DISCERNERE

Uno sguardo profetico sugli eventi

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Coppens: L’Homo? Religiosus fin dalle caverne

di Daniele Zappalà

«Per me, l’origine dell’uomo resta la più bella storia in assoluto e quando la scienza cerca di comprenderla è sempre costretta a constatare al contempo il carattere per così dire stravagante di questa storia, accanto alla sua dimensione d’umiltà». Dopo una vita di studi e campagne scientifiche sul campo talora esaltanti, Yves Coppens esibisce sempre verso il mondo preistorico una curiosità e un’ammirazione quasi spiazzanti. Il grande antropologo e paleontologo francese, fra gli scopritori della nostra antenata più famosa, Lucy, è anche un brillante divulgatore. Come mostra la raccolta di testi brevi Il presente del passato, in uscita oggi per Jaca Book (pagine 168, euro 18,00).

Professore, perché la preistoria ci affascina tanto?
«Gli interrogativi sul nostro statuto sulla Terra, sulla nostra origine e sulla nostra direzione, per così dire, fanno parte di un bisogno connaturato in noi. Al contempo, molti avvertono una grande precarietà nella situazione attuale. E in proposito, pur non condividendo personalmente questo punto di vista, ho l’impressione che nelle risposte sulla nostra origine si cerca pure una sorta di ancoraggio o di aiuto. Dei visitatori di mostre che ho curato, del resto, hanno spesso confessato che questa mano tesa verso il passato più profondo li rassicurava».

Lei ha scritto che il percorso dell’uomo offre un grande messaggio d’umiltà. Cosa intende?
«Si tratta della storia di un essere vivente apparso come qualsiasi altro essere vivente in una fase di adattamento climatico. Dopo il successo ottenuto in quest’adattamento, si è in seguito sviluppato grazie alle risorse di cui disponeva, compresa la cultura, nata dall’apparizione della coscienza. In generale, l’uomo è un mammifero di dimensioni medie in un pianeta in mezzo ad altri attorno a una stella, a sua volta, in mezzo a miliardi di altre in una galassia, a sua volta, in mezzo a miliardi di altre. Non si può che restare umili».

Per lei l’uomo si è comportato "come un podista di fondo". Perché?
«I paleontologi e gli anatomisti hanno seguito l’evoluzione della locomozione preumana e umana lungo dieci milioni di anni. All’inizio, vi fu l’associazione di una vita arboricola e di una bipedia alquanto goffa. Una bipedia più stabile, efficace e fluida si è sviluppata molto progressivamente. L’accesso alla stazione eretta e alla locomozione come la concepiamo oggi fu davvero lento e meritato. La facoltà di correre è giunta relativamente tardi».

In quest’evoluzione, c’è una fase che ancor oggi la affascina più di altre?
«L’apparizione stessa del genere umano, con lo sviluppo del suo encefalo e con la scelta di un’alimentazione a largo spettro che si è rivelata un successo decisivo per le fasi successive».

A proposito del mistero della coscienza, antropologi culturali come René Girard sostengono la centralità della dimensione sacra. Sul campo, a che punto sono giunte le ricerche sulla religiosità primitiva?
«Sappiamo o abbiamo ormai il presentimento, dato che non sono sempre disponibili le prove definitive, che l’homo religiosus coincide con l’uomo in generale. L’essere umano, fin dallo sbocciare della sua umanità, è sensibile al sacro e possiede una dimensione spirituale. Personalmente, sono convinto che non ci sia distanza fra l’apparizione dell’uomo e l’apparizione del suo pensiero religioso. L’uno e l’altro sono parti di una stessa condizione».

Quali ricerche concrete paiono provarlo?
«Non è semplice sugli esseri più antichi scoprire delle dimostrazioni di questa dimensione religiosa. Ma abbiamo ad esempio degli elementi che provano il trattamento dei morti fin da un milione di anni fa, o ancor prima. All’inizio, questi trattamenti furono forse un po’ rudimentali, ma restano comunque dei trattamenti. Mostrano che l’uomo tratta i suoi morti con un altro occhio, altri sentimenti, rispetto agli animali».

Le recenti celebrazioni di Darwin hanno riacceso lo scontro fra darwinisti puri e duri, per così dire, e neodarwinisti. Scientificamente, resta un dibattito costruttivo?
«Le concezioni di Darwin hanno centocinquant’anni. Da allora, la scienza ha fatto progressi considerevoli. È evidente che la selezione naturale predicata da Darwin resta verificata, ma oggi si riconosce che la parte dovuta al caso è molto inferiore rispetto a quanto Darwin immaginasse. Darwin non conosceva le leggi dell’eredità e tanto meno ciò che oggi chiamiamo epigenetica. In altri termini, l’evoluzione è molto più complessa e diversificata di quanto egli pensasse. L’opera di Darwin resta esemplare e continua ad ispirarci. Ma l’evoluzione come oggi la intendiamo non può più essere definita col nome di darwinismo. Darwinismo ed evoluzione sono ormai due parole ben separate, anche se il darwinismo rappresentò una delle origini della riflessione sull’evoluzione».

Quale le pare oggi la più grande sfida per la conoscenza della preistoria?
«Credo sia proprio una migliore comprensione delle modalità dell’evoluzione. Sappiamo che l’evoluzione è una realtà. Ma non conosciamo tutti i meccanismi che essa utilizza per realizzarsi. La biologia, la genetica e la paleontologia hanno ancora molte ricerche da compiere per approdare a una comprensione collaudata e condivisa».

Nel suo libro in uscita in Italia, lei si sofferma anche sul pensatore e scienziato gesuita Pierre Teilhard de Chardin. In che senso, la sua lezione resta attuale?
«Sono molti gli aspetti attuali della sua riflessione. Teilhard fu grande innanzitutto perché seppe ben percepire la continuità della storia dell’universo, della Terra, della vita e dell’uomo. Ma anche perché intuì e anticipò l’evoluzione dell’umanità con le sue odierne reti. Del resto, potremmo benissimo chiamare internet "noosfera". Merita di essere riletto e meglio compreso».

