Ildergarda di Bingen: santa eclettica della modernità. Trasmissione della Rai
CONVEGNI
LA SUA SPLENDIDA MUSICA
BIOGRAFIA E SPIRITUALITA'
Premessa: Un cammino di stupore in stupore
"Ho fatto una scoperta o, dovrei dire, ho avuto una visione. L'ho avuta tra due tazze di caffè nero in un ristorante francese di Soho; ma non saprei spiegarla, neppure se tentassi di farlo. Comunque era che tutte le cose buone formano un tutt'uno... Questo è ciò che sento... adesso, ad ogni ora del giorno. Tutte le cose buone sono una cosa sola. È questo ciò che gli Ebrei dell'antichità, soli tra gli altri popoli, hanno percepito. I Greci, i Vichinghi e i Romani non furono attraversati come qualche rude israelita, una notte, nella solitudine del deserto, dall'improvvisa, abbagliante idea che tutto il mondo era la manifestazione di un solo Dio: un'idea degna di un romanzo poliziesco." (G. K. Chesterton, L'ortodossia)
C'è una tensione che attraversa quasi in sordina il mondo contemporaneo: la si può definire bisogno di una visione olistica, unitaria, dell'uomo, della natura, di Dio. Essa affiora, soprattutto, o deformata nelle correnti esoteriche, oppure concettualmente articolata, negli ambiti di scienza come la biologia, la chimica o la fisica... Qualche volta un poeta, come appunto Chesterton, giunge a percepirne concretamente la realtà, oppure un pittore, come Van Gogh, ce ne dà suggestiva rappresentazione attraverso il dinamismo estetico con cui investe al contempo cielo, terra, uomini, cose. La tradizione cristiana, nella sua storia, non solo ha conosciuto questa tensione ma ha saputo elaborarne, attraverso l'attività e la riflessione di alcune sue grandi personalità, uno sviluppo critico coerente. Ildegarda di Bingen, vissuta nel secolo d'oro del Medio Evo, il XII, è luminosa testimone della visione olistica della tradizione cristiana, visione che non è stata per lei soltanto fulminea intuizione, ma anche e soprattutto esercizio potente di uno sguardo e di un pensiero aperti alla totalità del reale. Conoscere la storia, le visioni, la dottrina, il sapere di Ildegarda è introdursi da una concezione dell'esistenza integralmente positiva, è scoprire che, nella costellazione delle grandi personalità cristiane, brilla anche la figura di una donna per la quale salute del corpo e salvezza dell'anima sono strettamente correlate (del resto l'una e l'altra sono indicate, in latino, dall'unica parola salus). L'intuizione di Chesterton e la percezione sensibile di Van Gogh appartengono alla verità esistenziale della condizione umana contemporanea. Ma, per chi la incontra oggi, Ildegarda spalanca una panoramica finestra su un meraviglioso paesaggio.
Ildegarda e il suo tempo - La vita
1098, estate. Nell'anno che precede la conquista di Gerusalemme da parte dei primi crociati, nacque, nei pressi di Alzey (nella regione dell'Assia Renana, a poco più di 30 km da Magonza), Ildegarda, decima e ultima figlia del nobile Ildelberto di Bermersheim e di sua moglie Matilda (il nome Ildegarda significa protettrice delle battaglie). Ben presto si manifestò la pronta ed acuta intelligenza della bambina, ma altrettanto instabile era la sua salute. La sua natura di visionaria comparve molto presto, se come lei stessa ci racconta: "Nel mio quinto anno di vita vidi una luce così grande che la mia anima ne fu scossa, però, per la mia tenera età, non potei parlarne..." È probabile che l'osservazione delle straordinarie doti della bambina abbia pesato nella decisione dei suoi genitori di affidarla, all'età di otto anni, alla maestra Jutta, una giovane di nobile lignaggio, figlia del conte di Spanheim, che si era appena ritirata in clausura presso il monastero benedettino di Disibodenberg, situato alla confluenza dei fiumi Glan e Nahe. Jutta "l'educò accuratamente all'umiltà e all'innocenza, la iniziò ai canti di David e le insegnò i salmi", scrive Goffredo, il primo biografo di Ildegarda. Oltre a Jutta, Ildegarda ebbe un altro maestro, il monaco Volmar, assistente spirituale della clausura, ed in seguito suo primo segretario; possiamo immaginare che fu lui a contribuire alla sua formazione, insegnandole le arti liberali che erano parte del patrimonio culturale dei monaci di quel tempo. Giunta all'adolescenza Ildegarda decise liberamente di porre la sua vita al servizio di Dio; pronunciò i voti dell'ordine benedettino e (tra il 1112 e il 1115) ricevette il velo dalle mani del vescovo Ottone di Bamberg. Passarono trent'anni senza che si verificassero grandi eventi, ma intanto: "La sua reverenda madre (Jutta) scopriva piena di meraviglia come la sua allieva fosse divenuta a sua volta maestra..." Così, quando nel 1136 Jutta morì, le monache che in quegli anni si erano radunate attorno a Jutta, la elessero badessa. Per cinque anni ancora la vita a Disibodenberg proseguì il suo corso tranquillo, ma quando Ildegarda arrivò ai quarantadue anni, mentre giaceva afflitta da una penosa malattia, una delle tante che l'avevano accompagnata nel corso della vita, la voce di Dio insistentemente le intimò: "Manifesta le meraviglie che apprendi... Oh tu fragile creatura... parla e scrivi ciò che vedi e senti..." Ildegarda, incerta, resisteva, e ciò aumentava le sue sofferenze fisiche; infine trovò la forza di manifestare quanto le accadeva a Volmar, che le consigliò di rendere noto quanto Dio le ispirava. Da quel momento le forze le ritornarono ed Ildegarda iniziò a comunicare le visioni che l'avevano accompagnata fin dalla più tenera età: iniziava così a scrivere il suo primo grande lavoro Scivias (Conosci le vie). Volmar e l'abate Kuno di Disibodenberg si convinsero dell'ispirazione divina di quanto Ildegarda andava rivelando, ed informarono di quanto udivano l'arcivescovo Enrico ed il capitolo della cattedrale di Magonza. Intanto la fama di Ildegarda si spandeva nella regione, giungendo anche alle orecchie di San Bernardo e del papa. Alla fine dell'anno 1147, il papa Eugenio III aveva infatti convocato un sinodo generale della chiesa a Treviri (che dista una settantina di chilometri da Disibodenberg), e da lì inviò una sua delegazione ad incontrare ed interrogare Ildegarda. Gli inviati del papa tornarono con un'ottima impressione; gli scritti di Ildegarda furono letti personalmente dal papa in un'assemblea plenaria del sinodo, nel quale lo stesso San Bernardo intervenne, chiedendo al papa di non tollerare che una tale luce luminosa venisse coperta dal silenzio. Così il papa diede a Ildegarda il permesso di rendere noto ciò che lo Spirito le ispirava e la incoraggiò a scrivere. L'evento del sinodo contribuì a spargere la fama di Ildegarda per tutta Europa; ne sono testimonianza le numerose lettere indirizzate a questa donna saggia e piena di Dio, che tanti le inviavano da ogni dove. Un numero sempre maggiore di nobili ragazze bussavano alla sua porta, ma la comunità femminile di Disibodenberg rimaneva una misera appendice del grandioso convento. Così lentamente Ildegarda maturò l'idea di fondare lei stessa un nuovo convento. L'ispirazione divina le suggerì la collina di Rupertsberg, luogo ameno, ma selvaggio e disabitato, situato a 25-30 km da Disibodenberg, vicino alla città di Bingen, alla confluenza della Nahe nel Reno. Però furono tali le resistenze e le difficoltà che si frapposero, in primis le resistenze dei monaci di Disibodenberg, che Ildegarda si scoraggiò e pensò di rinunciare all'idea. Per il grande travaglio cadde ammalata, e solo quando lei e le sue monache poterono finalmente partire, improvvisamente guarì. Gli aiuti per la costruzione del nuovo convento arrivarono generosi, ma solo verso il 1150 gli edifici cominciarono ad accogliere la ventina di monache della comunità.
