di Ranieri Polese
Dal calcolo delle miglia percorse in aereo alla raccolta dei bollini di fedeltà per i prodotti: il fascino irresistibile dei numeri da scalare condiziona sempre più le nostre esistenze. Ma provoca anche una reazione di rigetto in chi non vuole più sentirsi rinchiuso dentro a uno schema fisso
Il tagliatore di teste George Clooney (Tra le nuvole), sempre in volo da una città all'altra, insegue un record: arrivare a dieci milioni di miglia guadagnati con i suoi viaggi. Una vita a punti, la sua, con l'obiettivo delle miglia che un po' serve anche a dimenticare la ragione dei suoi spostamenti, quella cioè di licenziare più gente possibile. L'America, da cui abbiamo preso tutte le nozioni di marketing, non è sempre entusiasta del sistema dei punteggi come regola prima della vita associata. Anzi, spesso lo critica o ci fa dell'ironia. Già nel 1975, il film Anno 2000. La corsa della morte (prodotto da Roger Corman, diretto da Paul Bartel) immaginava in un futuro prossimo una gara automobilistica selvaggia dove vinceva chi aveva guadagnato più punti. E i punti erano costituiti dai passanti investiti, vecchi e bambini naturalmente valevano di più. Il paradosso era che molti pedoni si prestavano spontaneamente a farsi sacrificare per il bene della corsa e del sistema. Fantasie apocalittiche a parte, ora, anche da noi, la vita a punti sta diventando la normalità. Non ci sono più solo le liste di collocamento che traducono in punteggio anni, figli, titolo di studio. Alcuni anni fa, nel 2003, il ministro Lunardi ha introdotto la patente a punti, con annessa tabella del "costo" delle diverse infrazioni e le istruzioni per il recupero punti. Qualche anno prima, anche l'esame di maturità per le superiori veniva trasformato in un calcolo di punteggi: una parte ottenuta con le prove d'esame vere e proprie, l'altra sommando i crediti degli anni precedenti. Recentemente (per fortuna non è andato avanti), il ministro Maroni ha presentato un progetto di legge che riguardava la concessione del permesso di soggiorno agli immigrati sulla base di punti. Negli anni settanta fece furore la dieta a punti del dottor Razzoli, basata su un calcolo semplice: combinando certi dati - età, peso corporeo, altezza - si aveva il numero di crediti giornalieri in alimenti. Certo, poi ci sono tutte le altre raccolte: i supermarket e le loro carte fedeltà, i distributori di benzina («Viaggiate coccolati»), e naturalmente le Mille Miglia dei voli Alitalia e di altre compagnie, spesso collegate a carte di credito che aggiungono miglia ogni tot euro spesi. A questa contabilità ci siamo un po' tutti abituati. In fondo, sono circa cinquant'anni che funziona così: una volta c' erano i punti Mira Lanza, i punti VDB (per i cultori del modernariato, su eBay viene offerto un catalogo VDB primi sessanta: prezzo di partenza, 145 euro), collezioni che appassionavano gli italiani colpiti da improvviso benessere. «La mia mamma aveva preso un servito di piatti con i punti Mira Lanza», ricorda la scrittrice e insegnante Paola Mastrocola. «Io non ho più la stessa costanza, spesso non finisco le raccolte. Certo che quando pago la spesa al supermercato, se non ho la carta fedeltà mi sento giudicata male dalla cassiera. Forse quella carta a punti può essere anche un simbolo di appartenenza, non so». In alcuni clienti, invece, si è diffuso un atteggiamento sospettoso: la carta fedeltà - dicono - ti fotografa, sa tutto di te, dei tuoi consumi, dei tuoi gusti. Per questo si rifiutano di prenderla.