«Avvenire» del 14 settembre 2010

Santuari, i polmoni della fede. Gianfranco Ravasi

Secondo i calcoli dell’americana Mary Lee Nolan, nella sola Europa occidentale sarebbero 6000 le chiese che entrano nella categoria di "santuario", cioè di quel luogo sacro verso il quale converge, quasi a raggiera, un itinerario di fede per celebrare una memoria e una presenza sacra cristiana. Proprio questo movimento centripeto, dall’esterno verso il centro, costituisce l’evento "pellegrinaggio". A noi ora interessa evocare il profilo del pellegrinaggio al santuario come itinerario verso quel centro ove si ha l’incontro con Dio, con Cristo, con la storia della salvezza, con Maria, coi martiri, coi santi. Un incontro che è esteriormente costituito da città (pensiamo a Gerusalemme e a Roma per il cristianesimo), da villaggi (Lourdes, Fatima), da montagne, segno di trascendenza (i monti sacri), da pietre (Muro del Tempio, Sepolcro di Cristo, Cupola della roccia a Gerusalemme), da sorgenti e alberi, realtà tutte di forte valenza simbolica universale, esaltata e specificata dal santuario. C’è, dunque, una geografia del santuario che è visibile non solo nella costellazione di templi che si distribuiscono sulle mappe topografiche delle varie nazioni, secondo le varie religioni, ma soprattutto attraverso il movimento del pellegrinaggio che per la Bibbia ha come punto di partenza emblematico 1’"ascensione" a Sion: «Quale gioia, quando mi dissero: Andremo alla casa del Signore!… Casa di Giacobbe, vieni, camminiamo nella luce del Signore!» (Salmo 122,1; Isaia 2,5). Ebbene, la struttura del pellegrinaggio rivela alcune componenti suggestive.
C’è innanzitutto la partenza che è uno stacco dalla quotidianità, una liberazione da impacci e da vincoli esteriori, come si impone al primo pellegrino biblico, Abramo: «Esci dal tuo paese, dalla tua patria, dalla casa di tuo padre verso la terra che ti indicherò» (Genesi 12,1). Il musulmano, prima di partire per la Mecca, deve saldare i debiti, riconciliarsi coi nemici e tutelare la sussistenza della famiglia, impegni che ritroviamo anche in certi rituali medievali del pellegrinaggio cristiano. Il secondo dato è la strada, un archetipo simbolico per evocare la stessa vita. Infatti, essa riassume in sé la gamma delle attese e delle paure, delle soste e delle prove, della solitudine e della compagnia, del giorno e della notte. La "guida del pellegrino" di San Giacomo di Compostela è puntuale nell’indicare la materialità del cammino come esperienza di vita semplice e povera. È per questo che nel suo profilo più puro il pellegrinaggio comprende almeno una porzione di movimento fisico, come ammonisce la regola monastica buddhistica: «Andare a piedi è ottenere un frutto quadruplo». La strada processionale era, per altro, un elemento strutturale della planimetria dei santuari dell’antichità (si pensi, ad esempio, al "viale delle Sfingi" nell’antico sistema templare egizio).
Una terza componente potrebbe essere quella della luce: nelle processioni rituali o negli stessi santuari il lume acceso, con tutta la simbologia che la luce evoca, è per il pellegrino non solo una guida nella notte o un elemento liturgico, ma un segno spirituale di fede e di vigilanza, sulla scia delle parole del Salmista: «La tua parola è lampada al mio passo, lume acceso sul mio sentiero» (Salmo 119,105). È in questa linea che si colloca anche un quarto dato, quello del canto e della preghiera. Il pellegrinaggio al santuario si distingue in tal modo dal semplice turismo religioso: è una celebrazione di intimità divina, è un’ "ascensione" – proprio come accade nei canti delle
ma’alôt cioè le "ascensioni" salmiche (Salmi) – non solo spaziale ma anche mistica, è un’esperienza di spiritualità e di purificazione che trasfigura la fatica del viaggio trasformando il percorso in una liturgia festosa e di attesa.
La rete di pellegrinaggi che ancor oggi avvolge il nostro pianeta diventa, così, un grande segno dell’umanità in ricerca del trascendente, del mistero, del fine ultimo oltre le contingenze e le piccole mete e, per il cristianesimo, è espressione dell’anima profonda della Chiesa, popolo di Dio in marcia verso la Gerusalemme celeste: «Siamo un popolo che cammina / e camminando desideriamo raggiungere insieme / una città che non finirà mai, / senza pena né tristezza, città di eternità» (canto latinoamericano).
Il santuario certamente ha alla sua radice un elemento spaziale e cosmico: pensiamo solo ai monti sacri a cui sopra si è fatto cenno, a partire da quelli biblici come il Sinai-Horeb, Sion, Garizim, Carmelo, Golgota e così via (ma c’è il Meru indiano, l’Olimpo greco, il Fuji-yama giapponese, la ziqqurrat, cioè il santuario-montagna in miniatura della religione mesopotamica, eccetera). Tuttavia, la realtà capitale nello specificare il santuario è un fatto storico, elemento decisivo in molte religioni per le quali i luoghi sacri quasi germogliano da un evento fondativo della religione stessa. Se questo appare per Lumbini, la patria di Buddha, o per il Parco delle gazzelle di Samath (Benares) ove egli tenne il sermone delle "quattro verità", se lo stesso Islam si sforza di connettere ad Abramo la pietra nera della Ka’aba, se i santuari greci rimandano spesso a vicende nazionali sacralizzate (Delfi, ad esempio), per la Bibbia tutti i santuari sono correlati a eziologie storiche, cioè a eventi originari antichi: Sichem, Mamre, Bersabea, Betel rimandano ai patriarchi e alle loro storie, Galgala e Silo alla conquista della terra, Gerusalemme a Davide e a Cristo.
La tradizione cristiana successiva non solo costellerà di santuari commemorativi tutti i luoghi evangelici dove Gesù ha operato, ma darà il via a una vera e propria "geografia storica" che si infittirà nei secoli: tombe di martiri, sedi di apparizioni, centri di atti miracolosi, persino luoghi di battaglie o di eventi nazionali divennero altrettanti santuari che, in tal modo, si ergeranno come "monumenti" nel senso etimologico del termine, cioè come "memorie" di un passato salvifico il cui effetto perdura nel presente. Molti santuari sono, perciò, veri e propri vessilli dell’identità nazionale e delle Chiese locali e scandiscono le tappe storiche di un popolo, riportandolo alle sue origini, richiamandolo alla sua libertà, autonomia e coscienza, restituendogli quei valori che spesso sono appannati dal fluire del tempo, dalle vicende alterne, dalla superficialità e dalla globalizzazione forzata. È per questo che è indispensabile ricostruire storiograficamente la memoria che sta alla sorgente di ogni santuario attraverso una ricerca rigorosa che mostri talora anche l’intreccio tra mito e storia, tra leggenda ed evento, tra simbolo e realtà fattuale.
La storia che aleggia attorno al santuario si esprime molto spesso attraverso l’arte in tutte le sue forme espressive: dall’architettura alla figurazione scultorea e pittorica, dalla letteratura agli ex-voto, dalle musiche agli organi, in uno spettro coloratissimo e affascinante di modelli e di tipologie. Si apre, a questo punto, un discorso complesso e dai molteplici risvolti (tutela, conservazione, valorizzazione, catalogazione, riappropriazione e così via). Noi vorremmo solo ricordare che l’arte nei nostri santuari è sorta soprattutto come annuncio della fede e catechesi, come esegesi figurativa biblica e come via pulchritudinis verso Dio.
Negli Statuti d’arte dei pittori senesi del Trecento si leggeva: «Noi siamo manifestatori, agli uomini che non sanno lettura, delle cose meravigliose operate per virtù della fede». Esiste una "voix des monuments" – per usare la bella espressione di Guillaume de Jerphanion, grande studioso delle chiese rupestri di Cappadocia – che dev’essere fatta risuonare agli occhi e agli orecchi dei pellegrini, educandoli a dire, a pregare, a cantare, a celebrare Dio in modo bello. I santuari – e purtroppo molti di quelli moderni spesso non riescono a farlo – dovrebbero educare anche alla bellezza, dovrebbero purificare lo sguardo abbrutito dalle immagini televisive e dalla volgarità delle nostre città.
Ma la storia del santuario si esprime anche attraverso il folclore e la devozione popolare. In passato disprezzata o comunque considerata con uno sguardo illuministico accigliato, questa dimensione della storia di un popolo è ora oggetto di studio, di valorizzazione, di riqualificazione. In Francia, ad esempio, è sorto un grandioso progetto di catalogazione del fenomeno: è il repertorio La piété populaire, diretto da Bernard Plongeron e Paule Lerou, sostenuto dal Cnrs e successivamente esteso anche all’Italia (si pensi all’opera di Giuseppe De Luca con le sue Edizioni di Storia e Letteratura) con alcune collane bibliografiche molto suggestive, tuttora in corso di pubblicazione. Ma, al di là del valore documentario di questa realtà, la devozione popolare continua a vivere, a pulsare e ad esprimersi anche ai nostri giorni. Come osservava Paolo VI, «la religione popolare ha certamente i suoi limiti. Essa però manifesta una sete di Dio che solo i semplici e i poveri possono conoscere..., genera atteggiamenti interiori raramente osservati altrove al medesimo grado: pazienza, senso della croce nella vita quotidiana, distacco, apertura agli altri, devozione» (Evangelii nuntiandi n. 48).
Affermato il rilievo della pietà popolare, bisogna però subito aggiungere che è necessario compiere al suo interno un’azione di catarsi dai relitti superstiziosi, dalle reliquie pagane, dalle tracce sincretistiche, dalle degenerazioni idolatriche che possono insinuarsi e resistere alla dominante cristiana. Bisogna impedire ogni forma di miracolismo esasperato, di magia, di paganesimo sacrale. Non si deve, però, ignorare che Cristo per tutta la sua vita terrena ha guarito malati, vedendo in questo gesto un segno dell’avvento del Regno di Dio ove «si tergerà ogni lacrima dagli occhi, non ci sarà più la morte, né lutto, né lamento, né affamo» (Apocalisse 21,4). Non si deve dimenticare che la missione che Cristo affida alla Chiesa è quella di annunciare il vangelo della liberazione piena, come egli aveva dichiarato nella sinagoga di Nazaret: «Lo Spirito del Signore mi ha mandato per annunziare ai poveri il vangelo, per proclamare ai prigionieri la liberazione, ai ciechi la vista, per rimettere in libertà gli oppressi e predicare un anno di grazia del Signore… I Dodici partiti, predicavano che la gente si convertisse, scacciavano molti demoni, ungevano di olio molti infermi e li guarivano» (Luca 4,18-19; Marco 6,12-13). Già nella solenne consacrazione del tempio di Sion, Salomone elencava un settenario di drammi personali e sociali da presentare al Signore nel santuario per ottenere conforto e liberazione (Re8,31-51).
Idealmente possiamo immaginare il mondo come avvolto da una trama di luoghi di culto ove in ogni ora del giorno e della notte si celebra il sacrificio di lode eucaristico e i santuari sono quasi le sentinelle vigili di questa liturgia continua e costante: «Dall’Oriente all’Occidente grande è il mio nome fra le genti e in ogni luogo è offerto incenso al mio nome e un’oblazione pura, perché grande è il mio nome fra le genti» (Malachia 1,11). È allora da raccogliere con impegno il monito del Codice di Diritto Canonico che, secondo le indicazioni liturgiche generali e quelle specifiche delle Chiese locali, esorta a far sì che «nei santuari si offrano ai fedeli con maggior abbondanza i mezzi di salvezza, annunziando con diligenza la Parola di Dio, incrementando opportunamente la vita liturgica soprattutto con la celebrazione dell’Eucaristia e della penitenza, come pure coltivando le sane forme della pietà popolare» (canone 1234, n. 1).
Il santuario si rivela come un segno alto della Chiesa nella sua anima più profonda di «assemblea di coloro che sono convocati dalla Parola di Dio per formare il popolo di Dio. Nutrendosi del Corpo di Cristo, formano essi stessi il Corpo di Cristo» (Catechismo della Chiesa Cattolica n. 777). Gli animatori spirituali dei pellegrinaggi parrocchiali, diocesani o nazionali e i presbiteri che espletano il loro ministero nel santuario devono far brillare questo volto ecclesiale dei santuari impedendo che essi si riducano a isole sacrali ma respirino la stessa vita della Chiesa-comunione, in unione con l’intero popolo di Dio. In sintesi potremmo dire che il santuario deve rivelare in filigrana la stessa struttura intima della Chiesa-madre di Gerusalemme le cui colonne fondamentali erano «l’insegnamento degli apostoli, la koinoníafraterna, la frazione del pane e le preghiere» (Atti 2,42).

