quella di Ignazio, e la formula della professione religiosa. Ed anche questa è una novità assoluta nell'assimilazione del mistero cristiano. La Chiesa conosce da sempre l'esperienza eremitica e monastica nella quale alcuni cristiani restano immobili e solitali nel suo cuore, e tuttavia raggiungono gli estremi confini della terra ed entrano in comunione con tutti i popoli. Così è successo alla carmelitana Teresa di Lisieux. E conosce anche l'esperienza missionaria nella quale altri cristiani si disperdono fisicamente in tutte le contrade del mondo ed entrano in contatto con tutte le genti e tuttavia vivono in una assoluta ed eremitica solitudine contemplativa col loro Dio. E così accadde appunto al nostro Francesco Saverio. Per questo Teresa e Francesco sono ambedue "patroni delle missioni" e potrebbero essere, ugualmente bene, ambedue "patroni della vita contemplativa". Francesco era "solo in mezzo al mondo" e, tuttavia, era sempre in comunione con la sua amata «Compagnia». «Le mie ricreazioni, in questo paese, consistono nel riandare con la memoria molto spesso a voi, fratelli carissimi», scrive all'inizio. E più tardi: «Questa presenza in spirito, incessante, che conservo in me, di tutti i membri della Compagnia è più vostra che mia, nel senso che sono certamente i vostri sacrifici, le preghiere che fate per me a produrre in me il ricordo... Siete voi, miei carissimi fratelli in Cristo, a imprimere nella mia anima la memoria continua di voi stessi». E ancora: «Vi porto impressi nell'anima. Desidero vedervi». E, alla fine, concludeva persuaso: «Abbiamo vissuto sulla terra separati gli uni dagli altri per amore Suo...». La mistica della comunione ecclesiale lo avvolgeva da ogni parte, ed egli si sentiva sempre più immerso in quella caratteristica «Compagnia di Gesù» che gli era stata vocazionalmente donata. Scriveva: «Se mai io dimenticassi la Compagnia, si paralizzi la mia destra...». Tra Teresa di Lisieux, la claustrale che vive sola nella sua cella spiritualmente unita ai suoi fratelli missionari, e Francesco Saverio, il missionario che vive solo in mezzo al mondo, sempre aggrappato alla "compagnia" dei suoi fratelli, non c'è più alcuna distanza vocazionale: ambedue si trovano totalmente immersi nella comunione della loro Chiesa, e totalmente soli nell'abbandono al loro Dio. Ed ambedue sono completamente avvolti da una realistica clausu-ra: uno sulle rive di un'isola sperduta in faccia alla Cina, l'altra nel suo ignoto Carmelo di Normandia. Dopo un soggiorno di due anni tra i pescatori di perle, detti Paravi, Francesco passò all'altra costa, quasi interamente abitata da pirati, dove battezzò più di diecimila persone in un mese. Il metodo che egli usava era senz'altro sbrigativo e, agli occhi nostri, non molto dialogico. Il battesimo era preceduto da una sola lunga catechesi sulle principali verità di fede e di morale e dall'insegnamento delle preghiere fondamentali. Seguiva, quindi, l'assegnazione del nuovo nome, e la cura di bruciare pagode e idoli. Solo, in seguito, Francesco si preoccupava che venissero inviati altri missionari per la normale e paziente costruzione e conduzione delle comunità cristiane. Metodo discutibile quanto si vuole: resta il fatto che le cristianità fondate da Saverio sono quelle rimaste più tenacemente attaccate per secoli al cristianesimo, in condizioni quasi impossibili. Dicono che, ai tempi della conquista olandese, verso il 1650, i ministri protestanti provarono a staccare quelle popolazioni dal cattolicesimo, ma che il Re dei Paravi li fermò subito, dicendo loro: «Cominciate a fare tra noi tanti miracoli quanti ne fece il santo padre Francesco, e poi vedremo!». Nel 1545, dopo aver organizzato la prima missione nel sud-est delle Indie, Francesco passa nella lontana isola di Celebes: le esperienze e lo stile di vita ripercorrono quanto ha già operato in India. L'anno dopo è nell'arcipelago delle Molucche, tremilacinquecento km più in là, dove i portoghesi hanno gli ultimi avamposti, ai confini del mondo conosciuto. Prende queste decisioni senza avere alcuna possibilità di consigliarsi con alcuno. È talmente solo che deve scegliere in base alla «consolazione intcriore» che Dio gli fa sentire in cuore, quando si muove nella direzione giusta. Anche in questi casi egli «esercita il suo spirito», come gli ha insegnato il suo padre Ignazio. Poi si spinse ancora oltre, verso le isole del Moro, dove tra tanti pagani c'erano anche alcuni vecchi cristiani che i musulmani avevano costretti all'apostasia. Erano isole così temute che nessuno voleva con-durvelo, anzi era stata diramata la proibizione di prestargli piroghe o qualsiasi altro aiuto. Ottenne un passaggio a forza di pianti. Fece tre volte naufragio, passò tre giorni su un relitto in balia delle onde, e poi dovette starsene nascosto nella foresta per sfuggire alle ricerche dei musulmani. Quando più tardi potè raccontare ai suoi confratelli qualcosa di quell'epica avventura, scrisse incredibilmente: «Queste isole abbondano di consolazioni spirituali. Tutti i pericoli, le fatiche, se si accettano volentieri per Dio, sono feconde di sante gioie: gioie tali che, in pochi anni, a forza di piangere, si perderebbe la vista degli occhi. Non ricordo di essere mai stato così felice: non sentivo più le sofferenze del corpo, e intanto andavo continuamente da un'isola all'altra, circondato da nemici o da amici diffidenti, attraverso una terra che non offriva rimedi contro le infermità, senza nulla di ciò che può conservare o proteggere la vita. Queste isole piuttosto che Isole del Moro dovrebbero chiamarsi Isole della speranza di Dio». Tornò in India per cercare di convincere i rappresentanti della corona portoghese a prendersi cura di quelle lontane terre dove dei cristiani soffrivano, ma trovò che essi non si prendevano cura nemmeno eli quelli più vicini: continuavano a opprimere le popolazioni indigene e ostacolavano i missionari in mille modi. Scrisse, allora, una lunghissima e dettagliata lettera al Re del Portogallo con parole di fuoco: «Se Vostra Altezza, quando andrà davanti al tribunale di Dio, fosse accusato dalle mie lettere, non potrà scusarsi dicendo di non conoscere la situazione». E dopo alcuni giorni, in un'altra lettera gli annuncia: «Me ne andrò in Giappone per non perdere più tempo come in passato». E conclude: «Vostra Altezza si tenga pronta, perché i reami e le signorie passano e finiscono. Sarà una cosa nuova, mai successa a Vostra Altezza, il vedersi privato nell'ora della morte dei suoi reami e signorie, per altri reami dove sarà per Lei cosa nuova ricevere comandi e - Dio non voglia! - essere "mandato" fuori dal Paradiso». Gli avevano detto che il giapponese era "un popolo saggio" - tanto che la dimora del Re era circondata di Università -, disponibile naturalmente alla fede cristiana e in attesa solo d'essere evangelizzato. Gli avevano raccontato che in quella terra esistevano monaci simili a quelli cristiani e che c'erano perfino degli idoli che somigliavano ai nostri santi. Decise, dunque, di tentare la santa avventura. Non gli sfuggivano certo i pericoli a cui andava incontro. Ma ormai Francesco aveva un solo criterio d'azione, quello che un tempo lo stesso Ignazio gli aveva raccomandato: «Coloro che vogliono appartenere alla nostra Compa-gnia devono allontanare da sé tutti i timori che impediscono loro di avere fede, speranza e fiducia in Dio». La "fiducia" è la tipica "carità" dell'apostolo. Scrisse: «Tutti i miei amici sono stupiti nel vedermi intraprendere un viaggio tanto lungo, mentre io sono ancora più stupito nel vedere la loro poca fede. Da Goa al Giappone ci sono mille e trecento leghe e forse più. Non potrò mai descrivere la grande consolazione che provo pensando a questo viaggio a causa dei molti e gravi pericoli di morte, delle violente tempeste, dei fondali e dei pirati: è già una buona cosa quando su quattro navi due si salvano. Per quanto mi riguarda andrò certamente in Giappone, visto tutto quanto ho sentito nella mia anima, anche se fossi sicuro di incontrare pericoli ancora maggiori di quelli in cui sono incorso nel passato, talmente grande è la speranza in Dio nostro Signore che la fede si diffonderà in queste terre». Si imbarcò su una giunca cinese, comandata da un certo Pirata, un idolatra che continuava a offrire sacrifici ai suoi idoli e si muoveva secondo i loro strani responsi. A Francesco sembrava d'essere in balia di Satana, ma, nonostante tutto, Dio gli concesse di sbarcare a Kagoshi-ma, un villaggio molto a sud. Ma era del tutto impotente: per comunicare doveva affidarsi a un neofita giapponese che si era portato dietro dall'India, con l'aiuto di un piccolo e discutibile catechismo che erano riusciti a tradurre assieme in quella strana lingua. I bonzi, ai quali si rivolgevano, erano cortesi e insieme ironici, e si irritarono quando Francesco cominciò a rinfacciare loro le ipocrisie e i vizi in cui molti erano immersi, dietro una facciata di devozione. Le conversioni erano rare e difficili. Francesco insisteva per raggiungere la capitale e incontrare l'imperatore, ma il signore del luogo temporeggiava, cercando il modo di servirsi di quegli stranieri. Le schermaglie durarono un anno. Finalmente Francesco e il catechista riuscirono a partire per la grande città di Yamaguchi. Ma anche qui la loro predicazione - soprattutto quella in tema di moralità (Francesco spiegava ai giapponesi che certi vizi molto diffusi in quelle terre li rendevano «più sporchi del maiale e peggiori dei cani») - non era destinata a renderli popolari. Riuscirono a raggiungere la capitale, ma non l'imperatore perché era tempo di disordini, rivoluzioni e congiure, e l'imperatore, vecchio e incapace, era asserragliato nel suo palazzo in rovina. Tornò a Yamaguchi e, poiché aveva capito che i giapponesi disprezzavano messaggeri che si presentavano poveramente conciati, si fece arrivare dall'India vesti e doni principeschi, tra cui un orologio che suonava le ore, un archibugio, una spinetta a corde, alcuni occhiali. Si presentò in abiti di seta come un grave e saggio ambasciatore, con palanchino e scorta. Tra l'altro Francesco comprese che non poteva limitarsi a parlare di fede e di morale e cominciò a sfoderare tutta la sua antica cultura parigina, discutendo anche di comete, di fenomeni celesti, di saggezza... E vennero le prime conversioni, poche ma fruttuose. Tuttavia capì che l'impresa era più ardua di quanto non avesse immaginato: ci volevano missionari che fossero anche «Maestri in arte» (cioè: in filosofia e scienze) e soprattutto (questo è più tipicamente "saveriano") bisognava spingersi più lontano ancora, cioè bisognava partire dalla Cina. I giapponesi, culturalmente dipendenti da quell'antico impero, alle verità annunciate da Francesco obiettavano: «Se quel che tu dici è vero, come mai in Cina non ne sanno nulla?». E decise, conseguentemente, di organizzare una missione in Cina. Tornò in India e qui lo raggiunse la notizia che Ignazio l'aveva nominato Superiore Provinciale della nuova Provincia Indiana della Compagnia. Restò a Goa solo tre mesi: prese le prime importanti decisioni, designò un vice-provinciale, poi ripartì, convinto che il compito primo di un Superiore è quello di rendersi conto personalmente delle situazioni più difficili. Per preparare il viaggio in Cina in forma di ambasciata del Re del Portogallo, e per vincere ogni resistenza, fece uso per la prima volta di tutti i suoi poteri di Nunzio Pontificio. Riuscì solo a farsi sbarcare privatamente nell'isoletta di Sancian, a poca distanza da Canton, terra di contrabbando, con la compagnia di un servo malabarese e un ragazzo cinese convcrtito, Antonio, che avrebbe dovuto fargli da interprete. Era inverno, i mercanti disertavano l'isola, e Francesco non poteva più contare sull'aiuto di nessuno, ma aspettava ancora un mercante cinese che gli aveva promesso di farsi vivo per il 19 novembre di quel 1552. Nell'ultima lettera scritta da Saverio sull'isola, in un postscriptum, si legge: «Aspetto ogni giorno un cinese che deve venire da Cantori a prendermi». Francesco se ne stava nella sua capanna di paglia, contemplando alternativamente l'orizzonte lontano e un crocifisso che gli avevano messo accanto. Quando la data fissata passò senza che nessuna barca comparisse all'orizzonte, egli, stremato dalla fame e dal freddo, e tutto solo, capì che la morte era ormai vicina. Sulle sue labbra tornavano le preghiere che aveva imparato da fanciullo e che, di nuovo, recitava nella lingua materna. E forse, mentre era tanto solo e già morente, ripensò a quel sogno che aveva, a volte, accarezzato: percorrere le aule delle università d'Europa e chiamare infuocatamene alla missione tutti quei giovani studenti e professori che «avevano più scienza che carità». Aveva sognato un popolo di giovani universitari, capaci di accogliere l'invito di Cristo e di risponderGli animosamente: «Mandami dove vuoi, magari anche in India!». Invece pochi sentivano quel fuoco che ardeva nelle sue povere ossa malate. Morì così, tutto proteso a una missione immensa che non aveva potuto nemmeno cominciare, il 3 dicembre 1552. Ma su quella sponda abbandonata, già batteva il cuore della Chiesa.


