martedì 7 settembre 2010
Una scatola nera, li ha definiti Cominelli in un precedente articolo. Si riferiva ai ragazzi che fra qualche giorno varcheranno i portoni delle nostre scuole e con passo più o meno strascicato si avvicineranno ai banchi in classe. Con in testa vecchie e nuove geometrie da costruire. Buono il termine scatola nera, perché se ci pensiamo bene contiene in sé contemporaneamente la descrizione del problema (una certa inconoscibilità), ma anche la sua possibile soluzione. In termini tecnici aeronautici la scatola nera è quello strumento che custodisce in sé dati preziosissimi utili a far luce su un disastro.
Allo stesso modo i ragazzi: possiamo capirli non solo osservandoli o descrivendoli, ma interpellandoli. Ossia ascoltando cosa hanno da dire, partendo però da una certezza: che non sono scatole vuote. Appunto. Allora partiamo da come generalmente, e l’avverbio è d’obbligo, si presentano a noi. Innanzitutto se sono chiamati “nativi digitali” dai sociologi un motivo deve pur esserci: le nuove tecnologie hanno decisamente caratterizzato lo stile di vita, e influenzato i sistemi di pensiero, di questa generazione di giovani.
Sono i giovani delle e-mail, dei blog e delle chat, di MSN, di Facebook e di Twitter, di un’accelerazione senza precedenti. La diffusione e l’uso estensivo, se non addirittura esclusivo, della messaggistica on-line ha messo prepotentemente a tema la questione dell’immediatezza. Botta-risposta, azione-reazione: tutto accade in tempo reale, on line. La messaggistica istantanea richiede risposte immediate, poco elaborate e semplicistiche; risposte che sono a scapito di forma, sintassi e contenuto. Spesso si tratta di messaggi che hanno valore in sé, in quanto messaggi, indipendentemente dal contenuto che veicolano, spesso infatti assente.
I famosi squilli o trilli del cellulare hanno questa funzione rassicurante, si fanno garanti dell’esistenza di una qualche forma di rapporto, reale o presupposto fa poca differenza. A seguito di questa immediatezza diventata forma del rapporto, apparentemente niente dura, niente soddisfa se non nell’istante. Nasce pertanto la continua necessità di trovare qualcosa di nuovo, di eccitante che è sempre in un altrove indefinito per scacciare la così diffusa esperienza della noia.
L’esaltazione di un istante privo di passato e di futuro nel quale vengono anche meno le conseguenze per gli atti compiuti è il risultato logico ed esistenziale dello smarrimento della concezione di rapporto. Il tempo infatti si ritrova parcellizzato e isolato nella sua precarietà proprio perché cessa di far parte di un continuum di rapporto. È solo dentro una concezione di rapporto in cui il soggetto si muove col proprio altro per un reciproco beneficio che il tempo assume il suo significato. Il tempo è, infatti, il tempo del rapporto.
Proprio al contrario dell’immediatezza, il bene è sempre mediato dalla presenza dell’altro, il bene come tale viene ricevuto all’interno di un rapporto con l’altro, rapporto che necessita di essere coltivato e curato. Minare il concetto di tempo e rapporto significa minare la possibilità stessa dell’esperienza. È un tratto comune di molti ragazzi di medie e superiori la caduta degli interessi e il loro appiattimento su modelli imposti dalle logiche di marketing e di profitto delle aziende che producono beni destinati a loro. L’orizzonte personale viene progressivamente ridotto, chiuso all’interno di un recinto dove faticano ad entrare proposte diverse da ciò che rappresenta il sentito comune giovanile.
Di fronte a questo panorama gli adulti, anche a scuola, si trovano davanti a un bivio: autpensare l’ineluttabilità della situazione con conseguenti strategie di contenimento delle perdite e relativa rassegnazione sui possibili risultati; aut riconoscere ciò che resta ancora presente in questi ragazzi e ragazze che costituisca materia prima di un lavoro di rilancio del rapporto con gli altri e con la realtà. Trovo che sarebbe ugualmente un errore trattare i ragazzi in classe cercando di digitalizzare ingenuamente la funzione dell’insegnante (che risulterebbe patetico come certi genitori giovanilisti) oppure all’altro estremo arroccandosi su stili, metodologie e programmi che funzionavano decenni fa. Non è il fideistico affidarsi alla tecnologia e al suo linguaggio né costituire sacche di resistenza ostinata ai nuovi linguaggi che potranno aiutare il lavoro comune.