Il mondo in cui viviamo è costellato anche di tanti santuari "laici", la cui elencazione è vasta come quella dei luoghi dello Spirito di Dio: pensiamo, ad esempio, ai pellegrinaggi etnici che riportano molti alle loro radici genealogiche, a quelli verso Salisburgo o a Bayreuth per gli amanti di Mozart e Wagner, alle spiagge di Normandia per il vecchio soldato americano, alla Versailles del re Sole, alla modernità "di tendenza" della Grande Mela newyorchese, agli stadi sedi dei concerti rock ove si celebrano talora riti dionisiaci sfrenati; pensiamo persino, per paradosso, ai santuari atei o idolatrici come certi quartieri del vizio (Pigalle, Soho, St. Pauli) o a quel mausoleo di Lenin sulla Piazza Rossa di Mosca a cui un tempo si recavano i novelli sposi russi...!
Ebbene a queste mete più o meno dignitose si oppone il santuario del Dio vivente, la cui caratteristica capitale è quella di essere un luogo teofanico, sede della rivelazione in parole e opere di quel Signore che «si fa trovare anche da quelli che non lo cercano e si manifesta anche a quelli che non si rivolgono a lui» (Romani 10,20). Il santuario è segno del mistero di Dio, della sua gloria e del suo primato: è il luogo «ove egli si fa presente, ove il mondo celeste si dischiude» (Hans Joachim Kraus). È l’orizzonte ove si deve incontrare l’Emmanuele, altrimenti esso si ridurrebbe a mera meta turistica, gradevole e legittima, ma non "tenda dell’incontro" diretto col Signore, come ammoniva Amos che giungeva al paradosso di escludere i grandi santuari d’Israele qualora si rivelassero privi di fede e di giustizia: «Cercate me e vivrete! Non rivolgetevi a Betel, non andate a Galgala, non passate a Bersabea! Cercate il Signore e vivrete!» (Am 5,4-6).
Ma il santuario non ha solo un asse verticale, cioè rivolto verso il trascendente, ma come accade per la croce, comprende anche due braccia orizzontali che accolgono il mondo e la storia irradiandoli di luce e salvezza. È una parabola dell’Incarnazione, che ha nel Verbo fatto carne il santuario prototipico, la tenda di carne che vivifica le sante tende storiche e spaziali dell’umanità, come si legge nel prologo del Vangelo di Giovanni: «Il Verbo si è fatto carne e ha posto la sua tenda (eskénosen) in mezzo a noi» (1, 14). La figura di Maria, che è venerata in un numero sterminato di santuari, ne è un’altra rappresentazione ideale: nel suo grembo si compie la presenza suprema di Dio nella carne del Cristo Figlio suo e di Dio. Come scriveva sant’Ambrogio, «Maria non è il Dio del tempio, ma il tempio di Dio» (De Spiritu Sancto III, 11, 80). Il santuario – alla luce dell’Incarnazione – feconda, santifica e salva la profanità circostante senza eliderla o assorbirla in sé in un integralismo sacrale. È come la nervatura che regge e alimenta il tessuto dell’esistenza.
Per questo un bel detto giudaico afferma che quando Dio creò il mondo attribuì nove porzioni di bellezza e di sapienza a Sion e una sola al resto dell’universo, ma le consegnò anche nove porzioni di dolore e una sola al resto del mondo. Riso e lacrime si effondono nel santuario come e più che sulla terra, ma là c’è la certezza che le «lacrime [degli uomini e delle donne] sono raccolte nell’otre» del Pastore delle nostre anime (Salmo 56,9) che ne impedisce la dispersione, l’insignificanza e l’inutilità. Per questo l’augurio che ci si dovrebbe scambiare partendo dal santuario è ben espresso nell’ambiguità dell’originale ebraico della finale del Salmo biblico del pastore (23,6): «Ritornerò (šwb) nella casa del Signore per la distesa del miei giorni»; ma anche «abiterò (jšb) nella casa del Signore per la distesa dei miei giorni». Come dice un aforisma orientale, c’è chi viaggia solo coi piedi e sono i mercanti a cui preme solo il trasferimento verso centri di interesse economico; c’è chi viaggia con gli occhi ed è il turista che ammira paesaggi e monumenti: c’è infine chi viaggia col cuore e questi è il pellegrino che va al santuario con la profondità del suo spirito, del suo amore e della sua fede.

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Il Dio di Obama: come la fede influenza la politica della Casa Bianca Intervista ad Alessandro Gisotti, autore di un libro sull'argomento

di Mirko Testa

ROMA, lunedì, 22 febbraio 2010 (ZENIT.org).- "L'America è una nazione con l'anima di una Chiesa", ha detto una volta lo scrittore e giornalista inglese Gilbert K. Chesterton. E infatti Dio compare nel motto riportato sui dollari e nella formula del giuramento alla bandiera che i bambini prestano a scuola, e a lui è dedicata la più americana delle feste, il Thanksgiving Day.

Ogni nuovo inquilino della Casa Bianca, inoltre, è chiamato a giurare invocando l'aiuto di Dio e molti di loro nella storia del Paese hanno fatto un continuo richiamo alla religione per giustificare le decisioni più importanti. Ma che fisionomia ha il Dio del primo presidente afroamericano degli Stati Uniti? E soprattutto, quanto le sue convinzioni religiose trovano riflesso nella sua azione politica?

A rispondere a queste e altre domande ci pensa ora un saggio dal titolo ''Dio e Obama. Fede e politica alla Casa Bianca'' (Effatà Editrice), scritto da Alessandro Gisotti, 35 anni, redattore del Radiogiornale di Radio Vaticana, che insegna giornalismo all'Istituto Massimiliano Massimo di Roma e si è occupato di politica americana per la rivista "Ideazione" e per il quotidiano "L'Indipendente".

Il libro ripercorre la complessa parabola personale di Barack Obama: dall'adolescenza nel melting pot hawaiano e dallo scetticismo religioso respirato in famiglia, alla difficile ricerca di una identità, lui che è figlio di un emigrato africano e di una donna bianca di provincia, fino all'adesione al cristianesimo afrocentrico della Trinity United Church of Christ di Chicago.

Un vita quella di Obama ricalcata sui grandi ideali della nuova frontiera e del sogno americano, sulla scia di Kennedy e di Martin Luther King; e una fede nutrita con gli scritti di Sant'Agostino, dei teologi della Liberazione e del teologo protestante Reinold Niebuhr.

Nel volume Gisotti indaga con scrupolo giornalistico la capacità di Obama di intercettare la sensibilità dell’elettorato religioso ma anche la sua posizione non sempre lineare su questioni come l'aborto, che lo vedono da una parte fautore di una sua sostanziale liberalizzazione e dall'altra favorevole a una sua limitazione.

Il Dio di Obama che emerge, scrive Gianfranco Fabi nella prefazione, "è semplicemente un Dio contemporaneo, un Dio che parla all'uomo d'oggi e che propone non tanto delle certezze, ma un cammino, un difficile cammino comunque di fede".

Per approfondire alcuni dei temi evidenziati nel libro, ZENIT ne ha intervistato l'autore.

Quali sono le differenze che separano l'ex presidente Bush da Obama nel loro modo di approcciarsi alle diverse religioni e qual è la portata innovativa di alcuni gesti di apertura compiuti da Obama nei confronti dell'Islam?

Gisotti: Con una formula estremamente sintetica, si potrebbe dire che George W. Bush ha una visione più identitaria del fenomeno religioso, mentre Barack Obama punta più sull'aspetto del dialogo e dell'inclusione. Pensiamo, per esempio, allo storico discorso rivolto al mondo musulmano, all'università Al Azhar del Cairo. Ovviamente su questi differenti approcci influisce molto la storia personale e non solo politica dei due personaggi. Nel mio libro, tuttavia, riprendendo Alexis de Tocqueville, tengo a sottolineare che in America la religione è considerata come la "prima delle istituzioni politiche". Un dato che, nonostante i profondi cambiamenti avvenuti nel tempo, è tuttora condiviso e riconoscibile nell'America del XXI secolo. Ancora oggi, i sondaggi ci dicono che il 92 per cento degli americani crede nell'esistenza di Dio. Dunque, per dirla con una battuta: che si tratti di un presidente democratico o repubblicano, Dio è sempre presente alla Casa Bianca.

Alcuni organi d'informazione hanno parlato in passato di divergenze di giudizio tra la Santa Sede e i vescovi statunitensi circa la presidenza di Obama. Lei cosa ne pensa?

Gisotti: Credo che sarebbe forse più giusto parlare di divergenze di giudizio, di sensibilità, di singoli esponenti del mondo cattolico. Sappiamo per esempio del confronto a distanza tra il cardinale Georges Cottier e l'arcivescovo di Denver, Charles J. Chaput. Come anche delle critiche che, tempo a dietro, voci del conservatorismo cattolico americano, quali Novak e Weigel, hanno espresso nei confronti di alcuni articoli dell'Osservatore Romano. Detto questo, l'udienza di Benedetto XVI ad Obama, il 10 luglio del 2009, è stata davvero molto significativa. Il Pontefice ha messo l'accento sulla difesa della vita e dell'obiezione di coscienza per gli operatori sanitari. Temi questi che stanno particolarmente a cuore al Papa e che sono difesi con forza e passione dall'episcopato Usa. Al contempo, ha rivolto l'attenzione alle politiche per gli immigrati, alla pace in Medio Oriente e al dialogo interreligioso. Prospettive su cui si registrano delle importanti convergenze tra Vaticano e Casa Bianca. Insomma, un incontro all'insegna della franchezza. Qualche mese dopo quell'udienza, nel discorso al nuovo ambasciatore americano presso la Santa Sede, Miguel Diaz, il Papa ha ribadito che c'è un vincolo indissolubile tra etica della vita e ogni altro aspetto dell'etica sociale. La domanda mi spinge anche a fare una considerazione di carattere generale. Come è noto, Obama ha sempre espresso posizioni favorevoli all'aborto, alla ricerca sulle cellule staminali e, seppur con dei distinguo, alle unioni omosessuali. Al tempo stesso, però, Obama appare, soprattutto al di fuori degli Stati Uniti, come un uomo capace di dialogare con diverse istanze culturali, politiche e religiose. Un presidente americano sinceramente impegnato a promuovere la causa della pace. Ritengo che, proprio alla luce di questa ambivalenza del messaggio politico di Obama, si possano leggere le diverse valutazioni e, conseguentemente, divergenze di opinione nei suoi confronti, presenti non solo in ambito cattolico.

Obama viene sempre dipinto come un politico dai tratti spiccatamente liberal eppure si è mostrato recentemente molto sensibile ai problemi delle famiglie, approvando delle misure di sostegno a favore della middle class con un incremento dei bonus fiscali per la cura dei figli e agevolazioni previdenziali per gli anziani. Tra l'altro, in un discorso pronunciato nel 2008, in occasione del Father's Day, aveva sottolineato che, di tutte le rocce sulle quali costruiamo la nostra vita, la famiglia è quella più importante, aggiungendo a braccio che queste fondamenta devono poggiare su Cristo...

Gisotti: Da senatore dell'Illinois e nella breve esperienza da senatore a Washington, Barack Obama è stato sicuramente un liberal, un politico progressista. Nella campagna presidenziale, ha però impresso una decisa virata verso il centro, "corteggiando" quella "middle class" che è fondamentale per vincere le elezioni negli Stati Uniti. Del resto, già nello storico discorso pronunciato alla Convention democratica di Boston nel luglio del 2004, Obama si era proposto come un politico "uniter", in grado di perseguire il bene comune con spirito bipartisan, anche in forza della sua birazzialità. Dunque, un liberal attento alle esigenze dei conservatori. A poco più di un anno dall'inizio del mandato presidenziale, vediamo però che questa ricerca di un "terreno comune" si rivela difficile. Prendiamo, ad esempio, il caso della riforma sanitaria, dove assieme al presidente anche il Congresso ha una grande responsabilità decisionale. Da decenni, i vescovi americani auspicano che vengano garantite cure adeguate alle fasce deboli, poveri ed immigrati, oggi esclusi. Tuttavia, hanno sempre sottolineato che non avrebbero mai accettato una riforma sanitaria che prevedesse il finanziamento pubblico delle pratiche abortive. L'aborto, vale la pena di ricordarlo, è un "male intrinseco" per la dottrina della Chiesa. Di qui, la delusione e il comprensibile rammarico per il testo approvato dal Senato che prevede, appunto, una copertura degli aborti con fondi federali. D'altro canto, per Obama non mancano i problemi anche con l'elettorato progressista, che pure lo ha appoggiato con entusiasmo durante la campagna elettorale. Per restare al tema del mio libro, l'ala sinistra del Partito Democratico non ha affatto gradito la decisione di Obama di mantenere l'Ufficio per le attività caritatevoli religiose, istituito da Bush. Per gli ultraliberal, l'Ufficio è uno strumento che viola il principio di separazione tra Stato e Chiesa. Obama vede invece questo organismo come uno strumento per mettere assieme le energie migliori della società, religiose e laiche, al servizio del bene comune.

