DISCERNERE

Uno sguardo profetico sugli eventi

Il risveglio della Turchia cristiana

Nonostante le discriminazioni, la violenza e la pressione sociale, c’è una generazione che vuole tornare alla fede dei propri antenati. Voci da un paese incuriosito da Gesù Cristo.

di Benedetta Frigerio

«Quel paese è pieno di cristiani». Sono le parole di Jacques, giovane francese cattolico e studioso di archeologia, pronunciate al ritorno da un viaggio in Turchia. Parole che paiono assurde quando le cronache dal paese riportano gli aspri scontri politici seguiti al referendum costituzionale del 12 settembre. In campo due forze, che sembrano le uniche realtà del paese. Quella dei laicisti, avversi a qualsiasi espressione pubblica della religiosità, in opposizione alla nuova borghesia musulmana, rappresentata dal capo del governo Erdogan. I primi costituiscono la vecchia classe dirigente, presente nella magistratura e nell’esercito, che condusse la rivoluzione kemalista nel 1923 e che creò la nuova repubblica di Turchia, fondando lo Stato nascente su un’identità fatta della sola opposizione alla tradizione e alla religione. Contro l’esercito e la Costituzione che ne tutela i poteri, la nuova borghesia musulmana e le forze estremiste. Queste, coltivando il sogno di uno Stato islamico, stanno crescendo sfruttando la debolezza della giovane identità turca.
L’osservazione di Jacques mette in luce la presenza di un terzo fattore, nascosto ai media e descritto a Tempi dal sacerdote cristiano che lo ha accompagnato nel suo viaggio e che vive da alcuni anni in Turchia: «Qui c’è una nuova generazione che sta ritornando cristiana. Dico che sta ritornando perché lo era già prima della rivoluzione kemalista (i cristiani erano il 25 per cento della popolazione, ndr). Molti giovani, che pensano di essere di tradizione musulmana o laicista, iniziano a indagare sul passato, scoprono che i loro antenati sono cristiani e si convertono: molti ritrovano in casa le bibbie e i vangeli che appartenevano ai loro nonni». Perciò i numeri ufficiali, che parlano di 140 mila cristiani su una popolazione di 74 milioni (lo 0,2 per cento circa), non sarebbero troppo attendibili. «Molti si convertono e solo per paura non lo dichiarano», confida il sacerdote. Anche se le autorità e i gruppi terroristici che controllano la popolazione se ne stanno accorgendo, «perché tutti noi religiosi, insieme alla gente che ci frequenta, siamo schedati e controllati dal governo e dagli estremisti».
Si spiega così il radicalizzarsi degli scontri e degli attentati contro i cristiani, da parte delle cellule terroristiche. L’escalation degli ultimi anni, a partire dall’assassinio di don Santoro nel 2006, del giornalista turco armeno Hrant Dink e dei tre giovani missionari protestanti in una casa editrice cristiana nel 2007 a Malatya, fino alla recente uccisione di monsignor Padovese, dimostrano che «i musulmani hanno sempre più paura che il loro disegno di potere, che vorrebbe la Turchia a capo dei paesi islamici, venga meno. Mentre l’esercito laicista non ha troppo interesse a proteggere i cristiani perché la sua identità debole e giovane, gli rende avversa un’identità forte come la nostra». Ma che cosa permette questo risveglio? Lo si capisce dalle storie di diversi convertiti incontrati da Jacques: «Quasi tutti incominciano col farsi qualche domanda circa la loro fede. Se prima non trovavano risposta, oggi hanno la possibilità di farlo grazie anche alla globalizzazione e ai nuovi media. La gente vissuta nella censura di Stato per 80 anni, ora ha la possibilità di conoscere e scoprire le proprie origini». Certo è dura perché chi si converte è messo in difficoltà dalle comunità d’appartenenza. «Suran, musulmano, convertito da quando ha scoperto che esisteva un dio cristiano che non solo chiede di tollerare i nemici, ma di perdonarli, riceve pressioni continue nel suo villaggio. Altri fanno centinaia di chilometri per andare a Messa: conosco chi ha addirittura perso il lavoro per avere tempo di accedere ai sacramenti». Altri però non reggono e fanno una doppia vita. Ci si accorge dei molti cristiani stando fra la gente. «A volte – continua il sacerdote – bastano solo degli sguardi per capirsi. Ne ho incrociati molti, soprattutto dopo l’uccisione di Padovese. Ricordo che nei giorni successivi, mentre camminavo in paese, il fruttivendolo, che teoricamente non dovrebbe sapere che sono prete, mi disse: “Io non sono così, noi non siamo così”. Rimasi di sasso, capii che quell’uomo era con me».

