Tratto da Il Mattino di Napoli del 23 agosto 2010
Tramite il blog di Claudio Risé
Non c’è più la penombra, quella zona in cui cose e persone si lasciano vedere o si nascondono, seguendo desideri, bisogni, e senso dell’opportunità. Siamo nell’epoca della rivelazione continua.
È la modernità, il tempo in cui, diceva lo scrittore tedesco Ernst Jünger già molti anni fa: «Si direbbe che un’esplosione abbia avuto luogo su tutto il pianeta. Il minimo recesso è strappato dall’ombra da una luce cruda». Si tratta, naturalmente, della «bomba» (o sistema) dell’informazione.
È questo il grande riflettore sotto il quale scorrono costantemente le nostre vite e i nostri pensieri. Per le autorità politiche e civili la massima visibilità è un dovere verso gli elettori, in quanto garanzia di trasparenza nei comportamenti legati alle loro funzioni.
Ci sono a volte degli eccessi. Forse non fu giusto che l’allora adolescente Chelsea Clinton dovesse modificare il proprio modo di essere e di apparire per la popolarità dei genitori. Tuttavia la politica è, in tutto il mondo, una professione specializzata, e la rinuncia alla privacy fa parte del costo del potere cui si ambisce. Che dire però degli altri, quelli che non desiderano nessun speciale potere, e che cadono comunque sotto i grandi riflettori informatici: la ragazzina o il disabile che si ritrovano su YouTube per uno scherzo, l’ex fidanzata ritratta sui manifesti affissi nel paese, l’imprenditore che per proteggere la vita dell’azienda deve controllare con pignoleria, oltre alla propria vita privata, quella dei familiari per evitare gli effetti su banche e clienti di comportamenti sopra le righe?
L’effetto più grave della scomparsa della penombra però, riguarda tutti noi. Cosa provoca il venire esposti quotidianamente a migliaia di immagini (l’overdose dell’informazione) emozionanti ed a volte terribili, che riguardano eventi anche molto lontani, su cui nella maggior parte dei casi non possiamo intervenire, ma che ci colpiscono profondamente, in modo non sempre consapevole e quindi ancora più insidioso?
La comunicazione mediatica globale ci abitua a non essere davvero presenti dove siamo, con le persone accanto. Ci trascina fuori dalle strade del paese o dalle lenzuola del letto, per appassionarci per altri, altrove, più che alla nostra vita quotidiana. L’Io però, e la nostra psiche, non sono così flessibili da reggere questi spostamenti dalle emozioni quotidiane ad altre, lontane, mitiche, senza subire piccole o grandi scissioni che ci separano gradualmente dalla nostra identità reale, senza fornircene un’altra.
Ogni informazione può essere preziosa (le sofferenze di popoli lontani, ad esempio), a condizione di viverla coi piedi ben piantati per terra, e condividendola col nostro prossimo, che solo quando comincia nelle persone accanto a noi può essere anche ovunque.
Per molte persone, invece, i contenuti dei media si trasformano in oggetti di identificazione. A volte diventano l’ideale, la ragione di vita, o di morte. Come la tragedia jugoslava per quel camionista inglese che, sconvolto dalle riprese del massacro di Vitiez, in Bosnia, si uccise dandosi fuoco davanti al Parlamento britannico, perché non faceva abbastanza. In altri casi le immagini mediatiche diventano l’oggetto amato eroticamente, parte dell’identità del fan, come per le tante donne che raccontano in terapia di aver sostituito nell’immaginazione la star del momento al marito, cadendo poi nella depressione e nei sensi di colpa.
Ritrovare noi stessi passa dal ripristinare zone di penombra tra noi e i distanti, anche se ciò comporta la rinuncia all’illuminazione globale e continua. La troppa luce acceca.