La vita a Rupertsberg dovette essere molto dura, agli inizi, e l'indipendenza costò non poco alle monache, tanto che una parte di loro se ne andarono; fra di esse anche la discepola preferita di Ildegarda, Riccarda, che allettata dall'offerta di un suo potente fratello, arcivescovo di Brema, divenne badessa di Birsin (morendo però solo un anno dopo). La situazione del convento gradualmente migliorò, grazie a nuove donazioni; nel 1152 fu consacrata la chiesa del convento e probabilmente per questa occasione Ildegarda scrisse la sua opera musicale Ordo virtutum (La schiera delle virtù), grande esempio delle sue doti musicali. I rapporti con Disibodenberg rimasero però tesi, perché i monaci non volevano cedere beni e terreni che molte delle monache avevano portato in dote a quel convento. La tensione arrivò al massimo nel 1155, quando l'abate Kuno pretese che anche Volmar, che si era trasferito a Rupertsberg con le monache, tornasse indietro. Allora Ildegarda stessa raggiunse a cavallo Disibodenberg, presentandosi senza preavviso davanti a Kuno; l'abate fu costretto a convocare il capitolo, a riconoscere i suoi torti ed a concedere alle monache quello a cui avevano diritto, compreso la guida spirituale di Volmar. Alla morte di Kuno, avvenuta l'anno dopo, Ildegarda concluse un accordo con il suo successore, per uno scambio di terreni fra i due conventi che garantì una buona stabilità a Rupertsberg. Il convento si consolidò ulteriormente quando Ildegarda ottenne la protezione dell'arcivescovo di Magonza e nel 1163 dello stesso imperatore, Federico Barbarossa. Con l'imperatore Ildegarda aveva avuto buoni rapporti fin dal 1154, quando egli, colpito dalla sua fama, l'aveva invitata nel suo castello di Ingelheim. Ciò non le impedì di prendere risolutamente posizione contro di lui, a favore del papa legittimo Alessandro III, quando l'imperatore entrò in contrasto col papato, e fece eleggere due successivi antipapi. Gli indirizzò diverse lettere rivolgendogli, in nome di Dio, parole molto forti: "…Colui che è dice: la ribellione la distruggo e la resistenza di coloro che mi si oppongono l'anniento... Guai, guai alle male azioni dei sacrileghi che mi disprezzano!". L'imperatore non si vendicò, ma non rispose ed il legame con Ildegarda si spezzò. Sotto la saggia guida di Ildegarda, la comunità di Rupertsberg viveva nella gioia e nella concordia, suscitando ammirazione ovunque. Così scrive il monaco fiammingo Viberto (che si era recato nel 1177 a visitare Rupertsberg, e che vi rimase come ultimo segretario di Ildegarda): "La madre circonda le figlie con tale amore, e le figlie si sottomettono alla madre con tale reverenza, che si stenta a distinguere se siano le figlie o la madre a riportare la vittoria. Praticano con zelo letture e canti e le si può vedere intente a scrivere libri, a tessere paramenti sacri o dedite ad altri lavori manuali". In questo periodo Ildegarda scrisse anche la seconda sua opera più importante, il Liber vitae meritorum (Libro dei meriti della vita). Il convento di Rupersberg attirava sempre più giovani, così che dopo dieci anni dalla fondazione cominciò a diventare insufficiente. Ildegarda cercò allora un altro luogo, e lo trovò non troppo distante, sulla riva opposta del Reno, ad Eibingen, dove esisteva un convento agostiniano semidistrutto. Ildegarda si accordò con la proprietaria di quei luoghi, gli edifici furono ricostruiti e già nel 1165 le prime monache cominciarono a risiedervi. Ildegarda, due volte la settimana attraversava il Reno per assistere le sue monache del nuovo convento; questi aumentati impegni non le impedirono comunque di iniziare l'altra sua opera principale, il Liber divinorum operum (Il libro delle opere divine). Ormai anziana, ma piena di energie, Ildegarda non mancò di portare la sua parola, fatto straordinario per una donna, lontano dal suo convento, compiendo quattro grandi viaggi di predicazione. Il primo iniziò alla fine degli anni '50 e la condusse lungo il fiume Meno. Il secondo si svolse nel 1160; dapprima Ildegarda predicò a Treviri, poi risalì il corso della Mosella fin dopo Lothringen, l'ultima tappa fu Metz. Tra il 1161 e il 1163 discese il Reno e visitò le città di Boppard, Andernach, Sieburg, Colonia e Werden. Il quarto viaggio fu intrapreso verso il 1170 ed ebbe per meta la Svevia; là predicò a Maulbronn, Hirsau e Zwiefalten. La predica che tenne il giorno di Pentecoste a Treviri è giunta fino a noi: "Io povera creatura, a cui mancano salute, vigore, forza e istruzione, ho udito nella luce misteriosa del vero volto le seguenti parole per il clero di Treviri: i doctores e magistri non vogliono più dar fiato alla tromba della giustizia, perciò e scomparsa in loro l'aurora delle opere buone: se non espiate i vostri peccati, dai nemici verrà alla città un castigo di fuoco". L'eccezionale autorità spirituale che Ildegarda aveva guadagnato le permetteva tale decisione e durezza. Così non esitò a eseguire l'incarico divino di cui si sentiva investita, anche se in questo periodo le malattie la tormentavano in modo particolare (con sottile autoironia scriveva: "Perché non insuperbisca Dio mi ha costretta a letto"). Anche a Colonia fu molto dura con il clero locale: "Per la vostra disgustosa ricchezza ed avidità, nonché per altre vanità, non istruite i vostri sottoposti", ma altrettanto decisa contro l'eresia dei catari, i puri, che si era diffusa anche in quella città. Ildegarda era ormai vecchia, ma non le furono risparmiate ulteriori prove. Nel 1173 morì il suo fedele consigliere ed amico Volmar, ed ella dovette combattere a lungo, rivolgendosi anche al papa, perché l'abate di Disibodenberg le concedesse un nuovo assistente, Goffredo, che morì però presto, nel 1176. Nel 1178 la sua pietà per un giovane cavaliere morto a Bingen, al quale aveva concesso la sepoltura nel cimitero di Rupertsberg, le costò una lunga disputa col clero di Magonza. Secondo i canonici della cattedrale quel cavaliere si era macchiato di un grave crimine, era stato scomunicato, perciò non poteva avere una sepoltura religiosa e Ildegarda doveva allontanare subito il nobile dalla terra consacrata, altrimenti il convento sarebbe stato colpito dall'interdetto. Ildegarda sapeva che il cavaliere si era pentito e confessato prima della morte. Non volle cedere all'intimazione e cancellò ogni traccia della sepoltura. Si preparò alla difesa e si recò personalmente a Magonza a sostenere le sue ragioni. Ma non riuscì a convincere i prelati, che confermarono l'interdetto. Allora l'indomita Ildegarda trovò il modo di mettersi in comunicazione direttamente con l'arcivescovo di Magonza, Cristiano, che in quel periodo era Roma. Da lontano egli ordinò un'indagine, che sembrò chiarire la vera dinamica delle vicende, così che l'interdetto fu revocato. Ma la questione fu riaperta una seconda volta dagli ostinati canonici di Magonza, e solo una seconda perorazione diretta di Ildegarda all'arcivescovo, sempre lontano, riuscì a chiudere l'incidente. Ormai Ildegarda era molto vecchia e gli scontri con il capitolo del duomo di Magonza le avevano minato le forze. Le monache la sentivano sempre più spesso sospirare. "Vorrei essere liberata e stare vicino a Cristo", ed una notte la luce risplendette di nuovo in lei e le annunciò il giorno in cui sarebbe stata liberata dal peso del suo corpo. Tranquillamente Ildegarda si preparò alla morte, che sopravvenne nel giorno che le era stato predetto, il 17 settembre 1179, dopo che tutte le monache da lei radunate ebbero intonato, per un suo ultimo desiderio, canti nuziali.
Ildegarda e il suo rapporto con la vita monastica
La regola
La regola è il sicuro alveo nel quale scorre la vita dei monaci, ed anche se ogni grande famiglia monastica la "reinventa" e la sottolinea secondo il suo proprio carisma, da Agostino a Francesco d'Assisi essa non manca mai di costituire il fondamento su cui si costruisce la possibilità di una vita in comune. Ildegarda è benedettina, vive la regola, parla della regola e nei suoi scritti si rifà alla regola con allusioni, con citazioni che le vengono spontanee, nominando S. Benedetto assai più spesso di qualsiasi altro santo. Scrive anche una sorta di breve trattato sulla Regola di S. Benedetto, intitolato Explanatio regulae Benedicti, per rispondere a una richiesta fatta con grande deferenza e stima: "Ad Ildegarda, tempio dello Spirito Santo, reverenda sposa di Cristo, diletta da Dio, e stimatissima Maestra delle sorelle di santo Ruperto di Bingen..." da un cenobio di canonici agostiniani, i quali espressamente le chiedono un commento della regola di S. Benedetto: "... Infatti anche se voleste interpretare per noi tutta la santa Scrittura, nulla potreste offrirci che sia altrettanto utile a noi e da noi altrettanto ambito quanto la vostra esposizione della regola...". Introducendo la sua risposta Ildegarda dice di Benedetto che egli fu una ricca fonte dalla quale sgorgano le acque della saggezza divina. Egli pose il perno della sua dottrina non troppo in alto, né troppo in profondo, ma nel "centro della ruota". La ruota è immagine di Dio, del Dio incarnato: dunque Benedetto ha posto a misura, a regola della sua norma di vita, la vita di Cristo. Imitare la vita e la passione di Cristo non vuol dire però ricercare penitenze straordinarie: per Ildegarda la via che Benedetto ha tracciato è discreta e piana, mentre prima di lui la vita monastica era durissima, fatta solo di penitenza e di deserto (ella non ha mai disprezzo del corpo, che è al servizio dell'anima, ma ha i suoi diritti ed un alto valore). La virtù dell'obbedienza è lo specifico della regola: l'obbedienza impone di non seguire la propria volontà, ma di ritornare a Dio dal quale ci siamo allontanati per la pigrizia della disobbedienza. Nella regola la voce di Dio a cui obbedire non è una voce astratta, ma è la voce del superiore, dell'abate.
La cultura
La conoscenza è per la monaca benedettina Ildegarda un cammino di illuminazione che la impegna nel compito di trasmettere quanto ascolta e vede, non solo agli uomini del suo tempo, ma anche alle generazioni future. Per questo la sua prima opera scritta ha titolo Scivias: Conosci le vie, cioè presta attenzione, guarda, scruta le vie divine, tutti i percorsi, rettilinei e contorti, tutte le circostanze, nelle quali Dio ti viene incontro. Tutte le vie portano ad un'unica meta, pertanto in ogni circostanza si può desiderare Dio e conoscerlo. L'intera vita monastica insegna a coltivare il desiderio di Dio coltivando la devozione al cielo. "Tutta la tradizione benedettina, in particolare, - ha scritto J. Leclerq - si è modellata "sull'esistenza di San Benedetto: scienter nescia et sapienter indocta, essa raccoglierà l'insegnamento della dotta ignoranza, ne vivrà e la trasmetterà, la richiamerà e la terrà incessantemente presente all'attività culturale della Chiesa come un paradosso necessario..." Tale paradosso ha una straordinaria potenza e forza persuasiva in Ildegarda, nell'espressione della sua conoscenza per illuminazione o per visione. La sua vita monacale, noviziato che la esercita alla vita eterna, diventa luogo e tempo della sua missione, esercizio che apre tutti alla visione della stessa eternità e al cammino necessario per raggiungerla. La sua dotta ignoranza, la sua sapienza, tutta merito dell'opera di Dio nel debole vaso d'argilla della sua umanità, la abilita ad annunciare con forza all'uomo di tutti i tempi la sua possibilità e capacità di conoscere il significato proprio e del mondo. Ella può pertanto chiamare in causa radicalmente la libertà umana, posta ad ogni passo ad un bivio, nella scelta tra Cristo e l'anticristo. Può avvertire che, lontano da Dio, l'uomo non conosce il bene, poiché, "andando tastoni, può solo ammiccare con occhi ciechi, ma, nell'ombreggiato vigore conoscitivo della carne terrena, non vive affatto in modo autentico." La sua sapienza umana e divina è stata di grandissima utilità ai monaci del suo tempo, a persone di ogni tipo, ai poveri e ai potenti. A tutti Ildegarda, riproponendo le verità della fede e la sua concreta storicità nella Chiesa, ha prestato soccorso affinando "le orecchie della percezione interiore" perché potessero aspirare "con carità ardente" a tutto ciò che è specchio di Dio e a Dio stesso. Ildegarda non si fidava ciecamente di se stessa. Cercò tutte le conferme necessarie, poiché sapeva che la verità del contenuto dei suoi scritti era fatto di primaria importanza. Quando già aveva presso di sé, come magister e segretario, Volmar, quando già l'Arcivescovo e il capitolo del Duomo di Magonza l'avevano confermata a scrivere, cercò il giudizio e il conforto di Bernardo di Chiaravalle, il grande monaco cistercense, nel 1146: "Certissime et mitissime Pater, audi me, in tua bonitate, indignam famulam tuam... Bone Pater et mitissime, pono me in animam tuam, ora pro me, quia magnas labores in hac visione habeo." "Provo una grande pena - prosegue - in questa visione, non sapendo fino a che punto posso dire quello che ho visto e udito. Sì, talvolta, poiché taccio, vengo costretta a letto da tale visione con forti dolori, così da non riuscire più ad alzarmi... Sono istruita solo interiormente, nell'anima mia. Perciò parlo come nel dubbio... Più di due anni fa mi sei apparso in visione come un uomo che guarda verso il male senza paura, che anzi è molto audace. E ho pianto, perché io spesso arrossisco e mi vergogno... Però ora mi sollevo e corro a te: tu non vieni stroncato, ma guardi fisso verso l'albero e sei vittorioso sull'anima. E non elevi solo te stesso, ma sollevi anche il mondo nella direzione della salvezza. Tu sei l'aquila che guarda verso il sole... Venerabile padre Bernardo, per forza di Dio, sei meravigliosamente posto nel più alto onore. Tu sei causa di terrore per la follia di questo mondo... Padre, ti prego per il Dio vivente: ascolta le mie domande... per il tuo paterno amore e la tua saggezza, indaga nell'anima tua, così come te lo suggerisce lo Spirito Santo e, dal profondo del cuore, dona conforto alla tua serva." Bernardo le rispose, nel 1147 durante un suo iter germanicum: cauto, prudente, riferì tutto alla grazia di Dio: "Alla diletta in Cristo figlia Ildegarda, il fratello Bernardo, noto come abate di Clairvaux, invia la preghiera di un peccatore, se può qualcosa. Che dalla mia pochezza tu sembri avere un'opinione ben diversa da quella che ne ha la mia coscienza, credo sia da attribuire solo alla tua umiltà. Ma non ho affatto trascurato di rispondere alla lettera che ti ha dettata la tua carità, benché il cumulo degli affari mi obblighi a farlo molto più brevemente di quanto vorrei. Mi rallegro per la grazia di Dio che si manifesta in te. E per quanto è in me ti esorto e ti prego di considerarla proprio come grazia e di adoperarti a corrisponderle con tutto lo slancio dell'umiltà e della devozione, sapendo che "Dio resiste ai superbi concede la grazia agli umili" Del resto, dato che in te c'è un'intima consapevolezza e un'unzione che tutto rivela, che cosa ho da insegnare o da ammonire io? Piuttosto ti prego e ti chiedo supplichevolmente di ricordarti di me presso Dio e insieme di coloro che sono collegati con me nel Signore in unione spirituale."