Qual è il rapporto di Obama con la preghiera?

Gisotti: Il 4 febbraio scorso, partecipando alla National Prayer Breakfast, un evento nato nel 1952 su iniziativa del presidente Eisenhower, Barack Obama ha confidato ai leader religiosi e politici presenti di pregare molto. Ed ha aggiunto che per lui è importante pregare nei momenti difficili come in quelli felici. Obama, lo si coglie bene nei suoi due libri autobiografici, Dreams from my Father e The Audacity of Hope, è affascinato dalla forza che la fede sprigiona per trasformare la società. Ha come punto di riferimento i Padri dell'Indipendenza e ancor più Abraham Lincoln e Martin Luther King. Questi due personaggi, ha affermato una volta in campagna elettorale, non erano solo motivati dalla fede ma si servivano ripetutamente del linguaggio religioso per sostenere la propria causa. Ecco perché così frequentemente Obama ricorre a passi tratti dalla Bibbia. Anche in questo caso, tuttavia, Obama, pur con i suoi innegabili tratti di novità, si inserisce in una lunga e consolidata tradizione che accomuna gli inquilini della Casa Bianca, da George Washington in poi. Basti pensare che su 44 presidenti, solo tre non hanno mai detto apertamente a quale religione appartenessero, ma nessuno si è mai azzardato a professarsi ateo. In fondo, e non è un dettaglio da poco, la formula di giuramento presidenziale si conclude con un beneaugurante So help me God, "Che Dio mi aiuti".

[“Dio e Obama. Fede e politica alla Casa Bianca” verrà presentato mercoledì 3 marzo 2010, alle ore 17:30, presso la Libreria AVE (via della Conciliazione 12, Roma). Insieme all'autore interverranno: Lawrence E. Gray, docente di Scienze Politiche alla John Cabot University; Paolo Mastrolilli, caporedattore de “La Stampa”; Michele Zanzucchi, direttore della rivista “Città Nuova”. Modererà Fabio Colagrande, giornalista della Radio Vaticana]

Una fede da romanzo. Arriva anche nel nostro Paese la «christian fiction»

DI M ASSIMO I NTROVIGNE
U
n serial killer (maschio) si fa chiamare «Eva» e uccide una ragazza a ogni luna piena, iniettandole un virus che scatena quella che sembra una ra­ra forma di meningite letale. Due agenti dell’Fbi e una donna avvo­cato in carriera – moglie divorziata dell’agente che ha fatto di «Eva» la sua ossessione – gli danno la cac­cia. Sembra l’ennesima trama alla Jeffery Deaver o alla Michael Con­nelly. Invece A damo di Ted Dekker , in uscita a giorni da Mon­dadori, è qualcosa di diverso. Per­ché l’agente ossessionato è anche uno scrittore e conferenziere a fa­vore dell’ateismo, una specie di «Odifreddi all’americana». Perché alla fine del mistero si viene a capo solo rivolgendosi a un prete catto­lico esorcista e scavando in oscure storie di teologia e di seminaristi.
Ma soprattutto perché «Eva» esiste davvero e no, non è il soprannome dell’assassino. È un diavolo che lo possiede come aveva posseduto la donna che l’aveva rapito da ragaz­zino insieme alla sorella e aveva a­busato di lui per anni. Lo stesso diavolo s’impadronirà facilmente anche dell’agente dell’Fbi, perché i fanatici dell’ateismo – lo dirà «Eva» stessa all’esorcista – sono le prede più facili per il diavolo. Con qual-
che sorpresa (che sarebbe di catti­vo gusto rivelare al lettore) il serial killer sarà messo in condizioni di non nuocere, ma i tanti atei del ro­manzo dovranno prima ammette­re che il diavolo esiste ed è dunque probabile che esista anche Dio. È la Christian fiction, la «narrativa cristiana» che da qualche tempo vende benissimo negli Stati Uniti e che ora si tenta d’importare in Ita­lia.
Funzionerà? A­damo
è ben scritto e la trama coinvol­ge, anche se i catti­vi sono più credibi­li dei buoni. Il male è spaventoso, ma la santità non rifulge.
Il protestante Dekker ha suscitato altre volte riserve tra i cattolici. Qui tratta la Chiesa con grande rispetto, ma il suo esor­cista non è un personaggio memo­rabile. Dekker ha visto, forse trop­pe volte, il film L’esorcista , che il ro­manzo cita esplicitamente. Non gli avrebbe fatto male riguardarsi an­che
The Exorcism of Emily Rose,
il film del 2005 del regista protestan­te – ma con molte simpatie cattoli­che – Scott Derrickson , basato sul­l’episodio reale dell’esorcismo in Germania della giovane Emily Ro­se (1952-1976) e molto migliore de L’esorcista da tutti i punti di vista.
Nel suo rispetto per la verità, il film di Derrickson è anche edificante.
Può esserlo anche la
Christian fic­tion,
e
A damo da questo punto di vista può fare del bene. Tuttavia per convincere, scuotere le co­scienze e indurre a meditare, una teologia accettabile non basta. Oc­corre anche una bellezza della scrittura, dei perso­naggi e della trama. E qui il libro di Dekker passa il test solo parzialmente.
Il romanzo si legge volentieri, ma lo spessore dei perso­naggi non è suffi­ciente a far parlare di autentica arte applicata alla nar­rativa né di grande letteratura. I critici letterari spesso accusano la
Christian fiction di es­sere – appunto – una letteratura di nicchia, che vende grazie al fioren­te circuito delle congregazioni pro­testanti, ma che raramente interes­sa chi non frequenta le chiese e il cui livello artistico è discutibile. È la critica che è stata rivolta alla for­tunatissima serie di sedici romanzi
Left Behind
di Tim LaHaye e Jerry B. Jenkins : 12 anni di successi fra il 1995 e il 2007 per complessivi 65 milioni di copie vendute, numeri da record anche al di fuori dell’am­bito cristiano. Si tratta di una lun­ghissima narrazione della fine del mondo, che segue l’Apocalisse ma la interpreta secondo quella parti­colare teologia protestante per cui prima dell’inizio dei tempi dell’An­ticristo i buoni «spariranno», rapiti in Cielo. Ma la Chiesa cattolica, e anche gran parte del protestantesi­mo europeo, non amano questa teologia tipica di un mondo con­servatore se non fondamentalista.
La serie resta inguaribilmente «a­mericana » e difficile da esportare da noi. I cattolici non sono stati a guardare, e oggi non si può più dire che la
Christian fiction sia un feno­meno solo protestante. Proprio grazie ai cattolici si sono fatte me­no frequenti anche le accuse se­condo cui si tratterebbe di una let­teratura commerciale di qualità in­feriore. Anche trascurando il caso di Anne Rice , una stella della nar­rativa horror di qualità tornata alla fede cattolica della sua infanzia, che oggi cerca faticosamente la sua nuova strada nel romanzo religio­so, sono due gli autori cattolici di
Christian fiction
che hanno con­vinto insieme pubblico e critici. Il primo è lo scrittore canadese Mi­chael D. O’Brien , che a partire da Il nemico (1996) riprende i temi del diavolo e dell’Anticristo cari alla
fiction
protestante ma li tratta con impeccabile ortodossia cattolica, oltre che con indubbia maestria letteraria. Se O’Brien, grande ro­manziere, è più controverso come saggista per gli attacchi a Harry Potter e alla saga di Eragon – la cui estrema durezza suscita perples­sità anche tra cattolici – diverso è il caso di Ralph McInerny , uno dei maggiori filosofi cattolici contem­poranei stimato e apprezzato dal­l’attuale pontefice, di cui in italia­no è stato di recente tradotto da Fede & Cultura l’influente saggio
Vaticano II. Che cosa è andato stor­to? .

Milioni di americani conosco­no McInerny – che preferirebbe es­sere noto piuttosto per la filosofia – come il geniale creatore dei ro­manzi polizieschi con protagonista il sacerdote di Chicago Padre Dow­ling. La relativa serie tv, trasmessa anche in Italia, è un sano diverti­mento per famiglie ma non rende giustizia alla profondità psicologi­ca dei romanzi, ciascuno dei quali riflette su un problema della Chie­sa o della società americana, dal­l’eutanasia alla liturgia. Ora, a ot­tant’anni suonati, McInerny con le

Cronache del Rosario
– di cui sono usciti i due primi volumi – esplora il thriller religioso in una serie che ha fatto scrivere a molti che è final­mente uscita la risposta letteraria di un cattolico a Dan Brown. A quando un’edizione italiana?
Per qualcuno sarebbero la risposta cattolica a Dan Brown, altri li giudicano autori best-seller ma di scarso valore




Ted Dekker



Una scena del film «The exorcism of Emily Rose» (2005) con Tom Wilkinson e Jennifer Carpenter In alto: un’altra immagine ripresa dalla stessa pellicola del regista protestante (ma con molte simpatie cattoliche) Scott Derrickson; la storia è basata sull’episodio reale degli esorcismi compiuti in Germania sulla giovane Emily Rose tra 1952 e 1976.