LETTERA 90 DI SAN FRANCESCO SAVERIO DA KAGOSHIMA

AI COMPAGNI RESIDENTI IN GOA (Kagoshima, 5 novembre 1549)


È questa la prima, grande lettera che il Saverio spedisce ai Compagni di Goa dopo il suo arrivo in Giappone, avvenuto a Kagoshima il 15 agosto 1549. Il Santo era partito da Malacca il 24 giugno 1549 in compagnia del padre Cosma de Torres, del fratello coadiutore Giovanni Femandez e di tre giapponesi fra i quali era Paolo di Santa Fé (vale a dire il samurai Anjirò) che, essendo nativo di Kagoshima, gli sarà adesso insostituibile compagno e prezioso interprete. Il viaggio non è stato facile e nella prima parte della lettera il Saverio descrive le disavventure occorsegli sulla giunca cinese, il cui poco raccomandabile capitano minacciava di tornare indietro qualora non fossero stati favorevoli i responsi di un idolo, situato a poppa della scomoda imbarcazione e decisamente aborrito dal Santo. Adesso finalmente il suolo giapponese è raggiunto da neanche tre mesi e ilSanto è già in grado di fornire le prime, vivaci impressioni su questo paese del tutto sconosciuto fino a pochi anni prima. In effetti dell'Arcipelago giapponese, indicato col nome di Zipagu (o Cipangu), aveva parlato, in termini quasi fiabeschi e solo per sentito dire, il celebre Marco Polo nel capitolo 142 del suo libro «II Milione». Fu soltanto nel 1542 che i portoghesi giunsero alle isole Ryùkyù e, nell'anno successivo, sbarcarono per la prima volta nella parte meridionale del Giappone.

Tocca ora al Saverio il compito di fornire la prima, dettagliata descrizione, destinata all'Occidente, di questo mondo giapponese cosi nuovo e diverso da tutto quanto aveva visto finora. Tra l'altro è interessante notare che è stato proprio il Saverio il primo ad adoperare e a far conoscere la parola «bonzo». Comunque la prima impressione è nel complesso favorevole e il Giappone appare al Santo come la migliore delle tene finora scoperte: merito soprattutto della gente che è senz 'altro cortese, di buona conversazione, molto onesta e non maliziosa e soprattutto amante delle armi e del proprio onore. Vi sono differenze di casta, ma in compenso è gente che in genere sa leggere e scrivere ed è piena di interesse per le cose di Dio che il Saverio e i suoi compagni sono pronti ad insegnare. Vi sono anche i bonzi, è vero, e questi non sembrano promettere niente di buono perché vivono nei loro monasteri in strana promiscuità con monache e ragazzi. Il Saverio rimane infatti molto stupito nel vedere che anche i peggiori peccati contro natura non sono tenuti in alcun conto e che la condotta di vita dei laici è senz'altro migliore di quella dei bonza. Vi è però qualche fortunata eccezione, come il caso dell'anziano e venerato bonzo Ninjitsu che, nonostante i suoi dubbi sull'immortalità dell'anima, viene chiamato «amico mio» dal Santo. Inoltre le accoglienze della popolazione e delle persone più influenti di Kagoshima sono più che buone e lo stesso «duca» della città si mostra particolarmente benevolo e interessato verso gli straordinarì pellegrini. In un primo momento il «duca» non ha nemmeno impedito le conversioni dei suoi sudditi al cristianesimo, le quali erano cominciate subito con la conversione di tutti i parenti e gli amici di Anjiró. Il Saverio, intanto, si è immediatamente informato circa le principali Università del Giappone e, nell'attesa dei venti favorevoli per recarsi all'Università di Miyako (Kyóto), si rende conto della necessità di apprendere la lingua e di far tradune in giapponese i testi essenziali per la conoscenza della religione cristiana.


Tutte queste prime e appassionanti notizie sul Giappone sono inserite in un ampio contesto di considerazioni e di riflessioni di ordine spirituale, le quali devono servire a spronare i deboli e i pusillanimi e a incoraggiare i futuri missionari, ma in pari tempo aprono un largo spiraglio su quelle che possono essere le grazie concesse a chi, sentendo fino in fondo la propria nullità, ripone in Dio ogni sua fiducia e speranza. «Io conosco una persona — dice ad un certo punto il Saverio parlando chiaramente di se stesso — alla quale il Signore ha concesso molte grazie», ma poi preferisce sorvolare e, da vero figlio di sant'lgnazio, finisce col concludere che «vivere in questa vita così travagliata senza godere Dio, non è una vita, ma una morte continua» (par. 26). Per ben servire Dio occorre inoltre essere obbedienti: «nessuno pensi di segnalarsi nelle cose grandi se prima non si segnala nelle cose piccole!» esclama il Santo (par. 34) e subito dopo mette in guardia tutti coloro, che dal collegio di Coimbra verranno in India, di non cadere in tutti quegli eccessivi «fervori» di fare solo cose grandi e difficili, perché non si tratta di «fervori», ma di autentìche tentazioni (par. 35). Da parte sua il Saverio appare profondamente convinto che la sua venuta in Giappone sia davvero una grande grazia concessagli dal Signore e desidera che i Compagni lontani lo aiutino a ringraziare la bontà divina per un dono così immenso.