Raccolta punti con premi, carte per collezionare miglia, i bonus Telepass (sconti sul carburante, su consumi in autogrill, noleggio auto e altro ancora) sono tutte tecniche di "fidelizzazione", ovvero «l'insieme delle azioni di marketing volte al mantenimento della clientela già esistente». Che ormai non riguardano più solo generi di largo consumo, ma per esempio anche libri e dischi. «Nel 2004 è nata la Carta Più» ci dice Paolo Soraci, responsabile dell'ufficio stampa delle Librerie Feltrinelli, novantotto in tutt'Italia. «Ne sono state emesse due milioni e quattrocentomila, di cui sono "vive" - clienti che cioè abbiano fatto almeno un acquisto negli ultimi dodici mesi - circa un milione. Legato alla carta c'è il sistema di sconti progressivo: più punti uno guadagna, maggiore è la percentuale di sconto. Ma non c'è solo questo (del resto presente anche in altre librerie, grandi catene o piccole indipendenti). Ci sono convenzioni con eventi culturali che permettono ai titolari della carta di avere biglietti scontati per i teatri o per le grandi mostre o anche di avere un posto riservato nelle anteprime gratuite di film. Questi clienti hanno fornito i loro dati e l'indirizzo di posta elettronica, in modo da poter essere informati di queste proposte, o sulle offerte a prezzi speciali di determinati prodotti». La carta diventa così anche un modo di affermare una propria appartenenza. «Sì, anche se è uno strumento di mass market, da noi risponde alle esigenze di un pubblico con una forte identità, che conosce i valori e la storia del marchio, che vuole sentirsi parte della grande famiglia Feltrinelli. È il nostro nocciolo duro». La carta, comunque, è anche una fotografia del cliente. «Sì, ma qui occorre distinguere tra quelli che danno la liberatoria e forniscono il loro indirizzo e gli altri. Dei primi si traccia un profilo che permette alla libreria di comunicare specifiche proposte, consone ai gusti e alle abitudini di acquisto. Tutti gli altri dati, anonimi, servono a conoscere le tendenze del mercato. Un fatto rigorosamente certo è che i dati non vengono mai ceduti o venduti a esterni».
Appena nasciamo, subito ci viene attribuito un punteggio. È l'«Indice di Apgar» che valuta l'efficienza delle funzioni vitali primarie: solo i neonati con punteggio fra sette e dieci sono considerati normali. Ma c' è anche un altro punteggio che i nuovi nati si trovano in dote, quello di cui parla un rapporto dell' Ocse di prossima pubblicazione: s'intitola «Family Affair» e dice sulla base di statistiche quanto ciascun bambino dei Paesi industrializzati guadagnerà da grande, e quale posto avrà nella scala sociale. Bene, a differenza degli altri Paesi, in Italia chi nasce da un padre con reddito medio-alto ha il cinquanta per cento di probabilità, da grande, di avere gli stessi introiti e status. Lo diceva già don Milani (nella sua Lettera a una professoressa) che il Pierino del dottore aveva tutte le strade aperte; era il 1967, da allora la mobilità sociale in Italia non ha fatto grandi progressi. Poi, magari con l'intenzione di dare a tutti le stesse opportunità di partenza, si è arrivati alla riforma delle scuole superiori. Con l' introduzione dei punti. Nella seconda metà degli anni novanta, così, ha fatto il suo ingresso ufficiale il sistema dei crediti (formativo e scolastico) e del debito (formativo: ovvero, un' insufficienza in una materia che dev' essere recuperata). Il credito formativo, per intendersi, tiene conto di attività extra-scolastiche (volontariato, sport e altro), che dà diritto a un punteggio che va a sommarsi al credito scolastico. Un marchingegno complicato (nuove circolari ministeriali variano spesso l' incidenza dei punti ottenuti), che inquieta molto genitori e pure docenti. «Ma i ragazzi sono entrati subito benissimo in questo meccanismo», dice Paola Mastrocola, autrice del fortunato La scuola insegnata al mio cane (Guanda). «Si battono per un credito, magari facendo attraversare la strada a vecchie signore. Hanno scoperto una nuova autorità, un nuovo dio: il Dio Punteggio, e a quello solo obbediscono». Ma com'è nata questa semplificazione aritmetica del lavoro scolastico? «Dall'idea, di origine strutturalista, che ci dev'essere una misurazione oggettiva di tutto. Come se non ci rassegnassimo al fatto che non ci sono criteri scientifici per definire ogni campo del reale. Così, oggi, a scuola, i due aggettivi imperanti sono: oggettivo e trasparente. I punti sono oggettivi, il voto dev'essere trasparente. Ed è difficile far capire l'umiliazione dell'insegnante che deve spiegare l'evidenza, che cioè ha dato quattro a un ragazzo che non ha studiato... Viviamo, nella scuola, in un invasamento collettivo per il mito dell' oggettività». Che però potrebbe essere un modo per misurare il merito... «No, piuttosto è una finzione di democrazia, l'illusione di un riscatto. Chi ha il punteggio più alto non è il più bravo. Anche se grazie ai suoi punti può accedere ai corsi all' estero. Insomma, sono molto contenta di non essere giovane e studente in questi anni».