Ralph McInerny




Avvenire 28 gennaio 2010

Parola di scienziati: la religiosità fa bene (anche) al cervello. TONINO C ANTELMI

D obbiamo dunque dire addio alle teorie freudiane e a tutte le successive ipotesi che hanno collegato il fenomeno religioso e il desiderio di spiritualità alla psicopatologia, alla nevrosi e comunque a un presunto ' cattivo funzionamento' mentale?
Sembrerebbe proprio di sì, a giudicare da quanto emerge da uno studio dei ricercatori Agostino Girardi e Alessandra Coin della Clinica Geriatrica dell’Università di Padova, diretta dal professor Enzo
Manzato, e pubblicato sulla prestigiosa rivista Current Alzheimer Research .
Senza entrare nei dettagli dello studio, il risultato potrebbe apparire sorprendente: la religiosità, intesa come attitudine alla religione o spiritualità, rallenta la progressione della demenza di Alzheimer, una malattia, come noto, implacabile e sostanzialmente incurabile, caratterizzata dalla progressiva e inarrestabile morte dei neuroni cerebrali.
Date le caratteristiche della malattia, questo risultato non può essere spiegato come un effetto placebo, ma deve essere inteso come un fenomeno correlato con aspetti
neurobiologici. Infatti i malati di Alzheimer appartenenti al gruppo con basso livello di religiosità hanno avuto nel corso dei dodici mesi di osservazione una perdita delle capacità cognitive del 10 per cento in più rispetto a quelli con un livello di religiosità medio- alto.
Questo studio conferma analoghe ricerche: già nel 1988 Koenig aveva dimostrato un effetto protettivo della religiosità rispetto alla demenza. Secondo i ricercatori italiani, comunque, sembra essere proprio la ' religiosità interiore' il fattore in grado di rallentare la perdita cognitiva attraverso fenomeni neurobiologici specifici.
Dunque la religione e la spiritualità non soltanto non sono fenomeni patologici, come molti incauti psicologi ancora oggi tendono ad affermare, ma costituiscono persino un fattore protettivo per la salute in generale e per quella mentale in particolare.
In effetti è da circa due decenni che si vanno accumulando prove in questo senso. Nel 1999 Hummer dimostrò che coloro che
frequentano le funzioni religiose almeno una volta alla settimana hanno un’aspettativa di vita di sette anni maggiore e nel 2003 Powel rese noto che coloro che frequentano regolarmente attività religiose hanno una riduzione della mortalità del 25 per cento. Sostanzialmente, al di là dei dettagli, possiamo affermare che in vent’anni di ricerche è stato ampiamente dimostrato che la religiosità è un fattore protettivo per molte malattie, fisiche e mentali. È come se le dimensioni religiose e spirituali fossero ' proprie' del cervello e della mente umana e perciò insopprimibili: la loro inibizione avrebbe un prezzo per la salute mentale e fisica, mentre al contrario la loro attivazione sarebbe indicativa di un buon funzionamento cerebrale e mentale, e pertanto benefica per la salute. E peraltro alcune recenti osservazioni di neuroimaging
sembrano confermare questa suggestiva interpretazione, con buona pace di ogni tentativo di patologizzare l’irriducibile bisogno religioso dell’uomo di ogni tempo.






«La fede, un aiuto contro l’Alzheimer»
L’Università di Padova: «Chi crede sta meglio»


DA PADOVA

FRANCESCO DAL MAS

L’
Alzheimer conduce, progressivamente ma inesorabilmente, alla morte. Non ci sono ancora farmaci in grado di tamponare la malattia. Semmai, in qualche misura, la rallentano. Ma un antidoto contro la demenza senile è anche la fede, la religiosità, la convinzione nel soprannaturale. Il fatto di coltivare la speranza che la vita non si concluda con la morte, per cui non ci si lascia catturare dalla disperazione. Con un singolare valore aggiunto: chi è religioso fa pesare meno la sua disabilità su chi lo assiste. È una scoperta medico-scientifica, quindi 'laica'. Porta la firma di Agostino Girardi e Alessandra Coin, ricercatori della Clinica Geriatrica dell’Università di Padova diretta dal professor Enzo Manzato. Lo studio è stato pubblicato sulla prestigiosa rivista 'Current Alzheimer Research' che, prima di riportarlo in rete ha voluto verificarlo perfino nelle virgole, per assicurarsi che i medici non si fossero lasciati prendere dalla suggestione. Che cosa hanno riscontrato?
«Che i malati di Alzheimer appartenenti al gruppo con basso livello di religiosità - sintetizzano - hanno avuto nel corso dei 12 mesi d’indagine una perdita delle capacità cognitive del 10% in più rispetto a quelli con un livello di religiosità medio-alto». Alla
clinica di Padova fanno riferimento 2 mila pazienti, che due o tre volte l’anno si fanno visitare dai 7 medici del centro. La ricerca è stata condotta su un campione di 64 pazienti affetti da Alzheimer in differenti stadi della malattia. Ammalati che sono stati monitorati per 12 mesi nella progressione della demenza, dopo che gli ammalati erano stati suddivisi in due gruppi: quelli con un basso livello di religiosità, e quelli con un moderato o alto livello di religiosità (suddivisione ottenuta grazie al Behavioral Religiosity Scale - BRS, ovvero una serie di test volti a misurare il comportamento religioso). «Le malattie neurodegenerative come il morbo di Alzheimer non sono guaribili, farmaci e condizioni particolari di vita possono solo rallentarne la progressione – spiega il professor Manzato –. È noto che gli stimoli sensoriali provenienti da una normale vita sociale rallentano il decadimento cognitivo, ma nel caso dello studio riportato sembra essere proprio la religiosità interiore quella in grado di rallentare la perdita cognitiva. Non si tratta quindi di una ritualità cui si associano determinati comportamenti sociali, bensì di una vera e propria tendenza a 'credere' in una entità spirituale». Il motivo di questa incidenza?
Sarà oggetto di un nuovo studio medico e scientifico. In clinica, infatti, si sono tentate le più diverse spiegazioni: dall’atteggiamento psicologico alla risposta degli ormoni, passando per i risvolti immunitari. «Vogliamo vederci chiaro, anche da questo punto di vista – prosegue il direttore della clinica geriatrica. Non dimentichiamo - prosegue il professor Manzato – che queste
persone hanno bisogno di familiari, infermieri o badanti che le assistano quotidianamente, e il nostro studio dimostra come questi caregivers siano sottoposti a uno stress minore quando l’ammalato sia un credente».
Conclude Manzato: «Certo, di Alzheimer non si guarisce, non allo stato attuale delle conoscenze, ma questo apre nuove possibilità per capire come influire in modo benefico sull’inesorabile decorso della demenza».

Una ricerca scientifica mostra che la religiosità rallenta la perdita cognitiva tra i malati
Analizzati 64 pazienti che sono stati suddivisi in due gruppi, in base al diverso atteggiamento verso il soprannaturale




Avvenire 27 gennaio 2010

Religiosita' rallenta demenza senile Emerge da uno studio effettuato dell' Università di Padova su pazienti affetti dal morbo di Alzheimer

VENEZIA - La religiosità, intesa come attitudine alla religione o spiritualità, rallenta la progressione della demenza senile. E' quanto emerge da uno studio di due ricercatori della Clinica geriatrica dell' Università di Padova, diretta dal prof. Enzo Manzato e pubblicato sulla rivista 'Current Alzheimer Research'.

Lo studio è stato condotto su 64 pazienti affetti da Alzheimer in differenti stadi della malattia, monitorando per 12 mesi la progressione della demenza, dopo aver suddiviso gli ammalati in due gruppi: quelli con un basso livello di religiosità e quelli con un moderato o alto livello di religiosità. Per un anno i pazienti sono stati sottoposti a test per misurare il loro stato mentale e la loro funzionalità nelle attività quotidiane, sia quelle che permettono un primo grado di autosufficienza (vestirsi, lavarsi e mangiare da soli) sia quelle maggiormente complicate (come telefonare). I malati del gruppo con basso livello di religiosità hanno avuto nell'anno una perdita delle capacità cognitive del 10% in più rispetto a quelli con un livello di religiosità medio-alto.

Le malattie neurodegenerative come il morbo di Alzheimer non sono guaribili, farmaci e condizioni particolari di vita possono solo rallentarne la progressione. "E' noto che gli stimoli sensoriali provenienti da una normale vita sociale rallentano il decadimento cognitivo - spiega il professor Manzato - ma nel caso dello studio riportato sembra essere proprio la religiosità interiore quella in grado di rallentare la perdita cognitiva. Non si tratta quindi di una ritualità cui si associano determinati comportamenti sociali, bensì di una vera e propria tendenza a 'credere' in una entità spirituale".