Le opere
Le tre opere più imponenti di Ildegarda sono i suoi scritti visionari-teologici. Nello SCIVIAS (Conosci le vie), scritto fra il 1141 ed il 1151, in trentacinque visioni c'è la storia della salvezza incominciando dalla creazione dell'uomo e dal suo primo peccato, per arrivare fino all'ultimo giorno; la prima parte tratta dell'opera creatrice di Dio Padre, la seconda dei sacramenti, la terza della vita interiore dell'uomo, la sua intima lotta e le virtù quale mezzo per salire a Dio. La seconda grande opera, LIBER VITAE MERITORUM (Libro dei meriti della vita), fu scritta fra il 1158 e il 1163, nella forma di un dialogo fra vizi e virtù, e tratta del grande tema della ricerca dell'armonia fra la legge di Dio e la volontà dell'uomo. Ildegarda esamina trentacinque virtù e trentacinque vizi e descrive la sorte degli uomini beati e quella di coloro che hanno sciupato la loro vita. Nella terza opera, LIBER DIVINORUM OPERUM (Libro delle opere divine), scritta fra il 1161 e il 1173, Ildegarda in dieci visioni descrive la Creazione nel suo stretto rapporto con Dio, riprendendo l'immagine dell'uomo in una struttura complessa di rapporti fra microcosmo e macrocosmo. Ildegarda sostiene che l'interazione e l'armonia nella molteplicità del cosmo sono garantite fintanto che l'uomo obbedisce al suo creatore. L'uomo può uscire dall'ordine, può violarlo, ma il male porta con sé il castigo. Di quest'opera ci è rimasta un'antica copia, riccamente illustrata, conservata presso la Biblioteca Statale di Lucca. Molto interesse hanno suscitato negli anni recenti le sue opere medico-scientifiche. È Ildegarda stessa che ricorda di aver scritto delle opere mediche: i due trattati PHYSICA e CAUSAE ET CURAE si possono perciò collocare fra il 1151 ed il 1158. Di queste due opere non esistono manoscritti di epoca vicina a Ildegarda, ma solo copie più tarde. Rimangono perciò molti dubbi se ci siano state delle indebite aggiunte posteriori, anche perché alcune idee in esse espresse (sulla magia, sull'influsso degli astri) sono in contrasto con tutta la concezione di Ildegarda. Anche la produzione musicale di Ildegarda è molto vasta. Le sue 77 composizioni, inni, antifone, sequenze e canzoni (lieder) sono da lei raggruppate sotto il titolo SYMPHONIA HARMONIAE CAELESTIUM REVELATIONUM (Sinfonia dell'armonia delle rivelazioni celesti); furono probabilmente in gran parte scritte negli anni '50 e completate dopo la scrittura del Liber divinorum operum. A queste composizioni va aggiunto l'ORDO VIRTUTUM (La schiera delle virtù) un'opera destinata ad una specie di sacra rappresentazione in musica. La produzione musicale di Ildegarda ci è giunta attraverso due differenti codici, conservati uno in Belgio ed uno in Germania. Di grande importanza è anche tutta la corrispondenza di Ildegarda; le più di 300 lettere che ci sono pervenute sono indirizzate a personalità dell'intero occidente, papi, imperatori e re, vescovi, abati e badesse, sacerdoti e monaci ed anche laici. Infine si può menzionare un'opera strana e curiosa, costituita da diversi scritti crittografici, composti in una "lingua inventata", che ci sono pervenuti, ma non sono stati tuttora decifrati.
Ildegarda e alcuni dei suoi contributi
Gli uomini hanno elaborato vari modelli dell'universo nelle loro diverse stagioni culturali, scenari di sfondo, provvisori e insieme essenziali, perché capaci di 'salvare', di preservare le apparenze, nel senso di raccogliere tutti i fenomeni in una unità di senso e di realtà. Il modello medievale, normalmente, non interessava gli uomini spirituali, volti concretamente ai problemi dell'anima, alla sua caduta e alla sua redenzione. Questi anzi nutrivano una certa diffidenza nei suoi confronti anche per il fatto che, allora, cosmologia e religione non erano "semplicisticamente solidali". Il modello medievale, oggi lo sappiamo, era frutto di fantasia; non possiamo però dire che fosse falso o menzognero. L'immaginazione medievale si esercitò in esso con una straordinaria capacità produttiva, alla quale certamente Ildegarda ha partecipato e attinto allo stesso tempo con grande libertà. Le sue visioni sono infatti anche originali, straordinarie figurazioni intellettuali ed immaginifiche (poiché Dio le parlava dall'interno della sua cultura), sviluppate sulla base dell'immaginario collettivo medievale, nel quale erano attivi elementi naturalistici e astrologici ereditati dall'antichità precristiana. Anche da questo punto di vista l'opera di Ildegarda attende accurati studi. Le importantissime miniature delle sue visioni a noi pervenute (quelle dello Scivias furono elaborate molto probabilmente sotto la sua guida) sono immagini simboliche statiche; la santa vedeva invece immagini dinamiche, che mostravano lo svolgimento della storia della salvezza ed erano accompagnate dalla "voce della luce vivente", la "voce di colui che siede sul trono". Alle parole e alle immagini di Ildegarda occorre prestare un ascolto e uno sguardo memori di quanto ella stessa diceva di sé: "malata di pusillanimità di cuore e ripetutamente paralizzata dalla paura, talvolta risuono come un debole squillo di tromba della luce vivente. Mi aiuti Iddio a perseverare al suo servizio."
La visione unitaria del mondo
Per lunghi secoli, e con sviluppi importanti nelle età precristiane e quelle cristiane, si sono conosciute le relazioni di somiglianza, veicolate da identiche rappresentazioni immaginarie, tra le strutture dell'uomo e quelle del mondo. Se al primo si è guardato come ad un universo completo ma miniaturizzato, un microcosmo, il secondo è stato visto come un Corpo Totale, un Tutto umanizzato. Già nel VII secolo Gregorio Magno aveva detto: "Homo quaedammodo omnia" l'uomo è - in un certo modo - tutte le cose, racchiude in sé tutti gli ordini della natura (minerale, animato, spirituale) e, più profondamente, i quattro elementi dell'universo (aria, acqua, fuoco, terra). Nei primi decenni del XII secolo il tema del microcosmo ebbe grandissima diffusione, divenne una dottrina a partire dall'interpretazione che, nel IX secolo, ne aveva dato Scoto Eriugena. La scuola teologica di Chartres fu il luogo privilegiato dell'approfondimento di questa dottrina, che fa riferimento al Timeo di Platone, fondato sul parallelismo tra macrocosmo e microcosmo. I monaci cistercensi la fecero propria e la arricchirono; prestissimo la si trovò espressa e condivisa in tutti i centri di cultura, partecipata a tutte le mentalità. L'architettura dell'universo allora nota era quella tolemaica, con la Terra sferica al centro, i sette pianeti fissi sui sette cieli attorno ad essa, lo stellatum su cui appoggiavano tutte le stelle. Dopo questo stava il Primum mobile invisibile, dopo del quale si riteneva non esistesse "né luogo, né vuoto, né tempo" come aveva detto Aristotele. La cartografia medievale della Terra, la mappa mundi, era qualcosa a metà strada fra una realtà geografica , un racconto storico, un universo simbolico. Non serviva al mercante e al pellegrino, era una visione di sintesi spesso offerta ad un vasto e vario pubblico nelle chiese o nei conventi. Se il tipo iconografico più diffuso nel medioevo del rapporto fra microcosmo e macrocosmo, era la figura umana al centro di uno o più anelli su cui si trovavano raffigurati i segni dello zodiaco, un motivo nuovo o per la prima volta elaborato con chiarezza è quello proposto da Ildegarda nel Liber divinorum operum: l'uomo "splendore di bellezza e di luce" è rappresentato come il nucleo centrale di un cosmo a cerchi concentrici, abbracciati da Dio uno e trino. L'immagine ha una struggente somiglianza con quella della Trinità della stessa Ildegarda, che porta al centro Cristo. Il Rinascimento avrebbe ripreso questa iconografia solo nelle componenti geometrico-proporzionali, affidando ad esse il valore di allusione cosmologica. La grande battaglia di Ildegarda è contro l'autonomia umana, contro l'uomo regolato su di sé e pieno di sé, contro l'uomo che parla con spirito di empietà: "Non voglio ubbidire né a Dio, né a qualsiasi uomo! Voglio assicurarmi da solo ogni possibilità che possa recarmi vantaggio, come farebbe qualsiasi uomo che non sia pazzo!" Quest'uomo causa il lamento terribile di tutta la creazione: "E udii - scrive la santa - come gli elementi si volsero a quell'Uomo con un urlo selvaggio. E gridavano: 'Non riusciamo più a correre e a portare a termine la nostra corsa come disposto dal Maestro. Perché gli uomini con le loro cattive azioni ci rivoltano sottosopra come in una macina. Puzziamo già come peste e ci struggiamo per fame di giustizia.'" Cristo, vincitore di Satana, le dice tuttavia: "Io, suprema forza di fuoco, che accese ogni scintilla di vita, da cui nulla uscì di mortale, io decido di tutto ciò che è. Al cerchio dell'universo con le mie ali, cioè volandogli intorno con la mia sapienza, ho dato il giusto ordine. E di nuovo io, infiammata vita del divino essere originario, scintillo sulla bellezza dei terreni dei campi, brillo nelle acque, ardo nel sole, nella luna, nelle stelle. Con un soffio di vento, invisibile vita che dona pienezza, tutto trasformo in vita... Dunque io sono la forza di fuoco che segretamente riposa in tutto questo, tutto arde grazie a me, come il respiro tiene incessantemente in vita l'uomo e come nel fuoco si leva una fiamma accesa... Io sono anche la ragione che dispone del soffio del Verbo tonante, da cui ogni creatura venne creata, in ogni creatura ho destato il mio soffio di vita affinché nulla fosse prigioniero della mortalità, perché io sono la vita... Poiché da sempre, fin dall'eternità, era chiaro che Dio voleva veder creata la sua opera personale, l'uomo, e quando ebbe realizzato tale opera, a lei consegnò tutte le creature, affinché, servendosi di loro, anche l'uomo compisse le proprie opere, così come a sua volta Dio stesso aveva creato la sua opera, appunto l'uomo." "L'uomo è il recinto delle meraviglie di Dio".