Circa le vicende di questa importante lettera, occorre aggiungere che il Saverio era stato scortato in Giappone dal portoghese Domenico Diaz il quale il 5 novembre 1549 ripartì da Kagoshima recando le prime quattro lettere saveriane. Tuttavia la giunca, il cui capitano era morto in Giappone, impiegò ben sei mesi per arrivare a Malacca, dove però la bella notizia del felice arrivo del Santo in Giappone era stata portata già da tempo da alcuni mercanti cinesi. Fu cosi che sin dalla fine di gennaio del 1550 l'ottimo padre Pérez aveva potuto comunicare a Roma il lieto annuncio riguardante il Saverio. Quando poi la lettera arrivò a Malacca, il padre Pérez ne fece fare subito due copie per i Compagni di Europa che le attendevano con ansia. Il testo saveriano ebbe così un'enorme diffusione e, a partire dal 1552, se ne stamparono diverse edizioni, spesso in forma ridotta.


(Traduzione dallo spagnolo secondo una copia scritta a Malacca nel 1550. Edizione Schurhammer, n. 90).


Jesus


La grazia e l'amore di Cristo Nostro Signore sia sempre in nostro aiuto e favore. Amen.


1. Da Malacca vi scrissi molto a lungo circa tutto il nostro viaggio, da quando siamo partiti dall'India fino all'arrivo a Malacca e quello che abbiamo fatto durante il tempo che siamo stati laggiù *. Ora vi faccio sapere in qual modo Dio nostro Signore, per la sua infinita misericordia, ci condusse in Giappone. Il giorno di San Giovanni2 dell'anno 1549, di pomeriggio, ci imbarcammo a Malacca per venire in questi luoghi, sulla nave di un mercante pagano cinese * il quale si era offerto al capitano di Malacca per portarci in Giappone; dopo partiti, avendoci concesso Diomolta grazia nel darci buonissimi il tempo e il vento, tuttavia poiché fra i pagani regna molto l'incostanza, il capitano cominciò a mutare parere nel non voler più venire in Giappone, fermandosi senza necessità nelle isole che trovavamo.


2. Ma ciò per cui più soffrivamo nel nostro viaggio erano due cose: la prima, vedere che non approfittavano del buon tempo e vento che Dio nostro Signore ci dava e che, se ci finiva il monsone per venire in Giappone, eravamo costretti ad attendere un anno, svernando nella Cina, nell'attesa dell'altro monsone; e la seconda erano le continue e molte idolatrie e i sacrifici che, senza poterlo impedire, facevano il capitano e i pagani all'idolo che portavano sulla nave, mentre tiravano molte volte a sorte e gli chiedevano se potevamo o no andare in Giappone e se ci sarebbero durati i venti necessari per la nostra navigazione: certe volte le sorti uscivano bene, a volte cattive, secondo quello che essi ci dicevano e credevano.


3. A cento leghe da Malacca, sulla strada della Cina, approdammo in un'isola nella quale ci rifornimmo di timoni e di altro legname necessario per le grandi tempeste e i mari della Cina. Fatto questo, tirarono le sorti, facendo prima molti sacrifici e feste all'idolo, adorandolo molte volte e chiedendogli se avremmo avuto buon vento oppure no, e venne fuori la sorte che avremmo avuto buon tempo e che non aspettassimo oltre. Cosi salpammo e sciogliemmo la vela tutti quanti con molta allegria: i pagani confidando nell'idolo che portavano con grande venerazione sulla poppa della nave con candele accese, profumandolo con effluvi di legno di «aguila» (L'«aguila» era u come incenso. in legno odoroso, proveniente dalla Cochinchina) e noialtri confidando in Dio, creatore del ciclo e della terra, e in Gesù Cristo, suo Figlio, per il cui amore e servizio venivamo in questi luoghi onde accrescere la Sua santissima fede.


4. Durante il nostro viaggio cominciarono i pagani a tirare le sorti e a fare domande all'idolo se la nave, con cui andavamo, sarebbe tornata dal Giappone a Malacca: usci il responso che sarebbe andata in Giappone, ma che non sarebbe ritornata a Malacca. E allora entrò in essi la sfiducia e non volevano andare in Giappone, ma piuttosto svernare nella Cina e aspettare un altro anno. Vedete lo sforzo che dovevamo sopportare in questa navigazione, dovendo sottostare al parere del demonio e dei suoi servi se dovevamo o no venire in Giappone, poiché coloro che guidavano e governavano la nave non facevano niente più di quello che il demonio diceva loro con i suoi responsi.


5. Procedendo adagio il nostro viaggio prima di arrivare in Cina, essendo vicini ad una terra che si chiama Cochinchina ', la quale è già vicino alla Cina, ci accaddero due disastri in un giorno, alla vigilia della Maddalena 6. Essendo il mare grosso e in grande tempesta, mentre eravamo ancorati, capitò, per una distrazione, che la stiva della nave rimanesse aperta mentre Manuel il cinese, nostro compagno, passava vicino ad essa; e al grande rullio che diede la nave a causa del mare che era agitato, non potendosi egli tenere, cadde giù nella stiva. Tutti pensavamo che fosse morto per la grande caduta che fece e anche per la molta acqua che era nella stiva. Dio nostro Signore non volle che morisse. Egli stette per un gran spazio di tempo con la testa e pili della metà del corpo sotto l'acqua, e per molti giorni fu sofferente al capo per una grande ferita che si fece, di modo che lo tirammo fuori con molta fatica dalla stiva ed egli non riprese i sensi per lungo tempo. Dio nostro Signore volle ridargli la salute. Mentre finivamo di curarlo e continuava la grande burrasca che c'era, essendo molto agitata la nave accadde che una figlia del capitano cadesse in mare. Poiché il mare era tanto infuriato noi non potemmo aiutarla e cosi, alla presenza di suo padre e di tutti, affogò vicino alla nave. Furono tanti i pianti e i lamenti in quel giorno e [quella] notte, che era una pena grandissima vedere tanto travaglio nelle anime dei pagani, e il pericolo per la vita di tutti noi che stavamo su quella nave. Passato ciò, senza riposare tutto quel giorno e la notte, i pagani fecero grandi sacrifici e feste all'idolo, ammazzando molti uccelli e offrendogli da mangiare e da bere. Quando tirarono gli oracoli gli chiesero il motivo per cui era morta la figlia [del capitano]: usci il responso che non sarebbe né morta né caduta in mare se fosse morto il nostro Manuel che era caduto nella stiva.


6. Vedete da che dipendevano le nostre vite: nei responsi dei demoni e nel potere dei suoi servi e ministri. Che sarebbe stato di noialtri se Dio avesse permesso al demonio di farci tutto il male che desiderava? Nel vedere le offese cosi grandi e palesi che con la devozione a tante idolatrie si facevano a Dio nostro Signore e non avendo possibilità di impedirle, molte volte io chiesi a Dio nostro Signore, prima che noi ci trovassimoin quella tormenta, di concederci la grazia particolarissima di non permettere tanti errori nelle creature che formò a sua immagine e somiglianzà; oppure, se li permetteva, che aumentasse al diavolo, cagione di queste stregonerie e idolatrie, grandi pene e tormenti maggiori di quelli che aveva, ogniqualvolta incitava e persuadeva il capitano a tirare le sorti e a credere in esse, facendosi adorare come Dio.


7. Nel giorno che ci accaddero questi disastri e per tutta quella notte, Dio nostro Signore volle farmi tanta grazia da volermi far sentire e conoscere per esperienza molte cose circa i terribili e spaventosi timori che il demonio suscita, quando Dio lo permette, ed egli trova molte occasioni per farli, e circa i rimedi che l'uomo deve usare quando si trova in simili difficoltà contro le tentazioni del nemico: essendo queste troppo lunghe da raccontare, tralascio di scriverle, e non perché esse non siano notevoli. Alla fin dei conti il miglior rimedio, durante questi momenti, è di mostrare di fronte al nemico un coraggio assai grande, diffidando completamente di sé e fidano moltissimo in Dio, riponendo in Lui tutta la forza e la speranza, e, con un tale difensore e protettore, ognuno deve guardarsi dal mostrare viltà, non dubitando di riuscire vincitore. Molte volte pensai che, se Dio nostro Signore aumentò al demonio alcune pene, maggiori di quelle che aveva, questi si volle ben vendicare durante quel giorno e quella notte, poiché molte volte mi si poneva davanti, dicendomi che eravamo giunti al momento in cui si sarebbe vendicato.


8. E siccome il demonio non può mal fare più di quanto Dio conceda in tali momenti, si deve temere più per la sfiducia in Dio che non per il timore del nemico. Dio permette al demonio di affliggere e tormentare quelle creature che, da pusillanimi, cessano di confidare nel loro Creatore e non attingono forza nello sperare in Lui. Per questo male tanto grande della pusillanimità, molti di coloro che hanno cominciato col servire Dio, vivono desolati per non andare avanti, portando con perseveranza la soave croce di Cristo. La pusillanimità ha questa disgrazia tanto pericolosa e dannosa che, come l'uomo si dispone al poco e confida in sé trattandosi di una cosa tanto piccola, quando, invece si trova ad aver bisogno di maggiori forze di quelle che ha ed è costretto a confidare interamente in Dio, nelle cose grandi manca di coraggio in modo da non usare bene la grazia che Dio nostro Signore gli da per sperare in lui. Inoltre coloro che si ritengono qualcosa, facendo assegnamento su loro stessi più di quanto non valgano, disprezzando le cose umili senza essersi molto esercitati e avvantaggiati vincendosi in esse, sono più deboli dei pusillanimi durante i grandi pericoli e travagli perché, non portando a termine quello che avevano cominciato, perdono il caraggio per le piccole cose allo stesso modo con cui lo avevano perduto per le grandi.