Non possiamo neanche ridurci ad amplificare il mito dell’insegnante giovane, vicino di età, che per questo solo motivo sarebbe davvero capace di capire gli studenti e parlare il loro slang. Occorre invece ripartire proprio dai ragazzi tenendo conto della loro specifica situazione culturale e sociale, e iniziando a prestare loro fiducia. Ricentrando la questione dal rapporto con loro. È un errore trattarli come degli eterni adolescenti in crisi, a volte brufolosi e sempre preda degli ormoni, incomprensibili e inafferrabili per natura, rinchiusi in un mondo inaccessibile. La maggior parte dei ragazzi che in questi anni ho incontrato aveva in sé il desiderio di essere preso sul serio, nonostante magari facesse di tutto per non invogliare a questa posizione.
Magari in modo residuale, ma in loro persiste sempre questo desiderio inespresso di essere stimati in quanto soggetti ambiziosi di esserci nel mondo e dire la loro. La loro mente resta aperta all’universo, vogliosa di conoscere la realtà. A patto di incontrare qualcuno che la presenti in unitarietà, senza frammentazioni schizofreniche. Benedetto XVI nel recente discorso ai giovani ci ha parlato di sé: “Se penso ai miei anni di allora: semplicemente non volevamo perderci nella normalità della vita borghese”. Ecco, i ragazzi di oggi sembrano invece effettivamente persi dentro una nuova normalità borghese che è stata preparata per loro dai grandi; eppure cercano ancora la soddisfazione come e dove possono, trovando risposte che loro stessi giudicano insoddisfacenti cui si adeguano nonostante tutto.
Occorre pertanto lasciar cadere, da parte del mondo della scuola, ogni rassegnazione e ogni esitazione: in un contesto in cui il sociale e persino la famiglia sembrano aver gettato le armi, la scuola rappresenta oggi l’occasione di un’offerta di qualità che possa alzare lo sguardo, aprire gli orizzonti e suggerire soluzioni alle questioni individuali. Credendo fermamente che esista davvero una questione individuale in ciascuno di loro e partendo proprio da questa.
Se sollecitati da una proposta affascinante, non necessariamente modernistica, ma che parta dal loro sentire e dalle loro esigenze, i giovani sanno ancora aderire, ciascuno secondo una modalità sempre personale che va riconosciuta, rispettata e semmai rielaborata. Le soluzioni vanno ritrovate a due diversi livelli, di pari dignità e non disgiungibili: un livello politico-organizzativo che deve tener conto delle mutate condizioni giovanili e produrre il necessario rinnovamento del sistema, ed un livello squisitamente personale. Quanto a quest’ultimo c’è un passo, banale e al contempo assai efficace, con cui partire in questo nuovo inizio d’anno, che potrebbe avere anche il sapore di un proposito.
Alla portata di ciascuno, basta solo pensarci prima di uscire di casa. È importante che l’adulto che questi ragazzi si ritrovano in classe la mattina dimostri con tutto se stesso di essersi preparato all’appuntamento con loro, perché di appuntamento si tratta. Ogni singolo giorno di scuola. Appuntamento alias confermata disponibilità al rapporto. Ben preparato non significa solo con lezioni adeguatamente meditate e confezionate, ma anche curato e gradevole nella presentazione di sé. Proporsi come un soggetto possibilmente non nevrotizzato (e pertanto non nevrotizzante), dall’abbigliamento curato e pensato è il primo elementare modo per trasmettere la nostra simpatia e rispetto verso l’umanità dei ragazzi.
Un modo semplice per invogliare l’altro del rapporto a collaborare e per comunicare il nostro apprezzamento per la vita, per il tempo storico in cui viviamo. Perché è nel qui e nell’ora che si gioca il rapporto, passando anche dalla riaffermazione della dignità del luogo-scuola, distinto dai non-luoghi abitualmente frequentati. Centri commerciali in primis.
Uno spunto questo che forse potrà far sorridere ironicamente se non addirittura innervosire qualcuno per la sua banalità e apparente lontananza con le questioni “alte”, quelle che contano davvero. Eppure credo sia in grado di fare la differenza e un ottimo punto di partenza. Anche perché certi tratti sono irresistibilmente contagiosi. E riescono a generare un clima.