La storia
Gli uomini del medioevo hanno fatto della storia del mondo un'unica vicenda, con un intreccio i cui snodi fondamentali sono la Creazione, la Caduta, la Redenzione, il Giudizio. Conoscere la storia era dunque per loro conoscere il destino dell'umanità, nel suo percorso terreno e in quello ultraterreno. È difficile mettersi nei loro panni, a riguardo di questo problema: "Nel medioevo si guardava al passato come se fosse contemporaneo; poiché si ignoravano le più ovvie e superficiali distinzioni tra i secoli, non si pensava minimamente di considerare e conoscere le differenze più profonde del temperamento e del clima mentale... Il passato si differenziava dal presente solo perché era migliore. Ogni epoca pullulava di amici, antenati, protettori." (Lewis). Quel passato e i suoi protagonisti aiutavano gli uomini ad affrontare le scelte del presente, poiché tutti erano consapevoli che unico, misterioso, terribile e carico di misericordia al tempo stesso, era il dramma della storia. Il senso e lo scopo della storia umana furono problemi profondamente meditati da Ildegarda e dal suo contesto monastico. Ma - ha scritto giustamente Gronau - ella non era interessata "al mutamento delle forme della storia dell'umanità. Non perché, come claustrale, vivesse segregata dal resto del mondo. Il suo cuore era aperto solo in una direzione, il suo sguardo era orientato verso una sola cosa: il senso e lo scopo della storia dell'umanità. Ella scriveva esclusivamente di quello che in esso è importante... nella prospettiva della rivelazione divina ed è certa che solo in questa prospettiva l'uomo può realmente conoscere il suo vero posto nella storia e assolvere il proprio compito..." Per lei dunque la storia è il dramma del contrasto tra Dio e il suo avversario, un dramma che si svolge nello spazio-tempo della terra e che si conclude solo quando Dio vince definitivamente il nemico suo e dell'uomo. La storia dell'uomo, di ogni uomo, è per lei la sequenza di episodi piccoli e grandi, carichi di tensione e di sorprese a causa della libertà dell'uomo, della infinita misericordia di Dio e dello spazio lasciato da Dio stesso ai movimenti del demonio. Quando sulla scena del mondo, con Gesù Cristo, appare colui che può e vuole strappare gli uomini alla morte dell'anima, l'uomo viene collocato in una nuova, inedita, posizione: "Quando egli, l'Agnello innocente, è stato innalzato sull'altare della croce per la salvezza degli uomini, ivi, nella più pura bellezza della fede e di ogni altra virtù, dal nascondimento in Dio, apparve improvvisamente la Chiesa, profondo e non misurabile mistero. Essa venne affidata nel cielo al Figlio unigenito. Cosa significa questo? Nel momento in cui è sgorgato sangue dal fianco ferito di questo mio Figlio, allora si è manifestata la salvezza delle anime. Ora, infatti, quello splendore dal quale era stato cacciato il diavolo con il suo seguito è assegnato all'uomo. Poiché proprio questi, il Figlio mio unigenito, prese su di sé la morte con la sua crocifissione, strappò all'inferno il suo bottino e guidò le anime dei fedeli alle sfere celesti. Così, nei suoi discepoli e in coloro che li hanno seguiti con cuore sincero, incominciò presto a fiorire e a rafforzarsi la fede, così hanno potuto diventare eredi del regno dei cieli". Se, fino alla fine dei tempi, lungo tutto il percorso della storia che Dio vuol concedere alla stirpe degli uomini, il dramma è aperto, la libertà dell'uomo è continuamente chiamata in causa, Dio, il regista del dramma, offre nella Chiesa un misterioso e potente sostegno, pur ammonendola che: "Il terribile assassino dell'uomo, il figlio della corruzione, verrà tra non molto, poiché già il giorno declina e il sole rallenta la sua corsa." Alla fine della storia, Gesù Cristo giudicherà il mondo. Allora: "Quando è terminato il giudizio, cessa anche l'infuriare degli elementi, cessano i lampi, tuoni, tempeste, tutte le cose cadenti e caduche si disgregano, non tornano più, si stabilisce una meravigliosa pace e tranquillità, come voleva Dio. È terminato il dramma della storia: et finitum est." Il mistero della storia si intreccia dunque profondamente col mistero della Chiesa, nella quale l'uomo fa esperienza di essere capace di salvezza; in altri termini, in Ildegarda "il compimento della creazione avviene nella Chiesa" (Schmidt), che è garanzia dell'amore costante di Dio alla sua creazione. Nella Chiesa all'uomo, microcosmo nel grande macrocosmo dell'universo, sono offerti futuro e salvezza. Essa, popolo nuovo, è la torre salda eretta da Dio dove gli uomini possono fermamente fronteggiare il nemico. È una torre aperta al mondo, perché tutti possano entrarvi.
L'eredità di Ildegarda
A conclusione di un dolorosissimo episodio, capitato nel convento di Ildegarda, nel quale ella aveva mostrato grande obbedienza insieme a forza morale di straordinaria tenuta, Christian, l'Arcivescovo di Magonza, così iniziava la lettera di riconciliazione: "Con i segni manifesti della tua santa condotta di vita e la sorprendente testimonianza della verità, o carissima signora in Cristo, i tuoi ordini, per non dire le tue preghiere, esercitano un forte potere sulla nostra anima, tanto che dobbiamo orientare e chinare il nostro cuore a tutto ciò che sappiamo corrispondere ai tuoi santi desideri..." Alla 'carissima signora in Cristo' tornano a guardare gli uomini di oggi, con meraviglia e ammirazione. Raramente però essi sono in possesso degli strumenti indispensabili per comprendere il suo messaggio e per condividerne l'umanità. Ildegarda infatti si è resa disponibile ad essere eco di una Voce, che dall'eternità penetra continuamente nel tempo e nello spazio, con una docilità e una semplicità di intenzioni, che non possono essere capiti con immediatezza dall'uomo d'oggi. Il suo convento, la Chiesa del suo tempo, la civiltà cristiana, in tutti i suoi aspetti, di una stagione ricca di frutti, sono matrici non occasionali della sua personalità, in tutte le sue espressioni. L'affettuosa tenerezza delle sue compagne di viaggio, le monache del suo convento, che hanno conosciuto la stessa matrice di fede e cultura, è stata premiata da Dio, alla morte di Ildegarda, con un grande segno: "Con la sua morte Dio mostrò chiaramente i meriti che essa aveva presso di lui. In cielo, al di sopra della stanza nella quale la beata vergine restituì a Dio l'anima beata, apparvero due luminosissimi archi di diverso colore. Essi occupavano uno spazio molto esteso e si allungavano verso i quattro punti della terra, uno da nord a sud e l'altro da est a ovest. Nel punto più alto in cui si incontravano i due archi brillava una luce chiara a forma di luna. Essa splendeva in lontananza e sembrava dissipare le tenebre notturne dal letto di morte. In tale luce si vedeva una croce rossa splendente, in un primo momento piccola, poi però sempre più grande, fino a raggiungere dimensioni gigantesche. La croce era attorniata da cerchi di vari colori nei quali si formavano altre piccole croci rosse splendenti. Dopo essersi allargate nel firmamento, si allungavano ancora verso est e sembravano chinarsi sulla terra proprio sopra la casa in cui la beata vergine era passata a miglior vita, avvolgendo tutto il monte di luce radiosa. Ci viene spontaneo credere che con un segno simile Dio abbia voluto manifestare su questa terra con quale pienezza di luce ha magnificato in cielo la sua amata." In questo segno è forse racchiuso il senso globale dell'eredità di Ildegarda: ogni uomo, come lei, è destinato ad una pienezza di luce che il creato, nel suo splendore, in qualche modo anticipa e che Cristo ha preannunciato nel sacrificio della croce. A lei, carissima signora in Cristo, cioè donna che ha concentrato la sua vita in una devozione senza riserve a Cristo, si volge da più una attenzione misteriosamente inscritta in quel desiderio di Dio che non abbandona mai l'uomo, per sua fortuna. "... la Chiesa desidera ringraziare la Santissima Trinità per il 'mistero della donna' e per ogni donna... La chiesa ringrazia per tutte le manifestazioni del 'genio' femminile apparse nel corso della storia, in mezzo a tutti i popoli e a tutte le nazioni; ringrazia per tutti i carismi che lo Spirito Santo elargisce alle donne nella storia del popolo di Dio, per tutte le vittorie che Essa deve alla loro fede, speranza e carità; ringrazia per tutti i frutti di santità femminile." (Giovanni Paolo II, Mulieris dignitatem).