9. E dopo sentono in sé tanta ripugnanza e vergogna ad esercitarsi in esse, che corrono gran pericolo di perdersi oppure di vivere desolati, non riconoscendo in sé le loro debolezze, che attribuiscono alla croce di Cristo, dicendo che è faticosa da portare avanti. O fratelli, che sarà di noialtri nell'ora della morte se nella vita non ci prepariamo e ci disponiamo a saper sperare e confidare in Dio, dato che in quell'ora noi ci troveremo in tentazioni, travagli e pericoli in cui non ci siamo mai visti, tanto dello spirito come del corpo? Pertanto, nelle cose piccole, coloro che vivono col desiderio di servire Dio, si devono impegnare nell'umiliarsi molto, sconfiggendo sempre se stessi, ponendo un grande e solido fondamento in Dio, affinchè nei grandi travagli e pericoli, tanto della vita come della morte, sappiano sperare nella somma bontà e misericordia del loro Creatore. Tutto ciò lo hanno appreso nel vincere le tentazioni nelle quali, per piccole che fossero, trovavano ripugnanza e diffidando di sé con molta umiltà e fortificando i loro animi avendo confidato molto in Dio, poiché nessuno è debole quando adopera bene la grazia che Dio nostro Signore gli da.


10. E per quanti impedimenti il nemico gli metta nella perseveranza della virtù e della perfezione, corre più pericolo manifestandoli al mondo, quando si trova in grandi tribolazioni e non ha per esse fiducia in Dio, che non soffrendo le tribolazioni che il diavolo gli presenta. Se il timore che gli uomini hanno del demonio nelle tentazioni, paure e minacce che questi pone loro davanti onde distrarli dal servizio di Dio, lo convertissero nel timore del loro Creatore, lasciandolo fare e avendo per certo che se tralasciano di compiere il proprio dovere con Dio sarà per loro un male maggiore di quello che può capitare da parte del demonio, o quanto vivrebbero consolati e quale profitto ne trarrebbero, sapendo per esperienza quale poca cosa essi siano! Inoltre vedrebbero chiaramente che possono valere molto solo unendosi strettamente a Dio, mentre il demonio come resterebbe confuso e debole nel vedersi vinto da coloro sui quali una volta era stato vincitore!


11. Tornando ora al nostro viaggio, calmatosi il mare levammo le ancore e, spiegata la vela, cominciammo tutti con molta tristezza ad andare per il nostro viaggio, e in pochi giorni arrivammo in Cina, nel porto di Canton. Tutti furono del parere di svernare nel detto porto, tanto i marinai come il capitano: soltanto noialtri ci opponemmo loro con preghiere e anche mediante alcuni timori e paure che mettevamo loro davanti, dicendo che avremmo scritto al capitano di Malacca e che avremmo detto ai portoghesi di come ci avevano tratto in inganno e che non avevano adempiuto con noi ciò che avevano promesso. Dio nostro Signore volle indurii nella decisione di non restare nelle isole di Canton 7 e cosi levammo le ancore e ci mettemmo in cammino per Chincheo 8, e in pochi giorni, col buon vento che sempre Dio ci dava, arrivammo a Chincheo che è un altro porto della Cina. E mentre stavamo per entrare, già decisi di svernarvi in quanto stava finendo il monsone per andare in Giappone, venne verso di noi un veliero che ci diede la notizia che vi erano molti pirati in quel porto e che saremmo stati perduti se vi entravamo. Dopo queste notizie che ci diedero e vedendo che le navi di Chincheo stavano ad una lega da noi, il capitano, vedendosi in gran pericolo di perdersi, decise di non entrare a Chincheo; ma il vento soffiava a prua se fossimo tornati un'altra volta a Canton, mentre ci era favorevole a poppa per andare in Giappone. E cosi, contro la volontà del capitano della nave e dei marinai, fu giocoforza venire in Giappone. In tal modo né il demonio né i suoi ministri poterono impedire la nostra venuta, e cosi Dio ci guidò in queste terre, dove tanto desideravamo giungere, il giorno di Nostra Signora d'Agosto 9 dell'anno 1549. E senza poter approdare in un altro porto del Giappone, arrivammo a Kagoshima, che è la patria di Paolo di Santa Fé, e dove tutti ci ricevettero con molto amore, tanto i suoi parenti come coloro che non lo erano.


12. Del Giappone, per l'esperienza che abbiamo del paese, vi faccio sapere ciò che di esso abbiamo compreso: anzitutto la gente con cui finora abbiamo conversato è la migliore che finora sia stata scoperta, e mi sembra che fra la gente pagana non se ne troverà un'altra che sia superiore ai giapponesi. E gente di ottima conversazione e generalmente buona e non maliziosa, gente straordinariamente onesta e che stima l'onore più di qualunque altra cosa, è gente in generale povera e la povertà, tra i nobili e tra coloro che non lo sono, non la reputano una vergogna.


13. Hanno una cosa che nessun altro paese cristiano mi sembra possedere ed è questa: che i nobili, per quanto poveri siano e coloro che non sono nobili, per quante ricchezze abbiano, rendono onore al nobile pove-rissimo quanto ne farebbero se fosse ricco; e a nessun costo un nobile molto povero si sposerebbe con una donna di altra casta che non fosse [quella] nobile anche se le dessero molte ricchezza; e fanno questo sembrandogli che perderebbero parte del loro onore sposandosi con una di bassa casta. In tal modo stimano l'onore più delle ricchezze. E gente di grande cortesia gli uni con gli altri, apprezzano molto le armi e hanno grande fiducia in esse: portano sempre spade e pugnali, e questo tutte le persone, tanto i nobili come la gente umile; già dall'età di quattordici anni portano spada e pugnale.


14. È gente che non sopporta alcuna ingiuria né parole pronunciate con disprezzo. La gente che non è nobile ha molto rispetto per i nobili; tutti i nobili si sentono molto onorati di servire il signore del paese e gli sono molto sottomessi. Mi pare che facciano ciò in quanto ritengono che, se facessero il contrario, perderebbero del loro onore, e non certo per il castigo che riceverebbero dal signore se facessero il contrario. E gente sobria nel mangiare, quantunque sia un po' abbondante nel bere: bevono vino di riso poiché non vi sono vigne in questi luoghi. Sono uomini che non giuocano mai, poiché sembra loro un grande disonore in quanto coloro che giuocano desiderano quello che non è loro, e da li possono finire per diventare ladroni. Giurano poco e, quando giurano, è per il sole. Gran parte delle persone sa leggere e scrivere, e questo è un grande mezzo per imparare in breve le orazioni e le cose di Dio. Non hanno più di una moglie. E un paese dove esistono pochi ladroni, e questo per la severa giustizia che esercitano verso coloro che scoprono essere tali, poiché a nessuno risparmiano la vita: detestano molto e in ogni maniera questo vizio del furto. È gente di grande buona volontà, molto socievole e desiderosa di apprendere.


15. Sono molto contenti di sentire cose di Dio, soprattutto quando le capiscono. Fra quanti luoghi ho visto nella mia vita, tanto quelli che sono cristiani come quelli che non lo sono, non ho mai veduto gente cosi leale riguardo al rubare. Non adorano idoli in figura di animali: la maggior parte di essi crede in alcuni uomini antichi i quali — secondo quanto ho compreso — erano uomini che vivevano come filosofi 12. Molti di essi adorano il sole e altri la luna. Si rallegrano nel sentire cose conformi alla ragione, e dato che vi sono fra loro vizi e peccati, quando però si danno loro delle ragioni mostrano come sia mal fatto ciò che fanno, allora sembra loro buono ciò che la ragione difende.


16. Trovo meno peccati fra i secolari e li trovo più obbedienti alla ragione di quello che non siano coloro che qua hanno per Padri e che essi chiamano «bonzi» (II Saverio è il primo europeo ad adoperare la parola «bonzo» (dal giapponese «bózu»). i quali sono propensi al peccato che la natura aborrisce, ed essi lo confessano e non lo negano. La cosa è cosi nota e manifesta a tutti, tanto uomini come donne, grandi e piccini, che, essendo molto in uso, non lo schivano né lo aborriscono. Coloro che non sono bonzi si rallegrano molto nel sentirci rimproverare quell'abominevole peccato, sembrando loro che noi abbiamo molta ragione nel dire quanto sono cattivi e quanto offendono Dio coloro che commettono tale peccato. Molte volte diciamo ai bonzi di nomfare peccati tanto brutti, ma ad essi tutto ciò che diciamo sembra essere nelle loro buone grazie, perché se ne ridono e non hanno alcuna vergogna nel sentire rimproveri per un peccato cosi brutto. Questi bronzi hanno, nei loro monasteri, molti fanciulli figli di nobili, ai quali insegnano a leggere e a scrivere, e con essi commettono le loro malvagità; ed è tanto in uso tale peccato che, sebbene sembri male a tutti, non lo evitano.