Ansa

Le domande che i ragazzi rivolgono a Gesù

IL SERMIG di Torino, movimento cattolico fondato da Ernesto Olivero, ha sottoposto un esteso questionario a migliaia di giovani sulla figura di Gesù. Alla domanda numero 7, che chiedeva «Cosa diresti a Gesù se potessi parlare con lui oggi?», le principali risposte dei giovani furono le seguenti: Perché si deve morire? Che senso ha la mia vita? Perché esiste il male? Perché muoiono tanti giovani? Cosa mi aspetta dopo la morte? Perché mi hai creato? Queste domande dei giovani a Gesù (ipotetiche quanto alla possibilità di raggiungere il destinatario, ma assolutamente reali quanto a valore esistenziale) mostrano un intenso bisogno di significato, si potrebbe dire di filosofia. Più che a Gesù quale singolo personaggio storico, le interpellanze dei giovani si rivolgono al Cristo, al Figlio di Dio in quanto Dio, a Dio, all' Assoluto. Sono tre infatti le questioni capitali: 1) chi sono io e perché sono qui; 2) perché questo mondo è colmo di ingiustizia; 3) che cosa ne sarà di me dopo la morte. Oggi la teologia e la predicazione della Chiesa sono concentrate sul Gesù storico, sulla sua esistenza, la sua predicazione, il suo messaggio, la sua morte e la sua risurrezione. I corsi biblici organizzati dalle parrocchie non si contano più. Ma queste domande mostrano chiaramente che l' interesse degli uomini d' oggi non è per una storia lontana, destinata ogni anno a divenire sempre più lontana, ma per il senso di questa vita qui e ora. Gesù non interessa come singolo personaggio storico a cui accadono delle cose speciali (emblematico che nessuno tra i giovani gli avrebbe chiesto lumi sul suo concepimento verginale, sulla veridicità dei suoi miracoli, sui responsabili della sua morte, sulla realtà della sua risurrezione) ma interessa come il maestro a cui chiedere spiegazioni su questa vita e sui suoi conti che faticano a tornare. Una risposta di un ragazzo di quindici anni metteva addirittura in crisi il sacrificio espiatorio di Gesù, o meglio la teologia tradizionale che interpreta Gesù quale «vittima immolata per la nostra redenzione» (come viene definito da alcune parole del canone della Messa). Che cosa appare allora da queste domande dei giovani? Appare quello che già Hegel vedeva come il limite della coscienza cristiana tradizionale, cioè l' essere una «coscienza infelice». Da questi giovani emerge chiaramente un disorientamento sulla loro identità di uomini, segno dell' inefficacia delle risposte tradizionali della fede ascoltate nelle lezioni di catechismo. A differenza di quanto avveniva al tempo di sant' Agostinoe di san Tommaso d' Aquino, dalla fede cristiana di oggi non emerge più una veritiera e affidabile visione del mondo. Da qui il senso diffuso di infelicità, da qui il disagio rispetto al proprio essere al mondo. I credenti adulti suppliscono questa incertezza teoretica con il ricorso al principio di autorità (è così perché è stato sempre insegnato che è così), ma con i giovani questo principio (se purtroppo o se per fortuna, non lo so) non funziona. C' è un detto medievale che dice: «Vengo non so da dove; sono non so chi; muoio non so quando; vado non so dove; mi stupisco di essere lieto». Il filosofo Karl Jaspers, che lo cita all' inizio del libro La fede filosofica di fronte alla rivelazione, dice che per questa unione di ignoranza e di gioia tale detto non può essere cristiano.E poi aggiunge un affondo terribile, affermando che, al contrario, la coscienza cristiana ha sì le risposte a tutte le questioni perché sa da dove viene, perché sa chi è, perché sa che morirà quando lo deciderà Dio (non prima e non dopo), perché sa dove andrà, ma, sapendo tutto ciò, non è per nulla lieta, per nulla serena, ma è immersa nella macerazione e in una continua tensione con il mondo con cui non riesce a riconciliarsi. A mio avviso ha ragione: la coscienza cristiana troppo spesso appare come una coscienza infelice, a tratti risulta persino aggressiva, soprattutto in coloro che coltivano sopra ogni cosa l' adesione alla dottrina stabilita dalle gerarchie ecclesiastiche e che coniugano il verbo "credere" sempre accanto a "obbedire e combattere". Da dove nascono invece quell' essere lieti in profondità, quella gioia inestirpabile verso la vita, quella quiete dello spirito e della mente, che sono il contrassegno di una autentica esperienza spirituale e che sole possono dare risposte convincenti alle inquietudini dei giovani? Nascono dal sapere di essere a casa in questo mondo di Dio, dal senso di intima comunione con l' essere e con la natura che portò Francesco d' Assisi a scrivere il "Cantico delle creature", e dalla certezza che l' incarnazione di Dio non riguarda solo un giorno lontano di tanti anni fa ma è la dinamica che si avvera ogni giorno, in tutti gli uomini che amano il bene e la giustizia. Gesù è l' uomo che cessa di fare di se stesso il centro del mondo e si pone al servizio di una realtà più importante di sé. Anche la Chiesa deve cessare di fare di se stessa il centro del mondoe si deve porre al servizio di qualcosa di più grande di sé, del bene comune e di ogni singolo individuo di questa nostra società, credente o non credente, bianco o nero, etero o omosessuale. - VITO MANCUSO

Indagine sulle credenze e le pratiche religiose in USA: I 3/10 dei Protestanti e 1/5 dei Cattolici prendono parte a servizi religiosi di altre fedi

La marmellata


Le credenze e le pratiche religiose degli americani non possono essere facilmente classificate entro categorie convenzionali. Un indagine del 9 dicembre 2009 del Pew Research Center's Forum on Religion & Public Life...

dimostra che un largo numero di americani si impegna in numerose pratiche religiose miscelando elementi di diverse tradizioni. I 3/10 dei Protestanti e 1/5 dei Cattolici dichiarano di prendere parte a servizi religiosi di altre fedi.
Se gli Stati Uniti sono un paese prevalentemente cristiano, minoranze significative professano la fede in una varietà di credenze orientali o New Age. Il 22% dei cristiani dichiara di credere nella reincarnazione e numeri simili (23% dei cristiani e 25% della popolazione complessiva) crede nell’astrologia. Quasi tre americani su dieci dicono di avere avuto un contatto con qualcuno che è già morto, quasi uno su cinque dice di aver visto o di essere stato in presenza di fantasmi, e il 15% ha consultato un indovino o un sensitivo.
Circa uno su cinque tra i cattolici dicono di frequentare i servizi di almeno una sola fede diversa dalla propria, la maggior parte di questi (il 18% dei cattolici in generale) dicono che frequentano i servizi protestanti. Un 5% dei cattolici partecipa ai servizi religiosi delle sinagoghe (5%) e l’1% dichiara di frequentare le moschee musulmane.

Circa un quarto degli adulti esprimere la fede in dogmi di alcune religioni orientali:
- il 24% dice di credere nella reincarnazione (che la gente potrà rinascere in questo mondo ancora e ancora),
- il 23% crede nello yoga non solo come esercizio, ma come una pratica spirituale.
Numeri simili professano la fede in elementi di spiritualità New Age:
- il 26% dice di credere nell’energia spirituale che si trova nelle cose fisiche come ad esempio le montagne, gli alberi o i cristalli;
- il 25% professa la fede nell’astrologia;
- il 16% crede nel “malocchio”, o che alcune persone possano lanciare maledizioni e incantesimi che causano “cose cattive” a qualcuno
Rispetto alle altre tradizioni religiose, i protestanti evangelici esprimono livelli più bassi di accettazione di entrambe le credenze orientali (reincarnazione, yoga) e credenze New Age (energia spirituale nelle cose fisiche e astrologia).
Tra i protestanti, gli alti livelli di impegno religioso sono associate a bassi livelli di accettazione della credenze orientali o New Age. Tra i cattolici, invece, la frequenza in chiesa è legata molto meno strettamente con questi tipo di credenze, anche se coloro che frequentano meno spesso esprimono alti livelli di credenza in astrologia rispetto ai frequentatori settimanali.
In generale le persone anziane (oltre i 65 anni) esprimono livelli più bassi di accettazione di questi tipi di credenze rispetto alle persone più giovani. Queste convinzioni sono più comuni tra i democratici e gli indipendenti che tra i Repubblicani, inoltre sono più diffuse tra i liberali i moderati rispetto ai conservatori.


In totale, circa il 65% degli adulti esprime di credere o di aver avuto esperienze con almeno uno di questi diversi fenomeni soprannaturali: credenza nella reincarnazione, credenza in un energia spirituale che si trova nelle cose fisiche, nella convinzione dello yoga come pratica spirituale, la pratica del “malocchio”, la fede nell’astrologia, essere stato in contatto con i morti, consultare un parapsicologo, o aver vissuto un incontro con uno spettro.
Questo 65% comprende:
- un 23% che dichiara di avere una sola di queste convinzioni o esperienze;
- un 43% che risponde a due o più di questi elementi in senso affermativo,;
- un terzo della popolazione (35%) risponde di no a tutti gli otto elementi.
Con l’eccezione degli evangelici bianchi, la maggioranza dei fedeli di tutte le grandi tradizioni religiose detengono una relazione con almeno una di queste credenze o hanno vissuto uno di questi fenomeni.


CLIKKA QUI per consultare l'indagine integrale (in inglese)

http://paratisemper.blogspot.com/

Le fedi oltre il Crocifisso

Ossola: «Luoghi dell’anima» contro il deserto religioso


DI
C ARLO O SSOLA
I
n luogo di abolire il Crocifisso, oc­correrebbe moltiplicare i luoghi di raccoglimento. Conosco almeno due luoghi – ma altri esistono certa­mente – nei quali questo convergere al centro di noi stessi nel raccoglimento e nella meditazione ha spazio proprio.
Uno, il più emblematico, è nel palazzo delle Nazioni Unite a New York; lo volle il segretario generale Dag Hammar­skjöld (uomo di alta spiritualità: le sue

Tracce di cammino edite
in Italia da Qi­qajon, tradotte in tutte le lingue, sono una summa della sapienza del cuore) e lo inaugurò con queste parole: «Cia­scuno di noi si porta dentro un noccio­lo di quiete, circondato di silenzio.
Questo palazzo, dedicato al lavoro e al­la discussione al servizio della pace, deve avere una sala dedicata al silen­zio, in senso esteriore, e alla quiete in senso interiore. L’obiettivo è stato crea­re in questa saletta un luogo le cui por­te possano essere aperte ai terreni infi­niti del pensiero e della preghiera. Qui si incontreranno persone di fedi diver­se, e per questo motivo non si potrà u­sare nessuno dei simboli cui siamo a­bituati nella nostra meditazione. Esi­stono però cose semplici, che parlano a tutti noi nella stessa lingua. Abbiamo
cercato questo tipo di cose, e crediamo di averle trovate nel raggio di luce che colpisce la superficie scintillante della roccia massiccia.[…] La luce del cielo dà la vita alla terra su cui tutti ci trovia­mo: un simbolo, per molti di noi, di co­me la luce dello spirito dà vita alla ma­teria. Ma la roccia al centro della sala ci dice anche altro. Possiamo vederla co­me un altare, vuoto non perché non vi sia un Dio, non perchè si tratti di un al­tare ad un dio sconosciuto, ma perché è dedicata al Dio che l’uomo adora dandogli molti diversi nomi e molte diverse forme.[…] Secondo un antico detto, il senso di un vaso non è il suo guscio, ma il vuoto. In questa sala è proprio così. La sala è dedicata a colo­ro che si recano qui per riempire il vuoto, con ciò che riescono a trovare nel loro centro interiore di quiete». L’altro, di simile natu­ra, è la Sala de Reflexió, 1996, di Antoni Tàpies nel cuore della U­niversitat Pompeu Fa­bra, Cam­pus de la Ciutadel­la,
Barce­lona.
Sa­rebbe ne­cessario che in ogni «luogo plu­rale » (aero­porti, ospeda­li, tribunali, eccetera, come già in parte av­viene) ci fosse­ro queste sale di raccoglimento – proprio per evi­tare che la can­cellazione di ogni simbolo porti ap­punto ai «non-luo­ghi » nei quali vivia­mo, denunciati da Marc Augé. Vigereb­be, tra l’altro, per l’Italia, la Legge 29 Luglio 1949, n. 717 [e DM applicativo 23 marzo 2006]: «Norme per l’ar­te negli edifici pubblici»; essa prevede all’art.
1: «Le Ammini­strazioni dello Stato [...], non­ché le Regioni, le Province, i Co­muni e tutti gli altri Enti pubbli­ci, che provveda­no all’esecuzione di nuove costruzioni di edifici, pubblici ed alla ricostruzione di edifici pubblici, distrutti per cause di guerra, devono destinare all’abbelli­mento di essi mediante opere d’arte u­na quota non inferiore al 2%, della spesa totale prevista nel progetto». La Legge è disattesa. Sarebbe semplice applicarla ed aprire, per ogni nuovo e­dificio pubblico – scuole comprese – un concorso tra artisti perché progetti­no un «Luogo dell’anima»; ognuno vi potrà portare la propria speranza, la propria angoscia, la propria domanda di senso. Il bello e la dignità dell’uma­no unirebbero la loro crescita; altri­menti vale l’adagio antico, riconoscibi­le
nella sentenza di Strasburgo:
ubi desertum faciunt pacem appellant.