"Ho fatto una scoperta o, dovrei dire, ho avuto una visione. L'ho avuta tra due tazze di caffè nero in un ristorante francese di Soho; ma non saprei spiegarla, neppure se tentassi di farlo. Comunque era che tutte le cose buone formano un tutt'uno... Questo è ciò che sento... adesso, ad ogni ora del giorno. Tutte le cose buone sono una cosa sola. È questo ciò che gli Ebrei dell'antichità, soli tra gli altri popoli, hanno percepito. I Greci, i Vichinghi e i Romani non furono attraversati come qualche rude israelita, una notte, nella solitudine del deserto, dall'improvvisa, abbagliante idea che tutto il mondo era la manifestazione di un solo Dio: un'idea degna di un romanzo poliziesco." (G. K. Chesterton, L'ortodossia)
C'è una tensione che attraversa quasi in sordina il mondo contemporaneo: la si può definire bisogno di una visione olistica, unitaria, dell'uomo, della natura, di Dio. Essa affiora, soprattutto, o deformata nelle correnti esoteriche, oppure concettualmente articolata, negli ambiti di scienza come la biologia, la chimica o la fisica... Qualche volta un poeta, come appunto Chesterton, giunge a percepirne concretamente la realtà, oppure un pittore, come Van Gogh, ce ne dà suggestiva rappresentazione attraverso il dinamismo estetico con cui investe al contempo cielo, terra, uomini, cose. La tradizione cristiana, nella sua storia, non solo ha conosciuto questa tensione ma ha saputo elaborarne, attraverso l'attività e la riflessione di alcune sue grandi personalità, uno sviluppo critico coerente. Ildegarda di Bingen, vissuta nel secolo d'oro del Medio Evo, il XII, è luminosa testimone della visione olistica della tradizione cristiana, visione che non è stata per lei soltanto fulminea intuizione, ma anche e soprattutto esercizio potente di uno sguardo e di un pensiero aperti alla totalità del reale. Conoscere la storia, le visioni, la dottrina, il sapere di Ildegarda è introdursi da una concezione dell'esistenza integralmente positiva, è scoprire che, nella costellazione delle grandi personalità cristiane, brilla anche la figura di una donna per la quale salute del corpo e salvezza dell'anima sono strettamente correlate (del resto l'una e l'altra sono indicate, in latino, dall'unica parola salus). L'intuizione di Chesterton e la percezione sensibile di Van Gogh appartengono alla verità esistenziale della condizione umana contemporanea. Ma, per chi la incontra oggi, Ildegarda spalanca una panoramica finestra su un meraviglioso paesaggio.
Ildegarda e il suo tempo - La vita
1098, estate. Nell'anno che precede la conquista di Gerusalemme da parte dei primi crociati, nacque, nei pressi di Alzey (nella regione dell'Assia Renana, a poco più di 30 km da Magonza), Ildegarda, decima e ultima figlia del nobile Ildelberto di Bermersheim e di sua moglie Matilda (il nome Ildegarda significa protettrice delle battaglie). Ben presto si manifestò la pronta ed acuta intelligenza della bambina, ma altrettanto instabile era la sua salute. La sua natura di visionaria comparve molto presto, se come lei stessa ci racconta: "Nel mio quinto anno di vita vidi una luce così grande che la mia anima ne fu scossa, però, per la mia tenera età, non potei parlarne..." È probabile che l'osservazione delle straordinarie doti della bambina abbia pesato nella decisione dei suoi genitori di affidarla, all'età di otto anni, alla maestra Jutta, una giovane di nobile lignaggio, figlia del conte di Spanheim, che si era appena ritirata in clausura presso il monastero benedettino di Disibodenberg, situato alla confluenza dei fiumi Glan e Nahe. Jutta "l'educò accuratamente all'umiltà e all'innocenza, la iniziò ai canti di David e le insegnò i salmi", scrive Goffredo, il primo biografo di Ildegarda. Oltre a Jutta, Ildegarda ebbe un altro maestro, il monaco Volmar, assistente spirituale della clausura, ed in seguito suo primo segretario; possiamo immaginare che fu lui a contribuire alla sua formazione, insegnandole le arti liberali che erano parte del patrimonio culturale dei monaci di quel tempo. Giunta all'adolescenza Ildegarda decise liberamente di porre la sua vita al servizio di Dio; pronunciò i voti dell'ordine benedettino e (tra il 1112 e il 1115) ricevette il velo dalle mani del vescovo Ottone di Bamberg. Passarono trent'anni senza che si verificassero grandi eventi, ma intanto: "La sua reverenda madre (Jutta) scopriva piena di meraviglia come la sua allieva fosse divenuta a sua volta maestra..." Così, quando nel 1136 Jutta morì, le monache che in quegli anni si erano radunate attorno a Jutta, la elessero badessa. Per cinque anni ancora la vita a Disibodenberg proseguì il suo corso tranquillo, ma quando Ildegarda arrivò ai quarantadue anni, mentre giaceva afflitta da una penosa malattia, una delle tante che l'avevano accompagnata nel corso della vita, la voce di Dio insistentemente le intimò: "Manifesta le meraviglie che apprendi... Oh tu fragile creatura... parla e scrivi ciò che vedi e senti..." Ildegarda, incerta, resisteva, e ciò aumentava le sue sofferenze fisiche; infine trovò la forza di manifestare quanto le accadeva a Volmar, che le consigliò di rendere noto quanto Dio le ispirava. Da quel momento le forze le ritornarono ed Ildegarda iniziò a comunicare le visioni che l'avevano accompagnata fin dalla più tenera età: iniziava così a scrivere il suo primo grande lavoro Scivias (Conosci le vie). Volmar e l'abate Kuno di Disibodenberg si convinsero dell'ispirazione divina di quanto Ildegarda andava rivelando, ed informarono di quanto udivano l'arcivescovo Enrico ed il capitolo della cattedrale di Magonza. Intanto la fama di Ildegarda si spandeva nella regione, giungendo anche alle orecchie di San Bernardo e del papa. Alla fine dell'anno 1147, il papa Eugenio III aveva infatti convocato un sinodo generale della chiesa a Treviri (che dista una settantina di chilometri da Disibodenberg), e da lì inviò una sua delegazione ad incontrare ed interrogare Ildegarda. Gli inviati del papa tornarono con un'ottima impressione; gli scritti di Ildegarda furono letti personalmente dal papa in un'assemblea plenaria del sinodo, nel quale lo stesso San Bernardo intervenne, chiedendo al papa di non tollerare che una tale luce luminosa venisse coperta dal silenzio. Così il papa diede a Ildegarda il permesso di rendere noto ciò che lo Spirito le ispirava e la incoraggiò a scrivere. L'evento del sinodo contribuì a spargere la fama di Ildegarda per tutta Europa; ne sono testimonianza le numerose lettere indirizzate a questa donna saggia e piena di Dio, che tanti le inviavano da ogni dove. Un numero sempre maggiore di nobili ragazze bussavano alla sua porta, ma la comunità femminile di Disibodenberg rimaneva una misera appendice del grandioso convento. Così lentamente Ildegarda maturò l'idea di fondare lei stessa un nuovo convento. L'ispirazione divina le suggerì la collina di Rupertsberg, luogo ameno, ma selvaggio e disabitato, situato a 25-30 km da Disibodenberg, vicino alla città di Bingen, alla confluenza della Nahe nel Reno. Però furono tali le resistenze e le difficoltà che si frapposero, in primis le resistenze dei monaci di Disibodenberg, che Ildegarda si scoraggiò e pensò di rinunciare all'idea. Per il grande travaglio cadde ammalata, e solo quando lei e le sue monache poterono finalmente partire, improvvisamente guarì. Gli aiuti per la costruzione del nuovo convento arrivarono generosi, ma solo verso il 1150 gli edifici cominciarono ad accogliere la ventina di monache della comunità.
