DISCERNERE

Uno sguardo profetico sugli eventi

Santuari, i polmoni della fede. Gianfranco Ravasi

Secondo i calcoli dell’americana Mary Lee Nolan, nella sola Europa occidentale sarebbero 6000 le chiese che entrano nella categoria di "santuario", cioè di quel luogo sacro verso il quale converge, quasi a raggiera, un itinerario di fede per celebrare una memoria e una presenza sacra cristiana. Proprio questo movimento centripeto, dall’esterno verso il centro, costituisce l’evento "pellegrinaggio". A noi ora interessa evocare il profilo del pellegrinaggio al santuario come itinerario verso quel centro ove si ha l’incontro con Dio, con Cristo, con la storia della salvezza, con Maria, coi martiri, coi santi. Un incontro che è esteriormente costituito da città (pensiamo a Gerusalemme e a Roma per il cristianesimo), da villaggi (Lourdes, Fatima), da montagne, segno di trascendenza (i monti sacri), da pietre (Muro del Tempio, Sepolcro di Cristo, Cupola della roccia a Gerusalemme), da sorgenti e alberi, realtà tutte di forte valenza simbolica universale, esaltata e specificata dal santuario. C’è, dunque, una geografia del santuario che è visibile non solo nella costellazione di templi che si distribuiscono sulle mappe topografiche delle varie nazioni, secondo le varie religioni, ma soprattutto attraverso il movimento del pellegrinaggio che per la Bibbia ha come punto di partenza emblematico 1’"ascensione" a Sion: «Quale gioia, quando mi dissero: Andremo alla casa del Signore!… Casa di Giacobbe, vieni, camminiamo nella luce del Signore!» (Salmo 122,1; Isaia 2,5). Ebbene, la struttura del pellegrinaggio rivela alcune componenti suggestive.
C’è innanzitutto la partenza che è uno stacco dalla quotidianità, una liberazione da impacci e da vincoli esteriori, come si impone al primo pellegrino biblico, Abramo: «Esci dal tuo paese, dalla tua patria, dalla casa di tuo padre verso la terra che ti indicherò» (Genesi 12,1). Il musulmano, prima di partire per la Mecca, deve saldare i debiti, riconciliarsi coi nemici e tutelare la sussistenza della famiglia, impegni che ritroviamo anche in certi rituali medievali del pellegrinaggio cristiano. Il secondo dato è la strada, un archetipo simbolico per evocare la stessa vita. Infatti, essa riassume in sé la gamma delle attese e delle paure, delle soste e delle prove, della solitudine e della compagnia, del giorno e della notte. La "guida del pellegrino" di San Giacomo di Compostela è puntuale nell’indicare la materialità del cammino come esperienza di vita semplice e povera. È per questo che nel suo profilo più puro il pellegrinaggio comprende almeno una porzione di movimento fisico, come ammonisce la regola monastica buddhistica: «Andare a piedi è ottenere un frutto quadruplo». La strada processionale era, per altro, un elemento strutturale della planimetria dei santuari dell’antichità (si pensi, ad esempio, al "viale delle Sfingi" nell’antico sistema templare egizio).
Una terza componente potrebbe essere quella della luce: nelle processioni rituali o negli stessi santuari il lume acceso, con tutta la simbologia che la luce evoca, è per il pellegrino non solo una guida nella notte o un elemento liturgico, ma un segno spirituale di fede e di vigilanza, sulla scia delle parole del Salmista: «La tua parola è lampada al mio passo, lume acceso sul mio sentiero» (Salmo 119,105). È in questa linea che si colloca anche un quarto dato, quello del canto e della preghiera. Il pellegrinaggio al santuario si distingue in tal modo dal semplice turismo religioso: è una celebrazione di intimità divina, è un’ "ascensione" – proprio come accade nei canti delle
ma’alôt cioè le "ascensioni" salmiche (Salmi) – non solo spaziale ma anche mistica, è un’esperienza di spiritualità e di purificazione che trasfigura la fatica del viaggio trasformando il percorso in una liturgia festosa e di attesa.
La rete di pellegrinaggi che ancor oggi avvolge il nostro pianeta diventa, così, un grande segno dell’umanità in ricerca del trascendente, del mistero, del fine ultimo oltre le contingenze e le piccole mete e, per il cristianesimo, è espressione dell’anima profonda della Chiesa, popolo di Dio in marcia verso la Gerusalemme celeste: «Siamo un popolo che cammina / e camminando desideriamo raggiungere insieme / una città che non finirà mai, / senza pena né tristezza, città di eternità» (canto latinoamericano).