Cardia: ma la gente cerca i simboli del proprio credere

DI
C ARLO C ARDIA
L
a proposta di Carlo Ossola è senz’altro originale e suggesti­va, e potrebbe trovare positiva applicazione soprattutto nei grandi complessi internazionali dove sono presenti e lavorano continuativa­mente uomini e donne di tutte le fedi, e nei quali il bisogno di un luogo di raccoglimento può essere avvertito, e appunto sod­disfatto positivamen­te. Non a caso, la citazione più im­portante il prof.
Ossola la riserva al palazzo delle Nazioni Unite, dove la sala di me­ditazione è stata realiz­zata per impulso
di Dag Ham­mar­skjöld.
Più dif­ficile, e non esen­te da qual­che rischio, l’ipotesi di estendere l’esperienza un po’ in generale ad « aero­porti, ospedali, tribunali, eccetera. » per due ra­gioni. In ospedali e tri­bunali è assai dubbia l’utilità di una strut­tura del genere, dal momento che i degenti se hanno bisogno di un conforto, questo è il conforto della propria religione, non di un luogo a­strattamente dedi­cato alla meditazio­ne, mentre nei tribu­nali la maggior parte delle persone sono di passaggio ( un passag­gio molto differenziato, avvocati, giudici, im­putati, eccetera.). Più in genere, però, oc­corre tener presente che nelle diverse nazio­ni, nelle strutture ordina­rie della vita sociale, l’esi­genza di cui parla Ossola è ra- dicata nella propria religione di ap­partenenza ( di quella maggiorita­ria, e delle altre di minoranze) e ciascuna di esse è incarnata ( se così può dirsi) nei luoghi, nelle immagi­ni, nei simboli specifici che le sono propri. Pensare che in una scuola di un paese cattolico, o di uno buddi­sta, o di uno islamico, le persone accettino di inverare il legame per­sonale con la propria chiesa in un luogo vuoto di simboli e segni, nel quale il vuoto stesso voglia rappre­sentare ciò che non può dire, mi sembra collida con alcuni profili della psicologia elementare religio­sa. Incidentalmente, si può rilevare che il riferimento alla legge del 1949 che prevede la destinazione del 2% delle spese per l’abbelli­mento con opere d’arte degli edifici pubblici non sembra afferente alla proposta di cui si parla. Giusta­mente, Carlo Ossola precisa in a­pertura del suo intervento che non bisogna abolire il Crocifisso. Ed in effetti la sua proposta non è alter­nativa alla presenza del Crocifisso ( o ad altro simbolo religioso), ma si presenta come aggiuntiva in un mondo nel quale la complessità, e la velocità, della vita quotidiana to­glie spazio e tempo a quel bisogno di intimità spirituale che gli uomini avvertono in diversa maniera. Oc­corre, quindi, riflettere sulla sua « fattibilità » soprattutto nei luoghi e negli spazi nei quali può essere uti­le, tenendo presente comunque l’e­sigenza che non venga utilizzata o strumentalizzata ( oggi tutto è pos­sibile) per altre finalità, come quel­la di diluire il bisogno religioso in un più generico afflato spiritualista proprio delle filosofie moderne di più vago tenore teista o trascen­dentalista. Non è questo, certamen­te, lo spirito della proposta che ho commentato, però è bene coglierne tutti gli aspetti positivi, insieme ad eventuali sia pure ipotetici rischi di utilizzazione strumentale.



Avvenire 30 dic. 2009

Bibbia, Budda e New Age: va di moda la fede mix

Sincretismo e fede fai da te. Mentre a Roma si conclude il grande convegno ideato dal cardinale Camillo Ruini con prelati e uomini di cultura che s’interrogano sulla presenza di Dio nella società odierna, dagli Stati Uniti rimbalza un sondaggio, ieri sulla prima pagina di Usa Today, che rappresenta i cittadini americani attenti ai problemi dello spirito ma con una crescente disinvoltura nel passare dalle chiese ai templi buddisti, dalla passione per la cabala ebraica all’attrazione per le credenze ancestrali, dal catechismo cattolico alla reincarnazione.
Secondo il sondaggio, realizzato dal «Pew Forum on Religion & Public Life», il 65% degli adulti americani, compresi protestanti e cattolici, avrebbero adottato elementi delle religioni orientali e New Age. Il sincretismo appare dunque in crescita Oltreoceano e il 35% degli statunitensi che assiste a celebrazioni domenicali ammette di aver più volte cambiato chiesa, non soltanto nel senso di parrocchia, ma saltando da una confessione all’altra e persino da una religione all’altra.
Tra le curiosità emerse dal sondaggio c’è il dato su quanti americani credono che stelle e pianeti possano influenzare la vita delle persone (lo affermano il 25% della popolazione e il 23% dei cristiani) e sono convinti che gli individui possano rinascere reincarnandosi più volte (24% della popolazione, 22% dei cristiani). Mentre il 16% degli americani (e il 17% dei cristiani) crede che persone con «lo sguardo diabolico» possano lanciare malefici e danneggiare le persone. Tra il 47 e il 59% degli americani avrebbero cambiato religione almeno una volta.
Quello del sincretismo e del supermarket delle fedi è un tema che sta molto a cuore a Benedetto XVI, che fin dall’inizio del suo pontificato, durante la Giornata mondiale della Gioventù di Colonia, disse che «insieme con la dimenticanza di Dio esiste come un “boom” del religioso». Parla di una religione che «non di rado diventa quasi un prodotto di consumo. Si sceglie quello che piace, e certuni sanno anche trarne un profitto. Ma la religione cercata alla maniera del “fai da te” alla fin fine non ci aiuta».
I dati del sondaggio americano corrispondono alla realtà? E qual è la situazione in un Paese tradizionalmente cattolico come l’Italia? Il Giornale ha girato la domanda a Massimo Introvigne, direttore del Cesnur, il centro studi sulle nuove religioni. «Ho ricevuto anch’io i dati del sondaggio e vorrei dire che c’è qualche perplessità non tanto sui risultati quanto piuttosto sulla loro novità: è dal dopoguerra che la religiosità degli Usa viene descritta in questo modo». Quanto al sincretismo nostrano, Introvigne fa osservare che mentre «cala il numero degli italiani che credono nella reincarnazione - erano il 15% qualche anno fa, oggi solo il 10% - cresce ad esempio notevolmente la percentuale, anche fra i cattolici, la percentuale di coloro che si dicono certi che Gesù fosse sposato. È l’effetto Codice Da Vinci».
Nel nostro Paese, più che la New Age, Introvigne vede trionfare la «Old Age», vale a dire la credenza nella magia, nei riti dei fattucchieri, che ottiene il consenso del 30% degli italiani e del 10% degli italiani che vanno a messa. Un dato significativo, che emerge da una recente e approfondita ricerca del Cesnur durata un anno riguarda i fedeli cattolici praticanti che oscillano tra il 18 e il 20% della popolazione. «Sono in diminuzione, ma cresce la qualità della loro partecipazione ai sacramenti. Insomma, sono una minoranza ma con convinzioni radicate».

Il Giornale

Cattolici in Italia, “minoranza creativa”

Sul Giornale di sabato ho ripreso un sondaggio finito quel giorno in prima pagina di Usa Today, nel quale si rileva come cresca in America il sincretismo e come sempre più persone cambino religione o passino senza troppi problemi dalle celebrazioni di una confessione a quelle di un’altra. Per scrivere l’articolo, ho intervistato Massimo Introvigne, direttore del Cesnur (il Centro studi sulle nuove religioni), che ha appena concluso una lunga e approfondita ricerca sulla pratica religiosa in Italia, analizzando a tappeto la frequenza alla messa domenicale nella diocesi siciliana di Piazza Armerina (scelta perché nei sondaggi nazionali è sempre risultata perfettamente nella media ed è dunque indicativa delle tendenze presenti nell’intero Paese). Se dai sondaggi normali risulta che i praticanti cattolici sono solitamente il 28-30 per cento della popolazione, dalla ricerca di Introvigne, che - lo ripetiamo - non è un sondaggio a campione ma un lavoro minuzioso che ha riguardato in un determinato giorno dell’anno ogni chiesa, cappella e celebrazione privata di quella diocesi, è emerso un dato più basso di una decina di punti (18-20 per cento). Da che cosa dipende questa discrasia? Introvigne mi ha spiegato che c’è un numero consistente di persone che, interrogate al telefono sulla loro pratica religiosa, per un senso di appartenenza sono portate a dire di essere praticanti, anche se poi non lo sono realmente o magari lo sono solo saltuariamente. Ma dalla ricerca del Cesnur emerge anche un altro dato: lo zoccolo duro dei praticanti, quel 20 per cento della popolazione italiana, sono molto più motivati e preparati: non frequentano solo la messa, ma anche si confessano con una certa frequenza e partecipano alle attività ecclesiali. Sono sì una minoranza, ma una “minoranza creativa”. per usare il termine adottato da Benedetto XVI.


Blog Di Tornielli


Le visitandine in Vaticano.

di Nicola Gori

Da quello nero delle benedettine a quello con la croce delle visitandine. Cambia l'abito ma non il senso della presenza delle religiose che si alternano periodicamente nel monastero Mater Ecclesiae in Vaticano. Dall'ottobre scorso è il turno delle figlie di san Francesco di Sales e di santa Giovanna Francesca de Chantal. Trascorreranno tre anni al servizio diretto del Papa. Sei monache spagnole e una italiana vivranno questa esperienza spirituale all'ombra del cupolone. Un evento che capita in un momento particolare per l'intero ordine della visitazione, prossimo a celebrare, nel 2010, il IV centenario della fondazione. Abbiamo chiesto alla superiora suor María Begoña Sancho Herreros, già responsabile del monastero di Burgos, di parlarci del significato di questa nuova esperienza.