La vita a Rupertsberg dovette essere molto dura, agli inizi, e l'indipendenza costò non poco alle monache, tanto che una parte di loro se ne andarono; fra di esse anche la discepola preferita di Ildegarda, Riccarda, che allettata dall'offerta di un suo potente fratello, arcivescovo di Brema, divenne badessa di Birsin (morendo però solo un anno dopo). La situazione del convento gradualmente migliorò, grazie a nuove donazioni; nel 1152 fu consacrata la chiesa del convento e probabilmente per questa occasione Ildegarda scrisse la sua opera musicale Ordo virtutum (La schiera delle virtù), grande esempio delle sue doti musicali. I rapporti con Disibodenberg rimasero però tesi, perché i monaci non volevano cedere beni e terreni che molte delle monache avevano portato in dote a quel convento. La tensione arrivò al massimo nel 1155, quando l'abate Kuno pretese che anche Volmar, che si era trasferito a Rupertsberg con le monache, tornasse indietro. Allora Ildegarda stessa raggiunse a cavallo Disibodenberg, presentandosi senza preavviso davanti a Kuno; l'abate fu costretto a convocare il capitolo, a riconoscere i suoi torti ed a concedere alle monache quello a cui avevano diritto, compreso la guida spirituale di Volmar. Alla morte di Kuno, avvenuta l'anno dopo, Ildegarda concluse un accordo con il suo successore, per uno scambio di terreni fra i due conventi che garantì una buona stabilità a Rupertsberg. Il convento si consolidò ulteriormente quando Ildegarda ottenne la protezione dell'arcivescovo di Magonza e nel 1163 dello stesso imperatore, Federico Barbarossa. Con l'imperatore Ildegarda aveva avuto buoni rapporti fin dal 1154, quando egli, colpito dalla sua fama, l'aveva invitata nel suo castello di Ingelheim. Ciò non le impedì di prendere risolutamente posizione contro di lui, a favore del papa legittimo Alessandro III, quando l'imperatore entrò in contrasto col papato, e fece eleggere due successivi antipapi. Gli indirizzò diverse lettere rivolgendogli, in nome di Dio, parole molto forti: "…Colui che è dice: la ribellione la distruggo e la resistenza di coloro che mi si oppongono l'anniento... Guai, guai alle male azioni dei sacrileghi che mi disprezzano!". L'imperatore non si vendicò, ma non rispose ed il legame con Ildegarda si spezzò. Sotto la saggia guida di Ildegarda, la comunità di Rupertsberg viveva nella gioia e nella concordia, suscitando ammirazione ovunque. Così scrive il monaco fiammingo Viberto (che si era recato nel 1177 a visitare Rupertsberg, e che vi rimase come ultimo segretario di Ildegarda): "La madre circonda le figlie con tale amore, e le figlie si sottomettono alla madre con tale reverenza, che si stenta a distinguere se siano le figlie o la madre a riportare la vittoria. Praticano con zelo letture e canti e le si può vedere intente a scrivere libri, a tessere paramenti sacri o dedite ad altri lavori manuali". In questo periodo Ildegarda scrisse anche la seconda sua opera più importante, il Liber vitae meritorum (Libro dei meriti della vita). Il convento di Rupersberg attirava sempre più giovani, così che dopo dieci anni dalla fondazione cominciò a diventare insufficiente. Ildegarda cercò allora un altro luogo, e lo trovò non troppo distante, sulla riva opposta del Reno, ad Eibingen, dove esisteva un convento agostiniano semidistrutto. Ildegarda si accordò con la proprietaria di quei luoghi, gli edifici furono ricostruiti e già nel 1165 le prime monache cominciarono a risiedervi. Ildegarda, due volte la settimana attraversava il Reno per assistere le sue monache del nuovo convento; questi aumentati impegni non le impedirono comunque di iniziare l'altra sua opera principale, il Liber divinorum operum (Il libro delle opere divine). Ormai anziana, ma piena di energie, Ildegarda non mancò di portare la sua parola, fatto straordinario per una donna, lontano dal suo convento, compiendo quattro grandi viaggi di predicazione. Il primo iniziò alla fine degli anni '50 e la condusse lungo il fiume Meno. Il secondo si svolse nel 1160; dapprima Ildegarda predicò a Treviri, poi risalì il corso della Mosella fin dopo Lothringen, l'ultima tappa fu Metz. Tra il 1161 e il 1163 discese il Reno e visitò le città di Boppard, Andernach, Sieburg, Colonia e Werden. Il quarto viaggio fu intrapreso verso il 1170 ed ebbe per meta la Svevia; là predicò a Maulbronn, Hirsau e Zwiefalten. La predica che tenne il giorno di Pentecoste a Treviri è giunta fino a noi: "Io povera creatura, a cui mancano salute, vigore, forza e istruzione, ho udito nella luce misteriosa del vero volto le seguenti parole per il clero di Treviri: i doctores e magistri non vogliono più dar fiato alla tromba della giustizia, perciò e scomparsa in loro l'aurora delle opere buone: se non espiate i vostri peccati, dai nemici verrà alla città un castigo di fuoco". L'eccezionale autorità spirituale che Ildegarda aveva guadagnato le permetteva tale decisione e durezza. Così non esitò a eseguire l'incarico divino di cui si sentiva investita, anche se in questo periodo le malattie la tormentavano in modo particolare (con sottile autoironia scriveva: "Perché non insuperbisca Dio mi ha costretta a letto"). Anche a Colonia fu molto dura con il clero locale: "Per la vostra disgustosa ricchezza ed avidità, nonché per altre vanità, non istruite i vostri sottoposti", ma altrettanto decisa contro l'eresia dei catari, i puri, che si era diffusa anche in quella città. Ildegarda era ormai vecchia, ma non le furono risparmiate ulteriori prove. Nel 1173 morì il suo fedele consigliere ed amico Volmar, ed ella dovette combattere a lungo, rivolgendosi anche al papa, perché l'abate di Disibodenberg le concedesse un nuovo assistente, Goffredo, che morì però presto, nel 1176. Nel 1178 la sua pietà per un giovane cavaliere morto a Bingen, al quale aveva concesso la sepoltura nel cimitero di Rupertsberg, le costò una lunga disputa col clero di Magonza. Secondo i canonici della cattedrale quel cavaliere si era macchiato di un grave crimine, era stato scomunicato, perciò non poteva avere una sepoltura religiosa e Ildegarda doveva allontanare subito il nobile dalla terra consacrata, altrimenti il convento sarebbe stato colpito dall'interdetto. Ildegarda sapeva che il cavaliere si era pentito e confessato prima della morte. Non volle cedere all'intimazione e cancellò ogni traccia della sepoltura. Si preparò alla difesa e si recò personalmente a Magonza a sostenere le sue ragioni. Ma non riuscì a convincere i prelati, che confermarono l'interdetto. Allora l'indomita Ildegarda trovò il modo di mettersi in comunicazione direttamente con l'arcivescovo di Magonza, Cristiano, che in quel periodo era Roma. Da lontano egli ordinò un'indagine, che sembrò chiarire la vera dinamica delle vicende, così che l'interdetto fu revocato. Ma la questione fu riaperta una seconda volta dagli ostinati canonici di Magonza, e solo una seconda perorazione diretta di Ildegarda all'arcivescovo, sempre lontano, riuscì a chiudere l'incidente. Ormai Ildegarda era molto vecchia e gli scontri con il capitolo del duomo di Magonza le avevano minato le forze. Le monache la sentivano sempre più spesso sospirare. "Vorrei essere liberata e stare vicino a Cristo", ed una notte la luce risplendette di nuovo in lei e le annunciò il giorno in cui sarebbe stata liberata dal peso del suo corpo. Tranquillamente Ildegarda si preparò alla morte, che sopravvenne nel giorno che le era stato predetto, il 17 settembre 1179, dopo che tutte le monache da lei radunate ebbero intonato, per un suo ultimo desiderio, canti nuziali.
Ildegarda e il suo rapporto con la vita monastica
La regola
La regola è il sicuro alveo nel quale scorre la vita dei monaci, ed anche se ogni grande famiglia monastica la "reinventa" e la sottolinea secondo il suo proprio carisma, da Agostino a Francesco d'Assisi essa non manca mai di costituire il fondamento su cui si costruisce la possibilità di una vita in comune. Ildegarda è benedettina, vive la regola, parla della regola e nei suoi scritti si rifà alla regola con allusioni, con citazioni che le vengono spontanee, nominando S. Benedetto assai più spesso di qualsiasi altro santo. Scrive anche una sorta di breve trattato sulla Regola di S. Benedetto, intitolato Explanatio regulae Benedicti, per rispondere a una richiesta fatta con grande deferenza e stima: "Ad Ildegarda, tempio dello Spirito Santo, reverenda sposa di Cristo, diletta da Dio, e stimatissima Maestra delle sorelle di santo Ruperto di Bingen..." da un cenobio di canonici agostiniani, i quali espressamente le chiedono un commento della regola di S. Benedetto: "... Infatti anche se voleste interpretare per noi tutta la santa Scrittura, nulla potreste offrirci che sia altrettanto utile a noi e da noi altrettanto ambito quanto la vostra esposizione della regola...". Introducendo la sua risposta Ildegarda dice di Benedetto che egli fu una ricca fonte dalla quale sgorgano le acque della saggezza divina. Egli pose il perno della sua dottrina non troppo in alto, né troppo in profondo, ma nel "centro della ruota". La ruota è immagine di Dio, del Dio incarnato: dunque Benedetto ha posto a misura, a regola della sua norma di vita, la vita di Cristo. Imitare la vita e la passione di Cristo non vuol dire però ricercare penitenze straordinarie: per Ildegarda la via che Benedetto ha tracciato è discreta e piana, mentre prima di lui la vita monastica era durissima, fatta solo di penitenza e di deserto (ella non ha mai disprezzo del corpo, che è al servizio dell'anima, ma ha i suoi diritti ed un alto valore). La virtù dell'obbedienza è lo specifico della regola: l'obbedienza impone di non seguire la propria volontà, ma di ritornare a Dio dal quale ci siamo allontanati per la pigrizia della disobbedienza. Nella regola la voce di Dio a cui obbedire non è una voce astratta, ma è la voce del superiore, dell'abate.
La cultura
La conoscenza è per la monaca benedettina Ildegarda un cammino di illuminazione che la impegna nel compito di trasmettere quanto ascolta e vede, non solo agli uomini del suo tempo, ma anche alle generazioni future. Per questo la sua prima opera scritta ha titolo Scivias: Conosci le vie, cioè presta attenzione, guarda, scruta le vie divine, tutti i percorsi, rettilinei e contorti, tutte le circostanze, nelle quali Dio ti viene incontro. Tutte le vie portano ad un'unica meta, pertanto in ogni circostanza si può desiderare Dio e conoscerlo. L'intera vita monastica insegna a coltivare il desiderio di Dio coltivando la devozione al cielo. "Tutta la tradizione benedettina, in particolare, - ha scritto J. Leclerq - si è modellata "sull'esistenza di San Benedetto: scienter nescia et sapienter indocta, essa raccoglierà l'insegnamento della dotta ignoranza, ne vivrà e la trasmetterà, la richiamerà e la terrà incessantemente presente all'attività culturale della Chiesa come un paradosso necessario..." Tale paradosso ha una straordinaria potenza e forza persuasiva in Ildegarda, nell'espressione della sua conoscenza per illuminazione o per visione. La sua vita monacale, noviziato che la esercita alla vita eterna, diventa luogo e tempo della sua missione, esercizio che apre tutti alla visione della stessa eternità e al cammino necessario per raggiungerla. La sua dotta ignoranza, la sua sapienza, tutta merito dell'opera di Dio nel debole vaso d'argilla della sua umanità, la abilita ad annunciare con forza all'uomo di tutti i tempi la sua possibilità e capacità di conoscere il significato proprio e del mondo. Ella può pertanto chiamare in causa radicalmente la libertà umana, posta ad ogni passo ad un bivio, nella scelta tra Cristo e l'anticristo. Può avvertire che, lontano da Dio, l'uomo non conosce il bene, poiché, "andando tastoni, può solo ammiccare con occhi ciechi, ma, nell'ombreggiato vigore conoscitivo della carne terrena, non vive affatto in modo autentico." La sua sapienza umana e divina è stata di grandissima utilità ai monaci del suo tempo, a persone di ogni tipo, ai poveri e ai potenti. A tutti Ildegarda, riproponendo le verità della fede e la sua concreta storicità nella Chiesa, ha prestato soccorso affinando "le orecchie della percezione interiore" perché potessero aspirare "con carità ardente" a tutto ciò che è specchio di Dio e a Dio stesso. Ildegarda non si fidava ciecamente di se stessa. Cercò tutte le conferme necessarie, poiché sapeva che la verità del contenuto dei suoi scritti era fatto di primaria importanza. Quando già aveva presso di sé, come magister e segretario, Volmar, quando già l'Arcivescovo e il capitolo del Duomo di Magonza l'avevano confermata a scrivere, cercò il giudizio e il conforto di Bernardo di Chiaravalle, il grande monaco cistercense, nel 1146: "Certissime et mitissime Pater, audi me, in tua bonitate, indignam famulam tuam... Bone Pater et mitissime, pono me in animam tuam, ora pro me, quia magnas labores in hac visione habeo." "Provo una grande pena - prosegue - in questa visione, non sapendo fino a che punto posso dire quello che ho visto e udito. Sì, talvolta, poiché taccio, vengo costretta a letto da tale visione con forti dolori, così da non riuscire più ad alzarmi... Sono istruita solo interiormente, nell'anima mia. Perciò parlo come nel dubbio... Più di due anni fa mi sei apparso in visione come un uomo che guarda verso il male senza paura, che anzi è molto audace. E ho pianto, perché io spesso arrossisco e mi vergogno... Però ora mi sollevo e corro a te: tu non vieni stroncato, ma guardi fisso verso l'albero e sei vittorioso sull'anima. E non elevi solo te stesso, ma sollevi anche il mondo nella direzione della salvezza. Tu sei l'aquila che guarda verso il sole... Venerabile padre Bernardo, per forza di Dio, sei meravigliosamente posto nel più alto onore. Tu sei causa di terrore per la follia di questo mondo... Padre, ti prego per il Dio vivente: ascolta le mie domande... per il tuo paterno amore e la tua saggezza, indaga nell'anima tua, così come te lo suggerisce lo Spirito Santo e, dal profondo del cuore, dona conforto alla tua serva." Bernardo le rispose, nel 1147 durante un suo iter germanicum: cauto, prudente, riferì tutto alla grazia di Dio: "Alla diletta in Cristo figlia Ildegarda, il fratello Bernardo, noto come abate di Clairvaux, invia la preghiera di un peccatore, se può qualcosa. Che dalla mia pochezza tu sembri avere un'opinione ben diversa da quella che ne ha la mia coscienza, credo sia da attribuire solo alla tua umiltà. Ma non ho affatto trascurato di rispondere alla lettera che ti ha dettata la tua carità, benché il cumulo degli affari mi obblighi a farlo molto più brevemente di quanto vorrei. Mi rallegro per la grazia di Dio che si manifesta in te. E per quanto è in me ti esorto e ti prego di considerarla proprio come grazia e di adoperarti a corrisponderle con tutto lo slancio dell'umiltà e della devozione, sapendo che "Dio resiste ai superbi concede la grazia agli umili" Del resto, dato che in te c'è un'intima consapevolezza e un'unzione che tutto rivela, che cosa ho da insegnare o da ammonire io? Piuttosto ti prego e ti chiedo supplichevolmente di ricordarti di me presso Dio e insieme di coloro che sono collegati con me nel Signore in unione spirituale."