Il santuario certamente ha alla sua radice un elemento spaziale e cosmico: pensiamo solo ai monti sacri a cui sopra si è fatto cenno, a partire da quelli biblici come il Sinai-Horeb, Sion, Garizim, Carmelo, Golgota e così via (ma c’è il Meru indiano, l’Olimpo greco, il Fuji-yama giapponese, la ziqqurrat, cioè il santuario-montagna in miniatura della religione mesopotamica, eccetera). Tuttavia, la realtà capitale nello specificare il santuario è un fatto storico, elemento decisivo in molte religioni per le quali i luoghi sacri quasi germogliano da un evento fondativo della religione stessa. Se questo appare per Lumbini, la patria di Buddha, o per il Parco delle gazzelle di Samath (Benares) ove egli tenne il sermone delle "quattro verità", se lo stesso Islam si sforza di connettere ad Abramo la pietra nera della Ka’aba, se i santuari greci rimandano spesso a vicende nazionali sacralizzate (Delfi, ad esempio), per la Bibbia tutti i santuari sono correlati a eziologie storiche, cioè a eventi originari antichi: Sichem, Mamre, Bersabea, Betel rimandano ai patriarchi e alle loro storie, Galgala e Silo alla conquista della terra, Gerusalemme a Davide e a Cristo.
La tradizione cristiana successiva non solo costellerà di santuari commemorativi tutti i luoghi evangelici dove Gesù ha operato, ma darà il via a una vera e propria "geografia storica" che si infittirà nei secoli: tombe di martiri, sedi di apparizioni, centri di atti miracolosi, persino luoghi di battaglie o di eventi nazionali divennero altrettanti santuari che, in tal modo, si ergeranno come "monumenti" nel senso etimologico del termine, cioè come "memorie" di un passato salvifico il cui effetto perdura nel presente. Molti santuari sono, perciò, veri e propri vessilli dell’identità nazionale e delle Chiese locali e scandiscono le tappe storiche di un popolo, riportandolo alle sue origini, richiamandolo alla sua libertà, autonomia e coscienza, restituendogli quei valori che spesso sono appannati dal fluire del tempo, dalle vicende alterne, dalla superficialità e dalla globalizzazione forzata. È per questo che è indispensabile ricostruire storiograficamente la memoria che sta alla sorgente di ogni santuario attraverso una ricerca rigorosa che mostri talora anche l’intreccio tra mito e storia, tra leggenda ed evento, tra simbolo e realtà fattuale.
La storia che aleggia attorno al santuario si esprime molto spesso attraverso l’arte in tutte le sue forme espressive: dall’architettura alla figurazione scultorea e pittorica, dalla letteratura agli ex-voto, dalle musiche agli organi, in uno spettro coloratissimo e affascinante di modelli e di tipologie. Si apre, a questo punto, un discorso complesso e dai molteplici risvolti (tutela, conservazione, valorizzazione, catalogazione, riappropriazione e così via). Noi vorremmo solo ricordare che l’arte nei nostri santuari è sorta soprattutto come annuncio della fede e catechesi, come esegesi figurativa biblica e come via pulchritudinis verso Dio.
Negli Statuti d’arte dei pittori senesi del Trecento si leggeva: «Noi siamo manifestatori, agli uomini che non sanno lettura, delle cose meravigliose operate per virtù della fede». Esiste una "voix des monuments" – per usare la bella espressione di Guillaume de Jerphanion, grande studioso delle chiese rupestri di Cappadocia – che dev’essere fatta risuonare agli occhi e agli orecchi dei pellegrini, educandoli a dire, a pregare, a cantare, a celebrare Dio in modo bello. I santuari – e purtroppo molti di quelli moderni spesso non riescono a farlo – dovrebbero educare anche alla bellezza, dovrebbero purificare lo sguardo abbrutito dalle immagini televisive e dalla volgarità delle nostre città.