Anche lo psichiatra e scrittore Vittorino Andreoli confessa la sua difficoltà di fronte al sistema dei punti. «La mia generazione è spaventata dall'idea di contabilizzare la vita, quel continuum di emozioni sentimenti pensieri. I giovani, invece, abituati alla vita digitale, alla logica binaria del computer (Sì o No), ragionano per frammenti, come nei videogame, che consistono di diversi segmenti di prove, e solo se superi la prima vai avanti. I videogame danno i punti a chi gioca, quando inizi la partita vedi scritto sullo schermo il punteggio massimo raggiunto da Gino o da John. E quei punti ti definiscono, misurano chi sei. Essere è avere un punteggio. Oggi la cosa piace, ho sentito adulti dire con orgoglio quanti punti avevano accumulato con la carta fedeltà del supermercato». Ma esiste un altro modo per valutare il merito? «Nella storia recente sono falliti tutti. Quando l'educazione, da elitaria che era, si è aperta alla società di massa, ha cominciato a non funzionare più. Prendiamo la nostra università, oggi tutti prendono lauree che non servono a niente. Per questo abbiamo finito per introdurre il sistema anglosassone, soprattutto americano (forse è un'altra forma di colonizzazione): noi partivamo dai valori, dalle essenze platoniche, loro calcolano a punti, fanno esami con i test che poi vengono valutati dai computer». L'idea dei punti, della misurabilità però c'era già anche qui. «Lombroso misurava la capacità della scatola cranica e sulla base dei centimetri diagnosticava la follia, il cretinismo, la delinquenza. Poi venne la misurazione del Quoziente d'intelligenza, con Alfred Binet, 1905, successivamente rivisto e aggiustato. Anche qui numeri per definire capacità intellettive, sempre numeri o punti. A volte anche con conseguenze drammatiche». Per esempio? «Il caso degli oligofrenici, che si dividono in "Deboli mentali" (un po' sotto al cento), gli "Oligofrenici" (che non raggiungono un Qi ottanta) e gli "Oligofrenici gravi". Prima non venivano mandati a scuola...». Come capitava al piccolo Forrest Gump. «Sì, perché erano ritenuti incapaci di apprendere, di avere una vita sociale. Si è capito molto dopo che avevano capacità creative, possedevano altre forme di intelligenza non riscontrabile secondo i parametri del Quoziente d'Intelligenza. Questo ci mette in guardia di fronte alla fascinazione dei numeri, dei punti: c'è sempre nell'aritmetica un che di magico, ci sono i numeri perfetti e quelli nefasti. Insomma, anche l'oggettività dei numeri è un concetto molto rischioso. Certo, l' aritmetica è semplice, la capiscono tutti. Ma non si deve pensare che possa definire il merito. Meno che mai la vita». Alla fine del suo film, raggiunto l'agognato traguardo dei dieci milioni di miglia, George Clooney regala le sue carte. Forse ha capito che i punti, come i soldi, da soli non garantiscono la felicità.
Bibliografia
Bibliografia
Numerosi saggi affrontano, per lo più criticamente, il problema della misurazione in punteggi delle prestazioni e delle emozioni. «Intelligenza sociale», di Daniel Goleman (Rizzoli, 2006), è il seguito ideale del suo «Intelligenza emotiva»: la capacità di gestire le emozioni viene analizzata da un punto di vista delle interazioni tra le persone. Anche per Martha Nussbaum, ne «L'intelligenza delle emozioni» (Il Mulino, 2004) le emozioni, lungi dal costituire un impaccio alla corretta espressione del pensiero, ne rappresentano la base. Sulla possibilità di misurare il quoziente intellettivo, si può consultare «L' intelligenza. I test. Il quoziente intellettivo» di Alessandra Buschi (Liberamente, 2008). Nel campo del marketing, la prospettiva del superamento della «fidelizzazione» del cliente fondata sui punteggi è presente in «Oltre la fidelizzazione. Il marketing nell'era della complessità» di Mauro Cavallone (Franco Angeli, 2003) L' autore Ranieri Polese, inviato culturale del «Corriere della Sera», dal 2005 è il curatore dell' «Almanacco Guanda», il cui ultimo numero («Satyricon») ha affrontato il tema della satira politica in Italia. Tra i suoi lavori ricordiamo il libro edito da Rizzoli, «Il film della mia vita». Per quattro anni ha fatto parte della Commissione di selezione della Mostra del cinema di Venezia Quando pago la spesa al supermercato, se non ho la carta fedeltà mi sento giudicata male dalla cassiera. Secondo alcuni però la carta fedeltà ti fotografa, sa tutto di te, dei tuoi consumi e dei tuoi gusti. Per questo si rifiutano di prenderla I giovani ragionano per frammenti, come i videogame che danno i punti a chi gioca: quando inizia la partita vedi scritto sullo schermo il punteggio massimo raggiunto. E quei punti ti definiscono, misurano chi sei. Essere è avere un punteggio.
«Corriere della Sera» del 7 marzo 2010