17. Fra questi bonzi ve ne sono alcuni che si vestono a guisa di frati, i quali vanno vestiti con abiti scuri, tutti rapati, che sembra si radano ogni tre o quattro giorni, tanto la testa come la barba. Essi vivono con molta larghezza, hanno monache. del medesimo ordine e vivono insieme con loro e il popolo li ha molto in basso conto, sembrandogli un male tanta dimestichezza con le monache. Tutti i laici dicono che quando taluna di queste monache rimane incinta, prende una medicina con la quale si libera subito della creatura, e ciò è molto noto, e a me sembra, secondo quanto ho visto in questo monastero di frati e di monache, che il popolo abbia molta ragione circa tutto quello che pensa di loro. Ho domandato ad alcune persone se questi frati avevano l'abitudine di qualche altro peccato, e mi hanno detto di si e proprio con i ragazzi ai quali insegnano a leggere e a scrivere. E costoro che vanno vestiti come frati e gli altri bonzi che vanno vestiti come chierici si detestano gli uni con gli altri.


18. Di due cose mi sono molto stupito in questa terra: la prima nel vedere in quale poco conto si tengono peccati grandi e abominevoli, e la causa è che i loro antenati si abituarono a vivere in tal modo e che da ciò presero esempio i loro discendenti. Vedete come il continuare nei vizi che sono contro natura corrompa l'istinto naturale, cosi come il continuo trascurare le imperfezioni distrugge e annienta la perfezione. La seconda cosa è stata quella di vedere che i laici vivono meglio nel loro stato di quanto non vivano i bonzi nel loro, ed essendo questo manifesto, c'è da meravigliarsi per la stima in cui li tengono. Vi sono molti altri errori fra questi bonzi, e sono maggiori fra coloro che più sanno.


19. Ho parlato molte volte con alcuni [bonzi] dei più sapienti, specialmente con uno per il quale tutti da queste parti hanno molto rispetto, sia per i suoi studi, la vita e la dignità che ha, sia per la grande età che è di ottanta anni; si chiama Ninxit che, nella lingua del Giappone, vuoi dire: «Cuore di verità» 18. Egli è fra loro come un vescovo e, se il nome gli corrispondesse, sarebbe benavventurato. In molte conversazioni che avemmo lo trovai dubbioso e non si sapeva decidere se la nostra anima è immortale o se muore insieme al corpo: alcune volte mi dice si, altre no. Io temo che non siano cosi gli altri dotti. Questo Ninxit è tanto amico mio che è una meraviglia. Tutti, tanto laici come bonzi, si rallegrano molto con noi e si stupiscono molto nel vedere che veniamo da paesi tanto lontani — come è dal Portogallo al Giappone, che sono più di seimila leghe — solamente per parlare delle cose di Dio e sul come le genti devono salvare le loro anime credendo in Gesù Cristo; inoltre aggiungono che il fatto per cui siamo venuti in questi luoghi è una cosa ordinata da Dio.


20. Una cosa vi faccio sapere in modo che rendiate molte grazie a Dio Nostro Signore, e cioè che questa isola del Giappone è molto disposta affinchè in essa si accresca molto la nostra santa fede; e se noi sapessimo parlare la lingua, non ho alcun dubbio nel credere che si farebbero molti cristiani. Piacerà a Dio nostro Signore che noi la si apprenda in breve, perché cominciamo già a capirla e spieghiamo i dieci comandamenti dopo i quaranta giorni che abbiamo impiegato per apprenderli. Vi do questo resoconto cosi minuzioso in modo che tutti rendiate grazie a Dio nostro Signore, dato che si scoprono luoghi in cui i vostri


18 Si tratta del bonzo Niniitsu, che era anche un illustre letterato e capo del monastero di Fukushòji. Si può aggiungere che, nonostante la veneranda età attestata da! Saverio, nel 1577 l'insigne bonzo era ancora vivo e si addolorò molto quando apprese che il Saverio era morto da tempo.santi desideri si possano realizzare ed adempiere e anche perché vi armiate di molta virtù e di desiderio di patire molti travagli per servire Cristo nostro Redentore e Signore. Ricordatevi sempre che Dio apprezza di pili una buona disposizione piena di umiltà con cui gli uomini si offrono a Lui, facendo offerta della loro vita solo per Suo amore e gloria, di quanto non apprezzi e stimi i servizi che Gli rendono, per molti che siano.


21. Siate preparati, perché non ci vorrà molto che prima di due anni vi scriva affinchè molti di voi vengano in Giappone. Intanto disponetevi a ricercare una grande umiltà, vincendo voi stessi in tutte quelle cose per le quali sentite o dovreste sentire ripugnanza, adoperandovi con tutte le forze che Dio vi da onde conoscervi intcriormente per quello che siete. E in tal modo voi crescerete in una maggiore fede, speranza, fiducia e amore verso Dio e nella carità col prossimo, poiché dalla diffidenza verso noi stessi nasce la fiducia in Dio, che è veritiera, e per questa via otterrete l'umiltà intcriore di cui in tutti i luoghi, e soprattutto in questi, avrete una necessità maggiore di quanto pensiate. State attenti a non insuperbirvi della buona opinione in cui il popolo vi tiene, a meno che non fosse per sentirvi confusi, perché da questa trascuratezza alcune persone arrivano a perdere l'umiltà intcriore, aumentando una certa superbia e, con passar del tempo, non sapendo quanto ciò sia per loro dannoso, quelli che li lodavano arrivano a perdere la devozione per loro ed essi stessi sono inquieti e non trovano consolazione né dentro né fuori.


22. Pertanto vi prego, in tutte le vostre cose, di fondarvi totalmente / in Dio, senza confidare nel vostro potere o sapere od opinione umana, ) e in tal modo faccio conto che voi siate preparati per tutte le grandi avversità, sia spirituali sia corporali, che vi possono accadere, poiché Dio ', solleva e fortifica gli umili, soprattutto quelli che nelle cose piccole e bas- / se hanno visto le loro debolezze come in un limpido specchio e in esse / seppero vincersi. Questi tali, quando si vedono in tribolazioni maggiori / di quelle in cui mai si siano trovati, e sprofondando in esse, né il demonio con i suoi ministri, né le molte tempeste del mare, né le genti malvage e barbare tanto del mare come della terra, né alcun'altra creature li può danneggiare: essi sanno per certo — stante la grande confidenza che hanno in Dio — che senza il Suo permesso o licenza non possono far niente.


23. Ed essendo a Lui manifeste tutte le loro intenzioni e il desiderio di servirlo ed essendo tutte le creature a Lui obbedienti, confidando in Lui non temono alcuna cosa, se non soltanto di offenderlo; essi sanno che, quando Dio permette al demonio di fare il suo mestiere e alle creature di perseguitare un uomo, è per provarlo oppure per una migliore conoscenza intcriore, o per castigo dei propri peccati, o per maggior merito oppure per sua umiliazione. In questo modo gli uomini ringraziano infinitamente Dio perché concede loro tanto dono, e amano coloro che li perseguitano poiché sono lo strumento con cui viene loro cosi gran bene; e non avendo essi di che pagare tale grazia e per non essere ingrati, pregano Dio per i persecutori con grande efficacia: spero in Dio che cosi sarete voialtri.Io conosco una persona ( Qui il Saecrio parla di se medesimo) alla quale Dio ha concesso una grande grazia allorquando molte volte, sia nei pericoli come fuori di essi, si preoccupava di porre in Lui ogni sua speranza e fiducia, e il profitto che le venne da ciò sarebbe assai lungo da scrivere. E poiché le maggiori tribolazioni in cui voi finora vi siete visti sono piccole al confronto di quelle che dovrete vedere se voi verrete in:Giappone vi supplico e vi chiedo quanto posso, per amore e servizio di Dio nostro Signore, che vi disponiate al massimo, distruggendo molto le vostre affezioni personali poiché, sono d'impedimento a tanto bene. E badate molto a voi stessi fratelli miei in Gesù Cristo" perché" nell'inferno vi sono molti i quali, quando stavano nella vita presente, furono la causa e lo strumento affinchè gli altri si salvassero per mezzo delle loro parole e se ne andassero alla gloria del paradiso, mentre loro, mancando di umiltà intcriore, andarono all'inferno essendosi fondati su una ingannevole e falsa opinione di loro stessi. E nell'inferno non vi è nessuno di coloro che, quando stavano nella vita presente, si adoperarono nell'adottare misure con le quali ottennero questa umiltà interiore.

25. Ricordatevi sempre quel detto del Signore che dice: «Che giova all'uomo guadagnare il mondo intero, se poi perde l'anima sua?». Non fate alcun fondamento su voialtri sembrandovi di essere da molto tempo nella Compagnia, e essendo più anziani gli uni degli altri, per questo motivo valete più di coloro che non vi si trovano da tanto tempo. Io mi rallegrerei e sarei molto consolato nel sapere che i più anziani occupano molte volte il loro intelletto nel pensare quanto male hanno approfittato del tempo trascorso nella Compagnia, e quanto ne hanno perduto nel non andare avanti, ma anzi tornando indietro. Infatti coloro che non vanno crescendo nella via della perfezione, perdono quello che hanno guadagnato, mentre i più anziani, che si preoccupano di progredire, si sentono molto confusi e si dispongono a ricercare una umiltà intcriore più che esteriore e di nuovo prendono animo e forza per recuperare ciò che è perduto; in questo modo sono di grande edificazione, dando un esempio e un buon odore di sé ai novizi e agli altri con cui conversano. Esercitatevi sempre e di continuo in questo esercizio, dato che desiderate emergere nel servizio di Cristo.