Ma la storia del santuario si esprime anche attraverso il folclore e la devozione popolare. In passato disprezzata o comunque considerata con uno sguardo illuministico accigliato, questa dimensione della storia di un popolo è ora oggetto di studio, di valorizzazione, di riqualificazione. In Francia, ad esempio, è sorto un grandioso progetto di catalogazione del fenomeno: è il repertorio La piété populaire, diretto da Bernard Plongeron e Paule Lerou, sostenuto dal Cnrs e successivamente esteso anche all’Italia (si pensi all’opera di Giuseppe De Luca con le sue Edizioni di Storia e Letteratura) con alcune collane bibliografiche molto suggestive, tuttora in corso di pubblicazione. Ma, al di là del valore documentario di questa realtà, la devozione popolare continua a vivere, a pulsare e ad esprimersi anche ai nostri giorni. Come osservava Paolo VI, «la religione popolare ha certamente i suoi limiti. Essa però manifesta una sete di Dio che solo i semplici e i poveri possono conoscere..., genera atteggiamenti interiori raramente osservati altrove al medesimo grado: pazienza, senso della croce nella vita quotidiana, distacco, apertura agli altri, devozione» (Evangelii nuntiandi n. 48).
Affermato il rilievo della pietà popolare, bisogna però subito aggiungere che è necessario compiere al suo interno un’azione di catarsi dai relitti superstiziosi, dalle reliquie pagane, dalle tracce sincretistiche, dalle degenerazioni idolatriche che possono insinuarsi e resistere alla dominante cristiana. Bisogna impedire ogni forma di miracolismo esasperato, di magia, di paganesimo sacrale. Non si deve, però, ignorare che Cristo per tutta la sua vita terrena ha guarito malati, vedendo in questo gesto un segno dell’avvento del Regno di Dio ove «si tergerà ogni lacrima dagli occhi, non ci sarà più la morte, né lutto, né lamento, né affamo» (Apocalisse 21,4). Non si deve dimenticare che la missione che Cristo affida alla Chiesa è quella di annunciare il vangelo della liberazione piena, come egli aveva dichiarato nella sinagoga di Nazaret: «Lo Spirito del Signore mi ha mandato per annunziare ai poveri il vangelo, per proclamare ai prigionieri la liberazione, ai ciechi la vista, per rimettere in libertà gli oppressi e predicare un anno di grazia del Signore… I Dodici partiti, predicavano che la gente si convertisse, scacciavano molti demoni, ungevano di olio molti infermi e li guarivano» (Luca 4,18-19; Marco 6,12-13). Già nella solenne consacrazione del tempio di Sion, Salomone elencava un settenario di drammi personali e sociali da presentare al Signore nel santuario per ottenere conforto e liberazione (Re8,31-51).
Idealmente possiamo immaginare il mondo come avvolto da una trama di luoghi di culto ove in ogni ora del giorno e della notte si celebra il sacrificio di lode eucaristico e i santuari sono quasi le sentinelle vigili di questa liturgia continua e costante: «Dall’Oriente all’Occidente grande è il mio nome fra le genti e in ogni luogo è offerto incenso al mio nome e un’oblazione pura, perché grande è il mio nome fra le genti» (Malachia 1,11). È allora da raccogliere con impegno il monito del Codice di Diritto Canonico che, secondo le indicazioni liturgiche generali e quelle specifiche delle Chiese locali, esorta a far sì che «nei santuari si offrano ai fedeli con maggior abbondanza i mezzi di salvezza, annunziando con diligenza la Parola di Dio, incrementando opportunamente la vita liturgica soprattutto con la celebrazione dell’Eucaristia e della penitenza, come pure coltivando le sane forme della pietà popolare» (canone 1234, n. 1).
Il santuario si rivela come un segno alto della Chiesa nella sua anima più profonda di «assemblea di coloro che sono convocati dalla Parola di Dio per formare il popolo di Dio. Nutrendosi del Corpo di Cristo, formano essi stessi il Corpo di Cristo» (Catechismo della Chiesa Cattolica n. 777). Gli animatori spirituali dei pellegrinaggi parrocchiali, diocesani o nazionali e i presbiteri che espletano il loro ministero nel santuario devono far brillare questo volto ecclesiale dei santuari impedendo che essi si riducano a isole sacrali ma respirino la stessa vita della Chiesa-comunione, in unione con l’intero popolo di Dio. In sintesi potremmo dire che il santuario deve rivelare in filigrana la stessa struttura intima della Chiesa-madre di Gerusalemme le cui colonne fondamentali erano «l’insegnamento degli apostoli, la koinoníafraterna, la frazione del pane e le preghiere» (Atti 2,42).