Le opere
Le tre opere più imponenti di Ildegarda sono i suoi scritti visionari-teologici. Nello SCIVIAS (Conosci le vie), scritto fra il 1141 ed il 1151, in trentacinque visioni c'è la storia della salvezza incominciando dalla creazione dell'uomo e dal suo primo peccato, per arrivare fino all'ultimo giorno; la prima parte tratta dell'opera creatrice di Dio Padre, la seconda dei sacramenti, la terza della vita interiore dell'uomo, la sua intima lotta e le virtù quale mezzo per salire a Dio. La seconda grande opera, LIBER VITAE MERITORUM (Libro dei meriti della vita), fu scritta fra il 1158 e il 1163, nella forma di un dialogo fra vizi e virtù, e tratta del grande tema della ricerca dell'armonia fra la legge di Dio e la volontà dell'uomo. Ildegarda esamina trentacinque virtù e trentacinque vizi e descrive la sorte degli uomini beati e quella di coloro che hanno sciupato la loro vita. Nella terza opera, LIBER DIVINORUM OPERUM (Libro delle opere divine), scritta fra il 1161 e il 1173, Ildegarda in dieci visioni descrive la Creazione nel suo stretto rapporto con Dio, riprendendo l'immagine dell'uomo in una struttura complessa di rapporti fra microcosmo e macrocosmo. Ildegarda sostiene che l'interazione e l'armonia nella molteplicità del cosmo sono garantite fintanto che l'uomo obbedisce al suo creatore. L'uomo può uscire dall'ordine, può violarlo, ma il male porta con sé il castigo. Di quest'opera ci è rimasta un'antica copia, riccamente illustrata, conservata presso la Biblioteca Statale di Lucca. Molto interesse hanno suscitato negli anni recenti le sue opere medico-scientifiche. È Ildegarda stessa che ricorda di aver scritto delle opere mediche: i due trattati PHYSICA e CAUSAE ET CURAE si possono perciò collocare fra il 1151 ed il 1158. Di queste due opere non esistono manoscritti di epoca vicina a Ildegarda, ma solo copie più tarde. Rimangono perciò molti dubbi se ci siano state delle indebite aggiunte posteriori, anche perché alcune idee in esse espresse (sulla magia, sull'influsso degli astri) sono in contrasto con tutta la concezione di Ildegarda. Anche la produzione musicale di Ildegarda è molto vasta. Le sue 77 composizioni, inni, antifone, sequenze e canzoni (lieder) sono da lei raggruppate sotto il titolo SYMPHONIA HARMONIAE CAELESTIUM REVELATIONUM (Sinfonia dell'armonia delle rivelazioni celesti); furono probabilmente in gran parte scritte negli anni '50 e completate dopo la scrittura del Liber divinorum operum. A queste composizioni va aggiunto l'ORDO VIRTUTUM (La schiera delle virtù) un'opera destinata ad una specie di sacra rappresentazione in musica. La produzione musicale di Ildegarda ci è giunta attraverso due differenti codici, conservati uno in Belgio ed uno in Germania. Di grande importanza è anche tutta la corrispondenza di Ildegarda; le più di 300 lettere che ci sono pervenute sono indirizzate a personalità dell'intero occidente, papi, imperatori e re, vescovi, abati e badesse, sacerdoti e monaci ed anche laici. Infine si può menzionare un'opera strana e curiosa, costituita da diversi scritti crittografici, composti in una "lingua inventata", che ci sono pervenuti, ma non sono stati tuttora decifrati.
Ildegarda e alcuni dei suoi contributi
Gli uomini hanno elaborato vari modelli dell'universo nelle loro diverse stagioni culturali, scenari di sfondo, provvisori e insieme essenziali, perché capaci di 'salvare', di preservare le apparenze, nel senso di raccogliere tutti i fenomeni in una unità di senso e di realtà. Il modello medievale, normalmente, non interessava gli uomini spirituali, volti concretamente ai problemi dell'anima, alla sua caduta e alla sua redenzione. Questi anzi nutrivano una certa diffidenza nei suoi confronti anche per il fatto che, allora, cosmologia e religione non erano "semplicisticamente solidali". Il modello medievale, oggi lo sappiamo, era frutto di fantasia; non possiamo però dire che fosse falso o menzognero. L'immaginazione medievale si esercitò in esso con una straordinaria capacità produttiva, alla quale certamente Ildegarda ha partecipato e attinto allo stesso tempo con grande libertà. Le sue visioni sono infatti anche originali, straordinarie figurazioni intellettuali ed immaginifiche (poiché Dio le parlava dall'interno della sua cultura), sviluppate sulla base dell'immaginario collettivo medievale, nel quale erano attivi elementi naturalistici e astrologici ereditati dall'antichità precristiana. Anche da questo punto di vista l'opera di Ildegarda attende accurati studi. Le importantissime miniature delle sue visioni a noi pervenute (quelle dello Scivias furono elaborate molto probabilmente sotto la sua guida) sono immagini simboliche statiche; la santa vedeva invece immagini dinamiche, che mostravano lo svolgimento della storia della salvezza ed erano accompagnate dalla "voce della luce vivente", la "voce di colui che siede sul trono". Alle parole e alle immagini di Ildegarda occorre prestare un ascolto e uno sguardo memori di quanto ella stessa diceva di sé: "malata di pusillanimità di cuore e ripetutamente paralizzata dalla paura, talvolta risuono come un debole squillo di tromba della luce vivente. Mi aiuti Iddio a perseverare al suo servizio."
La visione unitaria del mondo
Per lunghi secoli, e con sviluppi importanti nelle età precristiane e quelle cristiane, si sono conosciute le relazioni di somiglianza, veicolate da identiche rappresentazioni immaginarie, tra le strutture dell'uomo e quelle del mondo. Se al primo si è guardato come ad un universo completo ma miniaturizzato, un microcosmo, il secondo è stato visto come un Corpo Totale, un Tutto umanizzato. Già nel VII secolo Gregorio Magno aveva detto: "Homo quaedammodo omnia" l'uomo è - in un certo modo - tutte le cose, racchiude in sé tutti gli ordini della natura (minerale, animato, spirituale) e, più profondamente, i quattro elementi dell'universo (aria, acqua, fuoco, terra). Nei primi decenni del XII secolo il tema del microcosmo ebbe grandissima diffusione, divenne una dottrina a partire dall'interpretazione che, nel IX secolo, ne aveva dato Scoto Eriugena. La scuola teologica di Chartres fu il luogo privilegiato dell'approfondimento di questa dottrina, che fa riferimento al Timeo di Platone, fondato sul parallelismo tra macrocosmo e microcosmo. I monaci cistercensi la fecero propria e la arricchirono; prestissimo la si trovò espressa e condivisa in tutti i centri di cultura, partecipata a tutte le mentalità. L'architettura dell'universo allora nota era quella tolemaica, con la Terra sferica al centro, i sette pianeti fissi sui sette cieli attorno ad essa, lo stellatum su cui appoggiavano tutte le stelle. Dopo questo stava il Primum mobile invisibile, dopo del quale si riteneva non esistesse "né luogo, né vuoto, né tempo" come aveva detto Aristotele. La cartografia medievale della Terra, la mappa mundi, era qualcosa a metà strada fra una realtà geografica , un racconto storico, un universo simbolico. Non serviva al mercante e al pellegrino, era una visione di sintesi spesso offerta ad un vasto e vario pubblico nelle chiese o nei conventi. Se il tipo iconografico più diffuso nel medioevo del rapporto fra microcosmo e macrocosmo, era la figura umana al centro di uno o più anelli su cui si trovavano raffigurati i segni dello zodiaco, un motivo nuovo o per la prima volta elaborato con chiarezza è quello proposto da Ildegarda nel Liber divinorum operum: l'uomo "splendore di bellezza e di luce" è rappresentato come il nucleo centrale di un cosmo a cerchi concentrici, abbracciati da Dio uno e trino. L'immagine ha una struggente somiglianza con quella della Trinità della stessa Ildegarda, che porta al centro Cristo. Il Rinascimento avrebbe ripreso questa iconografia solo nelle componenti geometrico-proporzionali, affidando ad esse il valore di allusione cosmologica. La grande battaglia di Ildegarda è contro l'autonomia umana, contro l'uomo regolato su di sé e pieno di sé, contro l'uomo che parla con spirito di empietà: "Non voglio ubbidire né a Dio, né a qualsiasi uomo! Voglio assicurarmi da solo ogni possibilità che possa recarmi vantaggio, come farebbe qualsiasi uomo che non sia pazzo!" Quest'uomo causa il lamento terribile di tutta la creazione: "E udii - scrive la santa - come gli elementi si volsero a quell'Uomo con un urlo selvaggio. E gridavano: 'Non riusciamo più a correre e a portare a termine la nostra corsa come disposto dal Maestro. Perché gli uomini con le loro cattive azioni ci rivoltano sottosopra come in una macina. Puzziamo già come peste e ci struggiamo per fame di giustizia.'" Cristo, vincitore di Satana, le dice tuttavia: "Io, suprema forza di fuoco, che accese ogni scintilla di vita, da cui nulla uscì di mortale, io decido di tutto ciò che è. Al cerchio dell'universo con le mie ali, cioè volandogli intorno con la mia sapienza, ho dato il giusto ordine. E di nuovo io, infiammata vita del divino essere originario, scintillo sulla bellezza dei terreni dei campi, brillo nelle acque, ardo nel sole, nella luna, nelle stelle. Con un soffio di vento, invisibile vita che dona pienezza, tutto trasformo in vita... Dunque io sono la forza di fuoco che segretamente riposa in tutto questo, tutto arde grazie a me, come il respiro tiene incessantemente in vita l'uomo e come nel fuoco si leva una fiamma accesa... Io sono anche la ragione che dispone del soffio del Verbo tonante, da cui ogni creatura venne creata, in ogni creatura ho destato il mio soffio di vita affinché nulla fosse prigioniero della mortalità, perché io sono la vita... Poiché da sempre, fin dall'eternità, era chiaro che Dio voleva veder creata la sua opera personale, l'uomo, e quando ebbe realizzato tale opera, a lei consegnò tutte le creature, affinché, servendosi di loro, anche l'uomo compisse le proprie opere, così come a sua volta Dio stesso aveva creato la sua opera, appunto l'uomo." "L'uomo è il recinto delle meraviglie di Dio".