26. E credetemi: voi che verrete da questi parti, sarete ben provati per quelle che siete, e per quanta diligenza voi abbiate nel conquistare e ottenere molte virtù, fate conto che non ne avrete d'avanzo. Non vi dico queste cose per farvi capire che è una cosa difficile servire Dio e che non è né lieve né soave il giogo de! Signore, ma se gli uomini si preparassero a cercare Dio, prendendo e abbracciando i mezzi necessari a ciò, troverebbero tanta soavità e consolazione nel servirlo, che tutta la ripugnanza che provano nei vincere se stessi, sarebbe per loro più facile eia combattere se sapessero quale diletto e contentezza di spirito perdono per non sforzarsi nelle tentazioni. Queste, dunque, sogliono impedire nei deboli il grande bene e la conoscenza della somma bontà di Dio e il riposo per questa vita faticosa, poiché vivere in essa senza godere di Dio non è una vita, ma una morte continua.


27. Io temo che il nemico renda inquieti alcuni di voialtri, proponendovi cose ardue e grandi per il servizio di Dio e che fareste se vi trovaste in altre parti da quelle dove ora state. Il demonio ordina tutto ciò allo scopo di sconfortarvi, rendendovi inquieti in modo da non ottenere frutto nelle vostre anime e in quelle del prossimo nei luoghi dove vi trovate al presente, dandovi ad intendere che perdete tempo. È questa una chiara, manifesta e comune tentazione per molti che desiderano servire Dio: vi prego molto di resistere a questa tentazione poiché è cosi dannosa allo spirito e alla perfezione da impedire di andare avanti e fa tornare indietro con molta aridità e desolazione di spirito.


28. Pertanto ognuno di voi, nei luoghi ove si trova, s'impegni molto per trarre profitto prima per sé e poi per gli altri, avendo per sicuro che in nessun'altra parte può servire tanto Dio come laddove uno si trova per obbedienza, confidando in Dio nostro Signore il quale farà sentire al vostro superiore — quando sarà il momento — che vi mandi per obbedienza nei luoghi dove Egli sarà più servito. In questa maniera farete progressi nelle vostre anime vivendo confortati e utilizzando bene il tempo che è una cosa tanto preziosa, pur senza essere conosciuta da molti, dato che sapete quale stretto conto dovrete rendere di esso a Dio nostro Signore. Infatti, dato che non rendete alcun frutto poiché non state nei luoghi dove desiderereste trovarvi, cosi, allo stesso modo, nei luoghi dove ora state non trarrete alcun profitto né per voi né per gli altri, avendo i pensieri e i desideri occupati altrove.


29. Voi che state in questo Collegio di Santa Fé dovete osservare molto voi stessi ed esercitarvi nel conoscere le vostre debolezze, manifestandole alle persone che vi possono aiutare e dar un rimedio per esse, come sarebbero i vostri confessori già sperimentati, oppure altre persone spirituali della Casa affinchè, quando uscirete dal collegio, sappiate per prima cosa curare voi stessi e dopo gli altri, grazie a ciò che vi hanno insegnato l'esperienza e le persone che vi hanno aiutato nelle cose spirituali E sappiate per certo che molti generi di tentazioni penetreranno in voi, quando andrete soli oppure a due a due, sottoposti a molte prove nelle terre dei pagani e nelle tempeste del mare, tutte cose che non avete provato durante il tempo che stavate nel collegio. E se non sarete molto esercitati ed esperti nel saper vincere i propri disordinati affetti con grande conoscenza degli inganni de! nemico, giudicate voi, o fratelli, il pericolo che correrete quando mostrerete al mondo che è tutto fondato sulla cattiveria e come farete a resistergli se non sarete molto umili.


30. Io vivo anche col grande timore che Lucifero, servendosi dei suoi molti inganni e trasformandosi in angelo di luce, rechi turbamento ad alcuni di voi rappresentandovi le molte grazie che Dio Nostro Signore vi ha fatto, da quando siete entrati nel Collegio, nel liberarvi dalle molte miserie che avete provato quando stavate nel mondo. Ciò potrà in-durvi ad alcune false speranze onde portarvi via dal Collegio prima del tempo facendovi credere che se finora, stando voi nel Collegio e in cosi poco tempo, Dio nostro Signore vi ha concesso tante grazie, molte di più ve ne farà se uscirete da esso per far frutto nelle anime, facendovi credere che state perdendo il tempo.


31. A questa tentazione potete resistere in due maniere: la prima, considerando attentamente in voi medesimi che se i grandi peccatori che vivono nel mondo stessero dove voialtri siete, fuori dalle occasioni di peccare e posti in un luogo adatto ad acquistare grande perfezione, quanto sarebbero matati da quello che sono e forse potrebbero far confondere molti di voialtri! Vi dico questo affinchè pensiate che la mancanza delle occasioni per offendere Dio e i molti mezzi e aiuti che in codesta casa vi sono per godere di Dio, sono motivo per non peccare gravemente. Coloro che non conoscono da dove venga loro tanta misericordia, attribuiscono a se stessi il bene spirituale che viene loro dal raccoglimento, state sempre in umiltà e farete molto frutto nelle anime, andando tranquilli e sicuri in qualunque parte andrete.


37. Poiché è ragionevole che coloro i quali avvertono molto in se stessi le loro passioni e con gran diligenza le curano bene, potranno senti-' re e curare con carità quelle del prossimo, soccorrendolo nei suoi bisogni, : dando la vita per esso; poiché come hanno ricavato profitto nella loro anima sentendo e curando le proprie passioni, cosi sapranno curare e arrivare a sentire quelle altrui; e là dove essi sono giunti a sentire la passione di Cristo, là essi saranno lo strumento perché altri la sentano. Al contrario non vedo in qual modo coloro che non la sentono in sé, la possano far sentire agli altri.


38. Nel paese di Paolo di Santa Fé 25, nostro buono e sincero amico, fummo ricevuti dal capitano della città e dal sindaco del luogo 26 con grande benevolenza e affetto, e cosi da tutto il popolo, mentre tutti si meravigliavano molto nel vedere padri della terra dei portoghesi. Non si sono scandalizzati in nessun modo per il fatto che Paolo si sia fatto cristiano, ma anzi lo apprezzano molto e si rallegrano tutti con lui, tanto i suoi parenti come coloro che non lo sono, per essere stato in India e aver visto cose che questi di qua non videro. Il duca di questa terra 27 si è rallegrato molto con lui, gli ha reso molto onore chiedendogli molte cose circa gli usi e il valore dei portoghesi; e Paolo lo ha informato di tutto, e di ciò il duca si è mostrato molto contento.


39. Quando Paolo andò a parlare col duca, il quale stava a cinque leghe da Kagoshima 28, portò con sé un'immagine assai venerata di Nostra Signora che avevamo recato con noialtri, e il duca si rallegrò straordinariamente quando la vide e si pose in ginocchio davanti ali 'immagine di Cristo nostro Signore e di Nostra Signora, adorandola con molta devozione e riverenza 29 e ordinando a tutti quelli che stavano con lui di fare altrettanto. Dopo la mostrarono alla madre del duca, la quale si meravigliò nel vederla, dimostrando molto piacere. Dopo che Paolo tornò a Kagoshima, dove noi stavamo, la madre del duca dopo pochi giorni mandò un nobile per ordinare in qual modo si potesse fare un'altra immagine come quella, ma non essendovi nel paese il materiale adatto, si tralasciò di farlo. Questa signora mandò a chiedere di mandarle per iscritto ciò in cui i cristiani credono, e cosi Paolo occupò alcuni giorni nel farlo, e nella sua lingua scrisse molte cose della nostra fede.


40. Credete una cosa, e di ciò ringraziate molto Dio: si apre una strada dove i vostri desideri si possono realizzare; e se noi sapessimo parlare [il giapponese], già avremmo ottenuto molto frutto. Paolo si è dato tanto da fare con molti dei suoi parenti ed amici, predicando loro giorno e notte, ed è stata la causa per cui sua madre, la moglie e la figlia e molti suoi parenti, tanto uomini come donne e amici, si sono fatti cristiani. Qua finora non si scandalizzavano se uno si fa cristiano, e siccome gran parte di loro sa leggere e scrivere, imparano presto le orazioni.


41. Piacerà a Dio nostro Signore di farci imparare la lingua in modo da poter parlare delle cose di Dio, perché allora faremo molto frutto con il suo aiuto, grazia e favore. Ora stiamo fra loro come tante statue, perché essi parlano e conversano con noi di molte cose, e noialtri, non comprendendo la lingua, stiamo zitti. Per il momento ci capita di essere come fanciulli che imparano a parlare e piacesse a Dio che fossimo uguali a loro nella semplicità e nella purezza dell'animo. Siamo costretti ad adottare misure e prepararci ad essere come loro sia nell'imparare a parlare sia nel-Timitare la semplicità dei fanciulli che sono privi di malizia.


