DISCERNERE

Uno sguardo profetico sugli eventi

TORNIAMO A CANTARE LA NUOVA ANNUNCIAZIONE. DAVIDE RONDONI

L a si sentì cantare per aria. E la si sentirà di nuovo oggi, domenica. È da circa 1.500 an­ni che si canta. È la voce del Regina Coeli, che in tanti canteranno con il Papa. Perché il Pa­pa, a dispetto di quel che tanti dicono e qual­cuno pensa davvero, non è solo. E non c’è mo­do migliore del canto insieme per far sentire la compagnia a un uomo. Ma in un certo sen­so, è proprio una strana canzone. Una strana preghiera. Se uno la legge bene. La compose, si dice, Gregorio Magno. Lui diceva che la a­vessero composta gli angeli. L’aveva sentita una mattina di Pasqua. Le prime tre righe, e lui, il padre del canto liturgico, aggiunse solo la quarta. Una canzone in cui si dice a Maria di 'laetare', di rallegrarsi. Perché suo Figlio, co­me aveva detto, è risorto. È la canzone che an­che Dante fa risuonare nel XXIV canto del Pa­radiso, cantata da beati che sono come 'fan­tolini', bimbi piccolissimi, appena staccati dal seno della madre. Alla Regina del cielo si rivolgeranno dunque oggi, domenica, i cat­tolici d’Italia, con tutta la coscienza della gra­vità del momento in cui qualcosa di 'terrifi­cante' come ha detto Benedetto XVI ha at­taccato la Chiesa da dentro, ma anche con la fiammata d’amore lieto e in pace che Dante vede in quei piccolini appena nutriti dal latte materno.

È un canto di gioia. Una 'nuova annuncia­zione' l’aveva definita lo stesso Benedetto. Gli uomini annunceranno alla Regina che deve stare allegra. Come per uno strano rovescia­mento di ruoli, se così si può dire. Di solito è la Madre che consola. Da 1.500 anni circa la Chiesa canta questa preghiera, dolcissima e struggente. Come un annuncio che gli uomi­ni fanno a Maria. Come se lei,
Mater doloro­sa

come molti oggi sono nel dolore, avesse bi­sogno di quell’annuncio. Unico annuncio che fa davvero
laetare il cuore umano, pur se tra­versato da sette e settemila spade.

Si riferiva al
Regina Coeli anche l’ultima me­ditazione di Giovanni Paolo II. Fu letta il gior­no dopo la sua morte, era il 3 aprile, una do­menica. Prima di concludere quella riflessio­ne che lui non lesse mai con le parole della canzone, Giovanni Paolo II ricordava: «quan­to bisogno ha il mondo di comprendere e di accogliere la Divina Misericordia». È come se la canzone che si canterà oggi riportasse un po’ nel vento anche queste sue parole non pronunciate qui in terra. Da Papa a Papa, co­me da amico ad amico. Perché gli uomini ri­petono quell’annuncio alla Madonna? Non è strano che ci rivolgiamo in questo modo a Lei, la madre di Cristo? Come se potessimo noi, per una volta, consolare Lei, dirle 'ralle­grati', sii lieta. Strana, meravigliosa canzone. Non sono cer­to un teologo, e molte cose mi sfuggono, ma c’è una misteriosa forza poetica in quelle pa­role. È come se dovessimo dire a Lei, e ripete­re così a noi stessi perché Lei è una di noi, che il corpo che era nascosto nel suo ventre pri­ma della nascita, e poi nascosto nella terra o­ra sì, è risorto ed è visibile tra noi. Come se dovessimo dire a Lei, che lo ha sentito cre­scere nel segreto delle proprie viscere – tre­mando e soffrendo come ogni madre – e poi lo ha visto calare nel segreto delle tenebre mortali - piangendo e volendo morire come ogni madre che vede così il figlio: 'Guarda Ma­ria, è qui, è vivo. Puoi di nuovo guardare Tuo figlio. Come noi lo intravvediamo nel segno velato e commovente della Sindone e poi ora lo vediamo, nel segno vivo e vociante del Suo popolo'. Come se noi dovessimo e potessi­mo dirLe, mentre ci si stringe intorno al Papa: sii lieta con noi, Regina bellissima, perché ve­di, è vivo. E la morte non ha avuto dominio su di Lui.

Lo cantiamo da 1500 anni, lo canteremo do­mani. Lo si canterà per sempre.


© Copyright Avvenire 16 maggio 2010