I più piccoli fra i reietti. Quelli che nessuno vuole. Sono gli oltre milletrecento bambini e ragazzi disabili che vivono nelle strutture socioassistenziali (un po’ più dell’otto per cento dei minori fuori famiglia). La metà di loro ha un disturbo psichico e tanti sono rom. Alcuni vivono in un reparto d’ospedale e restano in corsia a tempo indeterminato: "Dimissioni difficili", si definiscono quelle che li riguardano.
E c’è chi sta addirittura peggio: i piccoli che cioè nascono, vivono e crescono dentro l’ospedale (perché non hanno un luogo dove stare), che diventa una specie d’orfanatrofio con medici, lenzuola bianche e caposala. I bambini abbandonati nelle strutture sanitarie sono soprattutto disabili o gravemente malati, che non sempre vi rimangono per mancanza di una famiglia che sappia (o possa) prendersi cura di loro. Tant’è che a volte sono "obbligati" a restarci, visto che le famiglie non riescono a riportarli in casa per l’assenza dei presidi sanitari necessari, anche quando si tratta di quelli salvavita. Soltanto l’anno scorso al polo pediatrico Bambino Gesù di Roma il servizio sociale è stato costretto a intervenire ben trentadue volte per quelle "dimissioni difficili" (dodici delle quali si sono rivelate ben più che difficili).
«Non tutte le situazioni sono uguali», spiega Lucia Celesti, responsabile dei servizi sociali proprio del Bambino Gesù: «Le cause possono essere di tipo sanitario o sociale. Nel primo caso le dimissioni vengono ostacolate dalla difficoltà di ottenere un’adeguata risposta nel territorio, che dovrebbe garantire la prosecuzione della terapia a domicilio». Poiché la situazione italiana è assai variegata, «in alcuni casi può diventare particolarmente complicato».
Ci sono poi altri casi nei quali «le famiglie non ci sono o se ci sono possono essere inadeguate a prendersi cura del bambino». Ovvio che il peggio sia «quando le difficoltà sanitarie si saldano al disagio sociale» e dunque «rischiano di diventare insormontabili». Capitolo chiuso? Macché. Ci sono poi i tanti bimbi che arrivano dall’estero per curarsi a Roma. Vengono da ogni parte del mondo accompagnati dai genitori e fanno parte dei flussi invisibili delle migrazioni sanitarie, quelle la cui posta in gioco è la sopravvivenza dei figli. «Partono per operarsi o anche per il trapianto di un organo, ma a volte sono costretti a restare in Italia per l’impossibilità di ottenere presidi sanitari adeguati nel loro Paese», racconta ancora la dottoressa Celesti. Le Asl così arrancano.
Quei genitori stravolgono la propria vita per stare accanto ai loro bambini, che a volte rimangono in ospedale per tempi molto più lunghi del necessario. E fuori dagli ospedali le case famiglia attrezzate per fronteggiare problemi così complessi sono pochissime, le famiglie adottive e affidatarie scarseggiano e anche gli hospice sono troppo pochi. Così alcuni bimbi diventano appunto grandi dentro un ospedale, con "mamma e papà" che sono i medici, gli infermieri e i volontari. Ad esempio Ismet vive al Bambino Gesù: per lui non ci sono né una comunità familiare né nuovi genitori.
A qualcuno invece è andata meglio. Nel quartiere Pineta Sacchetti, da diciotto anni Casa Betania accoglie mamme con figli e bambini soli da zero a otto anni, ma anche piccoli con disabilità. «Ci arrivò la richiesta di accogliere un bimbo gravemente disabile abbandonato all’ospedale San Giovanni», ricorda Silvia Terranera che, col marito Giuseppe Dolfini, è responsabile della Casa. Il piccolo morì dopo pochi mesi ma il suo passaggio, per quanto breve, ebbe il risultato di cambiare la vocazione della casa famiglia, ampliandone definitivamente gli orizzonti. Il secondo ospite venne da un Paese africano: aveva appena due anni, un disturbo dello sviluppo aggravato da sindrome autistica ed era approdato in Italia dopo aver viaggiato nel deserto con la nonna...
Avvenire 18 settembre 2010