Una santità popolare nascosta
L’impressione è quella di una santità popolare nascosta: «Mi vengono in mente i russi. Dopo 80 anni di regime sembrava che la Chiesa fosse morta. Con la caduta del muro si vide il riaffiorare della cristianità, custodita dalla memoria del popolo. A tutta questa gente bisogna rispondere. Se non lo si fa rischiamo che la nuova generazione nascente imploda. Esiste una cristianità che attende di rivivere». Per questo occorre insistere che venga «riconosciuto il diritto alla libertà religiosa. Oggi contemplato ma non effettivo». In Turchia, infatti, la Chiesa cattolica e tutte le minoranze religiose non hanno personalità giuridica. Non si possono aprire nuove chiese né conventi. Teoricamente esiste la libertà di credo per il singolo, ma di fatto non essendoci riconoscimento pubblico è impedita. La Messa è tollerata solo in alcuni luoghi. «Io la dico privatamente in casa mia». Circostanze che, secondo il sacerdote, inducono a ripensare le modalità della presenza cristiana. «Fin’ora si è creduto che l’importante fosse esserci, ora bisogna ricominciare a spiegare anche la ragione del nostro esserci».
Come scriveva il 10 settembre su Avvenire il presidente dell’Ufficio per i Diritti Umani di Missio-Aachen: «Il compito centrale della Chiesa è il suo mandato missionario. Ma per molto tempo in Turchia le circostanze sono state tali da proibire praticamente ogni attività missionaria per timore delle conseguenze di queste eventuali conversioni. Le circostanze sono un po’ cambiate, al punto che almeno in certi ambienti illuminati della Turchia – quasi senza eccezione in grandi città come Istanbul, Smirne e Ankara, ma anche negli insediamenti prevalentemente dominati dagli aleviti moderati – la conversione al cristianesimo non è più considerata a priori come un autentico suicidio sociale. Se la Chiesa vuole sfruttare queste opportunità, deve però saper comunicare con la gente».


La Turchia ricorda a tutta Europa che la politica deve sedere a capotavola

Un sì popolare alle riforme di Erdogan

di Tempi
Può arrivare dalla Turchia di Recep Tayyip Erdogan, controverso leader islamista che vorrebbe salvare l’Iran di Ahmadinejad dall’isolamento internazionale e che ha spinto sull’orlo della rottura l’alleanza strategica fra il suo paese e Israele, una lezione politica all’Europa e all’Italia? Sì, quando la lezione consiste in un referendum emendativo della costituzione turca che grazie alla vittoria dei “sì” restituisce al Parlamento e ai tribunali civili poteri e giurisdizione su materie fino a ieri sotto il controllo della casta dei magistrati, supportata da quella dei militari autori del golpe del 1980 da cui derivò la costituzione che è stata emendata. Per uno di quei paradossi di cui la storia è prodiga, oggi assistiamo alla promozione della sovranità popolare in un paese a democrazia limitata, nel mentre che le antiche, consolidate democrazie degli stati nazione europei la umiliano lasciando decidere l’80 per cento delle proprie leggi alla burocrazia comunitaria di Bruxelles e l’intera materia dei diritti umani a una Corte che siede a Strasburgo. La lezione vale doppiamente per l’Italia, paese che non solo, come gli altri dell’Unione Europea, ha da tempo abdicato all’esercizio di gran parte della sovranità popolare a vantaggio dell’eurotecnocrazia, ma ha pure appaltato i momenti decisivi della sua vita politica alle cangianti e volubili sentenze delle sue Corti d’appello e della sua Corte costituzionale. La sovranità del popolo italiano esercitata attraverso il Parlamento oggi resta appesa alla sentenza che i magistrati emetteranno il 14 dicembre prossimo circa la legge sul legittimo impedimento. Come tutti i leader politici, Erdogan e Silvio Berlusconi possono essere discussi e contestati. Ma è un’altra ironia della storia che tocchi proprio a due dei leader politici europei più discussi difendere la sostanza della democrazia contro chi l’ha trasformata in vuota crisalide.

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