42. E per questo Dio ci ha fatto una grazia assai grande e particolare nel portarci in questi luoghi di pagani affinchè non ci dimenticassimo di noi stessi, dato che è una terra tutta di idolatrie e di nemici di Cristo. Noi non abbiamo in chi poter confidare e sperare se non in Dio, dato che non abbiamo qua parenti, né amici né conoscenti e non vi è alcuna pietà cristiana, perché tutti sono nemici di Colui che fece il ciclo e la terra. E per questa ragione siamo costretti a riporre tutta la nostra fede, speranza e fiducia in Cristo nostro Signore e non in alcuna creatura vivente poiché, per il loro paganesimo, tutti sono nemici di Dio. In altri luoghi, dove il nostro Creatore, Redentore e Signore è conosciuto, le creature sogliono essere causa e impedimento per farci dimenticare Dio, come è l'amore del padre, della madre, dei parenti, amici e conoscenti, oppure l'amore per la propria patria e l'avere il necessario, tanto essendo sani come nelle malattie, possedendo beni temporali o amici spirituali che ci aiutano nelle necessità corporali. Ma soprattutto ciò che più obbliga a sperare in Dio è la mancanza di persone che ci aiutino nello spirito: di modo che qui, in terre straniere dove Dio non è conosciuto, Egli ci_£ojTcede^ tanta grazia che le creature ci costringono e ci aiutano a non dimenticare di riporre tutta la nostra fede, speranza e fiducia nella Sua divina bontà, mancando esse di ogni amore di Dio e di pietà cristiana.


43. Nel considerare questa grande grazia che Dio nostro Signore ci fa insieme a molte altre, rimaniamo confusi nel vedere la misericordia cosi manifesta che Egli usa verso noialtri. Noi pensavamo di rendere a Lui qualche servizio venendo in questi luoghi per accrescere la Sua santa fede, ma adesso, per la Sua bontà, ci ha fatto chiaramente conoscere e capire la grazia cosi immensa che ci ha concesso nel condurci in Giappone, liberandoci dall'amore di molte creature che ci impedivano di avere maggiore fede, speranza e fiducia in Lui. Giudicate ora voi, se noi fossimo quello che dovremmo essere, quanto tranquilla, confortata e tutta piena di gioia sarebbe la nostra vita, sperando solamente in Colui dal quale procede ogni bene e che non inganna coloro che in Lui confidano, ma anzi è più generoso nel dare di quello che non siano gli uomini nel chiedere e nello sperare. Per amore di Nostro Signore aiutateci a render grazie di cosi grande dono affinchè non cadiamo nel peccato di ingratitudine. Infatti in coloro che desiderano servire Dio, questo peccato è la causa per cui Dio nostro Signore tralascia di fare maggiori grazie di quelle che concede, non essendo essi a conoscenza di una grazia cosi grande in modo da potersi servire di essa.


44. Ci è anche necessario mettervi a parte di altre grazie che Dio ci concede e che, per Sua misericordia, ci fa conoscere, affinchè ci aiutiate a ringraziare sempre Dio per esse. Ed è che negli altri luoghi l'abbondanza dei cibi corporali suole essere la causa e l'occasione per cui aumentano le voglie disordinate, lasciando molte volte mortificata la virtù dell'astinenza, per cui gli uomini patiscono un notevole danno tanto nell'anima come nel corpo. Da qui derivano per la maggior parte le infermità corporali e anche spirituali, e gli uomini finiscono per soffrire molti tormenti nell'adottare un rimedio e, prima di ottenerlo, molti abbreviano i giorni della vita soffrendo nel corpo molti generi di tormento e di dolore, e prendendo, per guarire, medicine che danno più fastidio nel prenderle di quanto non davano gusto i cibi nel mangiare e nel bere. E oltre a queste tribolazioni, essi si cacciano in altre maggiori che mettono la loro vita in potere dei medici i quali arrivano ad indovinare la cura solo dopo esser passati loro per molti errori.


45. Dio ci ha concesso una grande grazia nel condurci in questi luoghi, i quali mancano di ogni abbondanza che, anche se volessimo concedere qualcosa di superfluo al corpo, non lo permette la terra. Non uccidono né mangiano animali allevati da loro, alcune volte mangiano pesce, riso e grano, anche se poco. Vi sono molte erbe con le quali si sostentano e alcune frutta, ma poche. La gente di questa terra vive meravigliosamente sana e vi sono molti vecchi. Si vede bene nei giapponesi come il nostro fisico si sostenga con poco, anche se non vi è cosa che lo contenti. Noi viviamo in questa terra molto sani nel corpo. Piacesse a Dio che cosi lo fossimo nell'anima!


46. Siamo quasi costretti a farvi conoscere una grazia che, a quanto sembra, Dio nostro Signore ci concederà, affinchè con i vostri sacrifici e orazioni ci aiutiate a non demeritarla. Il fatto è che gran parte dei giapponesi sono bonzi, e costoro sono molto obbediti nel luogo dove vivono, benché i loro peccati siano manifesti a tutti. E il motivo per cui sono molto stimati mi sembra che sia a causa della grande astinenza che fanno: non mangiano mai carne né pesce, ma solo erbe, frutta e riso e questo una sola volta al giorno, in maniera molto misurata, e non prendono vino.


47. I bonzi sono molti e le case assai povere di rendite. Per questa continua astinenza che essi fanno e dato che non hanno relazione con donne, specialmente coloro che vanno vestiti di nero come chierici, sotto pena di perdere la vita, e per saper raccontare alcune storie, o per meglio dire favole delle cose in cui credono, proprio per questo motivo mi sembra li tengano in grande venerazione. Ed essendo noi e loro tanto all'opposto nel modo di sentire Dio e di come si devono salvare le genti, non mancherà molto che noi saremo perseguitati da essi, e non soltanto a parole.


48. In questi luoghi quello che noi pretendiamo è di portare le genti alla conoscenza del loro Creatore, Redentore e Salvatore Gesù Cristo nostro Signore. Viviamo con molta fiducia, sperando in Colui che ci darà le forze, la grazia, l'aiuto e il favore per mandare avanti tutto questo. Non mi pare che la gente del posto, per quanto li riguarda, ci contrasterà o perseguiterà, a meno che non sia a causa dei molti fastidi da parte dei bonzi. Noi non intendiamo avere divergenze con loro, ma neanche per timore di loro tralasceremo di parlare della gloria di Dio e della salvezza delle anime: ed essi non ci potranno fare più male di quanto Dio nostro ! Signore permetterà loro. E il male che da parte loro ci venisse, rappresen- • ta una grazia che ci farà Dio nostro Signore se, per suo amore e servizio ', e zelo delle anime, ci abbreviassero i giorni della vita ed essi fossero gli / strumenti per mezzo dei quali finisca questa continua morte in cui vivia- ', mo e si adempiano in breve i nostri desideri, andando a regnare per sem- / pre con Cristo. La nostra intenzione è di spiegare e palesare la verità, per• quanto essi ci possano contraddire, poiché Dio ci obbliga ad amare di più la salvezza del nostro prossimo che non la nostra vita corporale. Noi desideriamo, con l'aiuto, il favore e la grazia di nostro Signore, di adempiere questo precetto, dandoci Lui la forza intcriore per manifestarlo in mezzo a tante idolatrie come vi sono in Giappone.


49. Noi viviamo con la grande speranza che ci farà questa grazia, anche se diffidiamo completamente delle nostre forze, riponendo ogni nostra speranza in Gesù Cristo nostro Signore e la Santissima Vergine Santa Maria Sua Madre, e in tutti i nove cori degli angeli, scegliendo fra tutti loro come speciale protettore, san Michele Arcangelo, principe e difensore di tutta la Chiesa militante. Nei confidiamo molto in quell'Arcangelo al quale è affidata in particolare la custodia di questo grande regno del Giappone, raccomandandoci tutti i giorni soprattutto a Lui e, insieme a Lui, a tutti gli altri angeli custodi che hanno lo speciale incarico di pregare Dio nostro Signore per la conversione dei giapponesi, di cui sono a guardia. E non tralasciamo di invocare tutti quei santi beati i quali, vedendo tanta dannazione delle anime, sospirano sempre per la salvezza di tante immagini e somiglianze di Dio, confidando moltissimo che a tutte le nostre negligenze e mancanze di non raccomandarci come dobbiamo a tutta la corte celeste, suppliranno i beati della nostra santa Compagnia che stanno lassù in ciclo, presentando sempre i nostri poveri desideri alla Santissima Trinità.


50. Per la somma bontà di Dio nostro Signore sono maggiori le nostre speranze di ottenere vittoria grazie a tanto favore ed aiuto, di quanto non siano gli ostacoli che il nemico ci pone innanzi onde tornare indietro, quantunque non cessino di essere molti e grandi; tuttavia non dubito che farebbero in noi molta impressione qualora facessimo qualche fondamento nel nostro potere o sapere Per la sua grande misericordia Dio no-' stro Signore permette che il nemico ci ponga innanzi tanti timori, travagli e pericoli onde umiliarci e abbassarci, affinchè giammai confidiamo , nelle nostre forze e potere, ma solamente in Lui e in coloro che sono par-j tecipi della Sua bontà. In questo luogo Egli ci mostra bene la Sua infinita clemenza e lo speciale ricordo che ha di noi, facendoci conoscere e sentire dentro le nostre anime quanto poco valiamo, poiché ci permette di essere perseguitati da piccole tribolazioni e pochi pericoli, affinchè non ci si dimentichi di Lui facendo affidamento in noi stessi. Poiché facendo il contrario, per coloro i quali fanno qualche affidamento in loro stessi, le piccole tentazioni e persecuzioni sono più faticose per lo spirito e difficili da sopportare, di quanto non lo siano i molti e grandi pericoli e travagli per coloro i quali, diffidando completamente di sé, confidano totalmente in Dio.