La storia
Gli uomini del medioevo hanno fatto della storia del mondo un'unica vicenda, con un intreccio i cui snodi fondamentali sono la Creazione, la Caduta, la Redenzione, il Giudizio. Conoscere la storia era dunque per loro conoscere il destino dell'umanità, nel suo percorso terreno e in quello ultraterreno. È difficile mettersi nei loro panni, a riguardo di questo problema: "Nel medioevo si guardava al passato come se fosse contemporaneo; poiché si ignoravano le più ovvie e superficiali distinzioni tra i secoli, non si pensava minimamente di considerare e conoscere le differenze più profonde del temperamento e del clima mentale... Il passato si differenziava dal presente solo perché era migliore. Ogni epoca pullulava di amici, antenati, protettori." (Lewis). Quel passato e i suoi protagonisti aiutavano gli uomini ad affrontare le scelte del presente, poiché tutti erano consapevoli che unico, misterioso, terribile e carico di misericordia al tempo stesso, era il dramma della storia. Il senso e lo scopo della storia umana furono problemi profondamente meditati da Ildegarda e dal suo contesto monastico. Ma - ha scritto giustamente Gronau - ella non era interessata "al mutamento delle forme della storia dell'umanità. Non perché, come claustrale, vivesse segregata dal resto del mondo. Il suo cuore era aperto solo in una direzione, il suo sguardo era orientato verso una sola cosa: il senso e lo scopo della storia dell'umanità. Ella scriveva esclusivamente di quello che in esso è importante... nella prospettiva della rivelazione divina ed è certa che solo in questa prospettiva l'uomo può realmente conoscere il suo vero posto nella storia e assolvere il proprio compito..." Per lei dunque la storia è il dramma del contrasto tra Dio e il suo avversario, un dramma che si svolge nello spazio-tempo della terra e che si conclude solo quando Dio vince definitivamente il nemico suo e dell'uomo. La storia dell'uomo, di ogni uomo, è per lei la sequenza di episodi piccoli e grandi, carichi di tensione e di sorprese a causa della libertà dell'uomo, della infinita misericordia di Dio e dello spazio lasciato da Dio stesso ai movimenti del demonio. Quando sulla scena del mondo, con Gesù Cristo, appare colui che può e vuole strappare gli uomini alla morte dell'anima, l'uomo viene collocato in una nuova, inedita, posizione: "Quando egli, l'Agnello innocente, è stato innalzato sull'altare della croce per la salvezza degli uomini, ivi, nella più pura bellezza della fede e di ogni altra virtù, dal nascondimento in Dio, apparve improvvisamente la Chiesa, profondo e non misurabile mistero. Essa venne affidata nel cielo al Figlio unigenito. Cosa significa questo? Nel momento in cui è sgorgato sangue dal fianco ferito di questo mio Figlio, allora si è manifestata la salvezza delle anime. Ora, infatti, quello splendore dal quale era stato cacciato il diavolo con il suo seguito è assegnato all'uomo. Poiché proprio questi, il Figlio mio unigenito, prese su di sé la morte con la sua crocifissione, strappò all'inferno il suo bottino e guidò le anime dei fedeli alle sfere celesti. Così, nei suoi discepoli e in coloro che li hanno seguiti con cuore sincero, incominciò presto a fiorire e a rafforzarsi la fede, così hanno potuto diventare eredi del regno dei cieli". Se, fino alla fine dei tempi, lungo tutto il percorso della storia che Dio vuol concedere alla stirpe degli uomini, il dramma è aperto, la libertà dell'uomo è continuamente chiamata in causa, Dio, il regista del dramma, offre nella Chiesa un misterioso e potente sostegno, pur ammonendola che: "Il terribile assassino dell'uomo, il figlio della corruzione, verrà tra non molto, poiché già il giorno declina e il sole rallenta la sua corsa." Alla fine della storia, Gesù Cristo giudicherà il mondo. Allora: "Quando è terminato il giudizio, cessa anche l'infuriare degli elementi, cessano i lampi, tuoni, tempeste, tutte le cose cadenti e caduche si disgregano, non tornano più, si stabilisce una meravigliosa pace e tranquillità, come voleva Dio. È terminato il dramma della storia: et finitum est." Il mistero della storia si intreccia dunque profondamente col mistero della Chiesa, nella quale l'uomo fa esperienza di essere capace di salvezza; in altri termini, in Ildegarda "il compimento della creazione avviene nella Chiesa" (Schmidt), che è garanzia dell'amore costante di Dio alla sua creazione. Nella Chiesa all'uomo, microcosmo nel grande macrocosmo dell'universo, sono offerti futuro e salvezza. Essa, popolo nuovo, è la torre salda eretta da Dio dove gli uomini possono fermamente fronteggiare il nemico. È una torre aperta al mondo, perché tutti possano entrarvi.
L'eredità di Ildegarda
A conclusione di un dolorosissimo episodio, capitato nel convento di Ildegarda, nel quale ella aveva mostrato grande obbedienza insieme a forza morale di straordinaria tenuta, Christian, l'Arcivescovo di Magonza, così iniziava la lettera di riconciliazione: "Con i segni manifesti della tua santa condotta di vita e la sorprendente testimonianza della verità, o carissima signora in Cristo, i tuoi ordini, per non dire le tue preghiere, esercitano un forte potere sulla nostra anima, tanto che dobbiamo orientare e chinare il nostro cuore a tutto ciò che sappiamo corrispondere ai tuoi santi desideri..." Alla 'carissima signora in Cristo' tornano a guardare gli uomini di oggi, con meraviglia e ammirazione. Raramente però essi sono in possesso degli strumenti indispensabili per comprendere il suo messaggio e per condividerne l'umanità. Ildegarda infatti si è resa disponibile ad essere eco di una Voce, che dall'eternità penetra continuamente nel tempo e nello spazio, con una docilità e una semplicità di intenzioni, che non possono essere capiti con immediatezza dall'uomo d'oggi. Il suo convento, la Chiesa del suo tempo, la civiltà cristiana, in tutti i suoi aspetti, di una stagione ricca di frutti, sono matrici non occasionali della sua personalità, in tutte le sue espressioni. L'affettuosa tenerezza delle sue compagne di viaggio, le monache del suo convento, che hanno conosciuto la stessa matrice di fede e cultura, è stata premiata da Dio, alla morte di Ildegarda, con un grande segno: "Con la sua morte Dio mostrò chiaramente i meriti che essa aveva presso di lui. In cielo, al di sopra della stanza nella quale la beata vergine restituì a Dio l'anima beata, apparvero due luminosissimi archi di diverso colore. Essi occupavano uno spazio molto esteso e si allungavano verso i quattro punti della terra, uno da nord a sud e l'altro da est a ovest. Nel punto più alto in cui si incontravano i due archi brillava una luce chiara a forma di luna. Essa splendeva in lontananza e sembrava dissipare le tenebre notturne dal letto di morte. In tale luce si vedeva una croce rossa splendente, in un primo momento piccola, poi però sempre più grande, fino a raggiungere dimensioni gigantesche. La croce era attorniata da cerchi di vari colori nei quali si formavano altre piccole croci rosse splendenti. Dopo essersi allargate nel firmamento, si allungavano ancora verso est e sembravano chinarsi sulla terra proprio sopra la casa in cui la beata vergine era passata a miglior vita, avvolgendo tutto il monte di luce radiosa. Ci viene spontaneo credere che con un segno simile Dio abbia voluto manifestare su questa terra con quale pienezza di luce ha magnificato in cielo la sua amata." In questo segno è forse racchiuso il senso globale dell'eredità di Ildegarda: ogni uomo, come lei, è destinato ad una pienezza di luce che il creato, nel suo splendore, in qualche modo anticipa e che Cristo ha preannunciato nel sacrificio della croce. A lei, carissima signora in Cristo, cioè donna che ha concentrato la sua vita in una devozione senza riserve a Cristo, si volge da più una attenzione misteriosamente inscritta in quel desiderio di Dio che non abbandona mai l'uomo, per sua fortuna. "... la Chiesa desidera ringraziare la Santissima Trinità per il 'mistero della donna' e per ogni donna... La chiesa ringrazia per tutte le manifestazioni del 'genio' femminile apparse nel corso della storia, in mezzo a tutti i popoli e a tutte le nazioni; ringrazia per tutti i carismi che lo Spirito Santo elargisce alle donne nella storia del popolo di Dio, per tutte le vittorie che Essa deve alla loro fede, speranza e carità; ringrazia per tutti i frutti di santità femminile." (Giovanni Paolo II, Mulieris dignitatem).