Il mondo in cui viviamo è costellato anche di tanti santuari "laici", la cui elencazione è vasta come quella dei luoghi dello Spirito di Dio: pensiamo, ad esempio, ai pellegrinaggi etnici che riportano molti alle loro radici genealogiche, a quelli verso Salisburgo o a Bayreuth per gli amanti di Mozart e Wagner, alle spiagge di Normandia per il vecchio soldato americano, alla Versailles del re Sole, alla modernità "di tendenza" della Grande Mela newyorchese, agli stadi sedi dei concerti rock ove si celebrano talora riti dionisiaci sfrenati; pensiamo persino, per paradosso, ai santuari atei o idolatrici come certi quartieri del vizio (Pigalle, Soho, St. Pauli) o a quel mausoleo di Lenin sulla Piazza Rossa di Mosca a cui un tempo si recavano i novelli sposi russi...!
Ebbene a queste mete più o meno dignitose si oppone il santuario del Dio vivente, la cui caratteristica capitale è quella di essere un luogo teofanico, sede della rivelazione in parole e opere di quel Signore che «si fa trovare anche da quelli che non lo cercano e si manifesta anche a quelli che non si rivolgono a lui» (Romani 10,20). Il santuario è segno del mistero di Dio, della sua gloria e del suo primato: è il luogo «ove egli si fa presente, ove il mondo celeste si dischiude» (Hans Joachim Kraus). È l’orizzonte ove si deve incontrare l’Emmanuele, altrimenti esso si ridurrebbe a mera meta turistica, gradevole e legittima, ma non "tenda dell’incontro" diretto col Signore, come ammoniva Amos che giungeva al paradosso di escludere i grandi santuari d’Israele qualora si rivelassero privi di fede e di giustizia: «Cercate me e vivrete! Non rivolgetevi a Betel, non andate a Galgala, non passate a Bersabea! Cercate il Signore e vivrete!» (Am 5,4-6).
Ma il santuario non ha solo un asse verticale, cioè rivolto verso il trascendente, ma come accade per la croce, comprende anche due braccia orizzontali che accolgono il mondo e la storia irradiandoli di luce e salvezza. È una parabola dell’Incarnazione, che ha nel Verbo fatto carne il santuario prototipico, la tenda di carne che vivifica le sante tende storiche e spaziali dell’umanità, come si legge nel prologo del Vangelo di Giovanni: «Il Verbo si è fatto carne e ha posto la sua tenda (eskénosen) in mezzo a noi» (1, 14). La figura di Maria, che è venerata in un numero sterminato di santuari, ne è un’altra rappresentazione ideale: nel suo grembo si compie la presenza suprema di Dio nella carne del Cristo Figlio suo e di Dio. Come scriveva sant’Ambrogio, «Maria non è il Dio del tempio, ma il tempio di Dio» (De Spiritu Sancto III, 11, 80). Il santuario – alla luce dell’Incarnazione – feconda, santifica e salva la profanità circostante senza eliderla o assorbirla in sé in un integralismo sacrale. È come la nervatura che regge e alimenta il tessuto dell’esistenza.
Per questo un bel detto giudaico afferma che quando Dio creò il mondo attribuì nove porzioni di bellezza e di sapienza a Sion e una sola al resto dell’universo, ma le consegnò anche nove porzioni di dolore e una sola al resto del mondo. Riso e lacrime si effondono nel santuario come e più che sulla terra, ma là c’è la certezza che le «lacrime [degli uomini e delle donne] sono raccolte nell’otre» del Pastore delle nostre anime (Salmo 56,9) che ne impedisce la dispersione, l’insignificanza e l’inutilità. Per questo l’augurio che ci si dovrebbe scambiare partendo dal santuario è ben espresso nell’ambiguità dell’originale ebraico della finale del Salmo biblico del pastore (23,6): «Ritornerò (šwb) nella casa del Signore per la distesa del miei giorni»; ma anche «abiterò (jšb) nella casa del Signore per la distesa dei miei giorni». Come dice un aforisma orientale, c’è chi viaggia solo coi piedi e sono i mercanti a cui preme solo il trasferimento verso centri di interesse economico; c’è chi viaggia con gli occhi ed è il turista che ammira paesaggi e monumenti: c’è infine chi viaggia col cuore e questi è il pellegrino che va al santuario con la profondità del suo spirito, del suo amore e della sua fede.

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