51. Per nostra consolazione abbiamo il grande dovere di mettervi a parte di una grande preoccupazione in cui viviamo, affinchè ci aiutiate con i vostri sacrifici e orazioni. Ed è che, essendo noti a Dio nostro Signore tutte le nostre continue malvagità e i grandi peccati, viviamo con il dovuto timore che Egli tralasci di concederci i doni e darci la grazia per cominciare a servirLo con perseveranza sino alla fine, qualora non vi fosse un grande emendamento da parte nostra. Per questo ci è necessario prendere per intercessori sulla terra tutti i membri della benedetta Compagnia del nome di Gesù, con tutti i suoi devoti ed amici, affinchè, con la loro intercessione, siamo presentati alla santa Madre Chiesa universale, sposa di Cristo nosrro Signore e nostro Redentore, nella quale crediamo fermamente e senza poter dubitare, e che confidiamo dividerà con noi i suoi molti e infiniti meriti.


52. E inoltre per mezzo suo siamo presentati e raccomandati a tutti i beati del ciclo, specialmente a Gesù Cristo, Suo sposo, nostro Redentore e Signore, e alla Santissima Vergine, sua Madre, affinchè continuamente ci raccomandino a Dio Eterno Padre, da cui nasce e procede ogni bene, pregandolo di preservarci sempre dall'offenderLo, non cessando di farci continue grazie, senza guardare alle nostre cattiverie, ma solo alla Sua bontà infinta, poiché soltanto per Suo amore siamo venuti in questi luoghi, come Egli sa bene, dato che a Lui sono manifesti tutti i nostri cuori, le intenzioni e i poveri desideri che sono quelli di liberare le anime le quali da più di millecinquecento anni sono sotto la schiavitù di Lucifero che si fa adorare da esse come Dio sulla terra. Infatti egli [Lucifero] non fu cosi potente da ottenere questo nel ciclo e, dopo esserne stato cacciato, si vendica per quanto può di molti e anche dei miseri giapponesi.


53. E bene che vi mettiamo a parte delia nostra permanenza a Ka-goshima. Noi siamo arrivati qui al tempo in cui i venti erano contrari per andare a Miyako 30 che è la principale città del Giappone, dove stanno il re 31 e i maggiori signori del regno, ma non vi è un vento che ci serva per andare là se non da qui a cinque mesi: allora, con l'aiuto di Dio, andremo. Da qui a Miyako vi sono trecento leghe. Ci dicono grandi cose di quella città: affermano che supera le novantamila case, che si trova inessa una grande Università di studenti, con dentro cinque collegi principali, e pili di duecento case di bonzi e di altri simili a frati, che chiamano gixu 32 e monache che chiamano Amacata 3J.


54. Oltre a questa Università di Miyako vi sono altre cinque Università principali, i nomi delle quali sono questi: Goya , Negru , Fieson , Omy , queste quattro stanno nei dintorni di Miyako e ci dicono che in ognuna di esse vi sono più di tremilacinquecento studenti. Vi è un'altra Università molto lontana da Miyako, che si chiama Bandu, che è la maggiore e la pili importante del Giappone e nella quale vanno più studenti che in qualunque altra. Bandu è una signoria molto grande, dove sono sei duchi e fra essi ve ne è uno più importante a cui tutti obbediscono, e questo più importante obbedisce al re del Giappone. Ci dicono tante cose sulla grandezza di queste terre e delle Università che, per poterle confermare e descrivere come vere, saremmo lieti per prima cosa di vederli e, se sono cosi come ci dicono, dopo averne fatto esperienza ve lo scriveremo molto dettagliatamente.


55. Oltre a queste Università principali, ci dicono che nel regno ve ne sono molte altre piccole. Dopo aver visto la disposizione a fruttificare che da queste parti si può ottenere nelle anime, non ci vorrà molto a scrivere a tutte le principali Università della cristianità per sgravare le nostre coscienze e per aggravare le loro, in quanto con le molte loro virtù e scienza possono curare cosi gran male, convertendo tanti infedeli alla conoscenza del loro Creatore, Redentore e Salvatore.


56. A loro, come ai nostri superiori e padri, e desiderando che ci considerino quali figli più piccoli, noi scriveremo circa il frutto che si può fare con il loro favore e aiuto, in modo che coloro i quali non possono venire qua favoriscano coloro che si offrissero, per la gloria di Dio e la salvezza delle anime, di essere partecipi di consolazioni e contentezze spirituali maggiori di quelle che per caso hanno laggiù. E se la disposizione di questi luoghi fosse tanto grande come ci va apparendo, non tralasceremo di farne parte a Sua Santità, poiché è Vicario di Cristo sulla terra e pastore di coloro che in Lui credono e anche di coloro che sono disposti a venire a conoscenza del loro Redentore e Salvatore e ad appartenere alla Sua giurisdizione spirituale. Non dimenticheremo di scrivere a tutti i devoti e benedetti fratelli che vivono con molti santi desideri di glorificare Gesù Cristo nelle anime che non Lo conoscono. E per molti che ne vengano, avanza sempre posto in questo grande regno, in modo da adempiere i loro desideri, e anche in un altro maggiore, che è quello della Cina, al quale si può andare con sicurezza, senza ricevere maltrattamenti dai cinesi, portando un salvacondotto del re del Giappone che, speriamo in Dio, sarà nostro amico e dal quale si otterrà facilmente questo lasciapassare.


57. Infatti vi faccio sapere che il re del Giappone è amico del re della Cina 40 e ha il suo sigillo in segno di amicizia e per poter dare un salvacondotto a coloro che vanno là. Molte navi navigano dal Giappone alla Cina ed è una traversata che in dieci o dodici giorni si può fare. Viviamo con la grande speranza che se Dio nostro Signore ci darà dieci anni di vita, vedremo in questi luoghi grandi cose grazie a coloro che da laggiù [Goa] verranno e per mezzo di coloro che in questi luoghi Dio condurrà al raggiungimento della Sua vera conoscenza. Durante tutto l'anno 1551 speriamo di scrivervi assai minuziosamente circa la disposizione che vi è a Miyako e nelle Università affinchè Gesù Cristo nostro Signore sia in esse conosciuto. Quest'anno vanno nell'India due bonzi, i quali sono stati nelle Università di Bandu e Miyako, e con loro molti giapponesi allo scopo di imparare le cose della nostra Legge.


58. Il giorno di San Michele 41 parlammo con il duca di questa terra che ci ha reso grande onore dicendo di custodire molto bene i libri in cui stava scritta la Legge dei cristiani, aggiungendo che, se la Legge di Gesù Cristo era vera e buona, essa doveva rincrescere molto al demonio. Di li a pochi giorni ha dato licenza ai suoi vassalli affinchè tutti coloro che volevano essere cristiani lo diventassero. Queste notizie cosi buone ve le scrivo alla fine della lettera per vostra consolazione e affinchè rendiate grazie a Dio nostro Signore. Credo che quest'inverno saremo occupati nel compilare una spiegazione in lingua giapponese degli articoli della fede, alquanto ampia per farla stampare e, poiché tutta la gente di riguardo sa leggere e scrivere, in tal modo la nostra santa fede si estenderà in molti luoghi, dato che non possiamo accorrere dappertutto. Paolo, il nostro carissimo fratello, tradurrà fedelmente nella sua lingua tutto quello che è necessario per la salvezza delle loro anime. Adesso vi conviene, dato che si scopre tanta disposizione, che tutti i vostri desideri siano, per prima cosa, di palesarvi come grandi servi di Dio nel ciclo, e ciò farete se in questo mondo sarete intcriormente umili nelle vostre anime e nella vita, lasciando ogni_cura a Dio, il quale vi darà credito con il prossimo sulla terra, e, se Egli tralasciasse di farlo, sarà per vedere il pericolo che correte attribuendo a voialtri ciò che è di Dio. Vivo assai consolato sembrandomi che vedrete sempre in voi stessi tante cose intcriori da biasimare e giungerete ad una grande avversione di ogni disordinato amor proprio, e in pari tempo a tanta perfezione che a ragione il mondo non troverà niente da rimproverare in voialtri: in questo modo udire le sue lodi sarà per voi una penosa croce, vedendo chiaramente in esse le vostre mancanze.


60. Termino cosi senza poter finire di scrivere il grande amore che provo per tutti voi in generale e in particolare; e se in questa vita presente si potessero vedere i cuori di coloro che si amano in Cristo, credete, Fratelli miei carissimi, che nel mio voi vi vedreste chiaramente. E se non vi riconosceste, mirandovi in esso, sarebbe perché io vi tengo in tale stima e voialtri, stante la vostra virtù, vi tenete in tale disprezzo che, a causa della vostra umiltà, sareste impediti di vedervi e conoscervi in esso, e non certo perché le vostre immagini non siano impresse nella mia anima e nel cuore. Molto vi supplico affinchè vi sia tra voi un vero amore, non lasciando germogliare amarezze nell'animo. Trasformate una parte del vostro fervore nell'amarvi gli uni con gli altri è'una parte del desiderio di ,'. soffrire per Cristo, in un patire per Suo amore, vincendo in voialtri tutte quelle ripugnanze che non lasciano crescere questo amore. Voi sapete infatti ciò che disse Cristo: che in questo Egli conosce i Suoi, se si ameranno gii uni con gli altri.


Dio nostro Signore ci faccia sentire dentro le nostre anime la Sua santissima volontà e la grazia per adempierla perfettamente. Da Kagoshima, ai 5 di novembre dell'anno 1549. Il tutto vostro carissimo fratello in Cristo


Francisco


Isola di Sancian dove è morto San Francesco Saverio