Per tre anni svolgerete la vostra missione in Vaticano. Come state vivendo questa esperienza?

Abbiamo accolto questo incarico come un dono singolare del Signore. Siamo consapevoli di non essere preparate per un'esperienza tanto speciale. Trattandosi poi di un dono di Dio, chiederemo a Lui stesso di sostenerci.
Ci sforziamo anche di mettere in pratica quello che dice il nostro fondatore san Francesco di Sales: "Che tutta la nostra vita e i nostri esercizi siano per unirci a Dio e per aiutare con le nostre preghiere e i buoni esempi la santa Chiesa e la salvezza del prossimo". Vivere tutto ciò in profondità è la preparazione migliore per questa missione che ci è stata affidata.

L'eredità di san Francesco di Sales e di santa Giovanna Francesca de Chantal continua a essere attuale?

Direi che il loro carisma è molto attuale. San Francesco di Sales è un santo dei nostri tempi. La sua dottrina è ideale per il momento che stiamo vivendo. Nei suoi scritti, diretti e semplici, invita alla santità ogni persona, qualsiasi vocazione abbia. Scrisse l'Introduzione alla vita devota, per insegnare come la santità deve essere vissuta, in modo naturale, nelle occupazioni abituali, cercando di rendere la virtù attraente per quanti ci circondano. San Francesco continua a ripeterci che la santità è alla portata di tutti. Il santo vescovo è anche il dottore dell'amore. Nel suo Trattato dell'amor di Dio è delineato un programma di perfezione per tutti coloro che si sentono attratti dall'amore verso Dio e che hanno sperimentato che anche Dio è pieno d'amore per l'uomo.
La nostra cofondatrice, santa Giovanna Francesca de Chantal, è un modello per tutti gli stati di vita poiché ha vissuto in prima persona diverse esperienze: nubile, coniugata, vedova, religiosa e infine fondatrice. È impressionante vedere come nei diversi momenti della sua esistenza abbia saputo essere una donna forte, affrontare le difficoltà con lo sguardo fisso sul Signore. Per questo la sua vita e la sua dottrina sono attuali ancora oggi.

Qual è il vostro carisma particolare?

San Francesco di Sales sentì che il Signore gli chiedeva una fondazione aperta a tutti, ma che riservasse un'attenzione particolare all'accoglienza di quanti avevano una salute fragile e non potevano entrare in altri ordini, che nelle loro regole prevedevano stili di vita molto austeri. Voleva che si supplisse alle penitenze esteriori con la rinuncia interiore. Egli scriveva: "Desidero dare a Dio figlie di preghiera, tanto interiori da essere ritenute degne di adorare Dio in spirito e verità". "Lo spirito della visitazione - faceva notare - è di profonda umiltà verso Dio e grande dolcezza verso il prossimo". E ancora: "Uno spirito che non pone l'accento sull'austerità esteriore; le sorelle devono supplire a essa con la rinuncia interiore e con grande semplicità e gioia nella via comune". Riguardo al nostro ordine, il fondatore affermava: "La congregazione non pretende altro che formare anime umili" e "la caratteristica delle figlie della visitazione è di vedere in tutto la volontà di Dio e di seguirla". Fa parte del nostro carisma anche la spiritualità del Cuore di Gesù. San Francesco di Sales ci ha lasciato come stemma dell'ordine il Cuore di Gesù circondato da una corona di spine. Diceva una frase molto bella al riguardo: "Vorrei cambiare la corona di spine del Cuore di Gesù con una corona formata con il cuore di tutti gli uomini". Santa Margherita Maria, anche lei religiosa della visitazione, fu la confidente del Cuore di Gesù. Diceva: "A noi figlie della visitazione è stata concessa la grazia di onorare la vita nascosta del cuore di Gesù e, poiché Egli si è rivelato a noi, vuole che noi lo manifestiamo e lo offriamo agli altri".

Quale sarà la vostra missione nel monastero vaticano?

Pregare e sacrificarci per la Chiesa e per il Papa nello spirito della visitazione, con la nostra vita semplice e comunitaria di preghiera, di lavoro, di momenti di ricreazione. Il tutto unito al sacrificio di Cristo offerto per la Chiesa e per il Pontefice. Ci occuperemo anche di alcuni lavori per la persona del Papa, come la cura degli abiti.

Può descriverci una giornata tipo trascorsa nel monastero?

La nostra vita è scandita dai momenti liturgici, dalla preghiera comunitaria e personale, dal lavoro e dal riposo. Cominciamo la mattina alle 5.20 con la sveglia, poi alle 5.55 andiamo in coro per la preghiera. Alle 6.55 recitiamo le lodi e alle 7.15 partecipiamo alla messa. Alle 8 facciamo colazione, e poi ci dedichiamo al lavoro. Alle 9 di nuovo in coro per l'ora Terza e quindi lavoro. Alle 11.15 recitiamo l'Ufficio delle letture e dalle 11.45 alle 12 pausa libera prima di recitare l'ora Sesta. Alle 12.15 pranziamo e ci prendiamo un momento per stare insieme in tutto relax. Alle 13.50 un breve momento chiamato "obbedienza" per eventuali comunicazioni alla comunità da parte della superiora. Alle 14.05 ci rechiamo in cappella per adorare Gesù presente nel tabernacolo. Questo momento è detto visita. Seguono poi la recita dell'ora Nona, l'esame di coscienza e il lavoro. Alle 16.15 vi è la lettura spirituale, seguita alle 16.45 dalla merenda. Alle 17 meditiamo alcuni temi spirituali e alle 18 c'è l'esposizione del Santissimo Sacramento e la preghiera. Alle 18.30 ci rechiamo in coro per la recita dei Vespri. Dopo un quarto d'ora libero, alle 19.15 ci ritroviamo insieme per recitare il rosario. La cena è alle 19.45, seguita alle 20.15 dalla ricreazione. Di nuovo il momento di "obbedienza" per eventuali comunicazioni alla comunità da parte della superiora. La compieta alle 21.15 conclude la giornata.

Qual è il vostro contributo all'Anno sacerdotale?

La Chiesa ha invitato le donne in generale, e noi religiose in particolare, a sentirsi "madri spirituali dei sacerdoti". Essere madre significa prendersi cura e pregare per loro. Accoglierli quando vengono a chiederci preghiere o a raccontarci le loro difficoltà. Ogni giorno recitiamo una preghiera per i sacerdoti: per quelli santi, per quelli meno ferventi, per quanti soffrono o sono tentati, per quelli che ci aiutano con la loro vita esemplare, amministrandoci i sacramenti. Ma, soprattutto, cerchiamo di vivere in unione spirituale con tutti i sacerdoti, aiutandoli con le nostre preghiere e i nostri sacrifici.

Qual è stata la sua esperienza di claustrale in Spagna?

Sono religiosa da trent'anni e quindi è un po' difficile riassumere la mia esperienza in poche parole. Posso dire che la mia vita è stata ed è una ricerca di Dio e allo stesso tempo un incontro con Lui. Quando ho sentito la vocazione mi sono ribellata contro il Signore perché i miei piani non coincidevano con i suoi. Non mi sentivo portata per la vita religiosa, ma sapevo chiaramente che Dio ha sempre ragione e che era inutile lottare contro di Lui. Così mi sono arresa e la mia riluttanza è sparita, tanto che a volte penso: "Di quante grazie mi sarei privata se avessi detto no a Dio". Sono entrata nell'ordine della visitazione spinta dal mio amore per il Cuore di Gesù, dal mio desiderio di amarlo e di consolarlo. Mi sentivo innamorata di Dio e, soprattutto, Dio mi aveva cercato assiduamente come un vero amante. Sono trascorsi così i miei primi anni. A mano a mano che passa il tempo sento una grande nostalgia di Dio. Sento nel profondo che ancora non lo conosco, che il suo Cuore è un abisso impenetrabile, tanto profondo da non riuscire a comprenderlo. Ammiro i santi con la loro conoscenza di Dio e vedo che io sono tanto lontana. Cerco nella Sacra Scrittura e dico con il profeta Geremia: "Quando le trovavo (le tue parole) le divoravo...".
Certo, conosco con la mente e con il cuore l'essenza di Dio: ossia l'amore. L'ho sperimentato tante volte, soprattutto nelle mie miserie, nella mia povertà. Egli agisce sempre con amore, poiché l'amore è la sua essenza. Mi conforta sapere che le mie preghiere e i miei sacrifici recano beneficio alla Chiesa e al mondo, che Dio si serve di essi per avvicinare gli uomini al suo cuore, che il dono più grande che posso fare al Signore, ciò che più lo aggrada, è che le persone lo conoscano e lo amino per poter essere felici.

Lei era già stata superiora di una comunità?

Sono stata superiora del monastero della visitazione di Burgos in Spagna per alcuni anni. Nel periodo in cui ho guidato la comunità, ho avuto la possibilità di conoscere un po' di più le persone. Arricchisce vedere l'azione di Dio nel prossimo. Molte volte guardiamo gli altri solo dall'esterno, senza conoscere quanto avviene nel loro intimo. Ogni persona è veramente un dono di Dio. Essa è posta lungo il nostro cammino perché abbiamo bisogno di lei per andare avanti, anche se non sempre ci è gradita. Scoprire ciò è una grazia.
Infine, vorrei dire una parola sul mio legame con la Vergine. Mi sento così povera che è per me una necessità ricorrere a Maria. Sono come colui che lotta per ottenere qualcosa senza riuscirci e ricorre alle persone influenti. Così io ricorro alla Vergine. Molti anni fa ho fatto un patto con lei, offrendole tutto ciò che avevo affinché lo presentasse al Signore e gli chiedesse ciò di cui sa che ho bisogno. Sono nelle sue mani e in questo momento in cui inizia nella mia vita una nuova tappa l'affido a lei, affinché mi renda sempre docile alla volontà del Signore.


(©L'Osservatore Romano - 2 dicembre 2009 )

Società liquida: quale futuro per le fedi

di Massimo Giuliani
Tratto da Avvenire dell'11 novembre 2009

Sono sempre più frequenti oggi saggi e volumi sul ritorno delle fedi, e delle religioni, nel dibattito pubblico e sul ruolo che esse giocano nello scacchiere geo-politico mondiale.

Ma si tratta altrettanto spesso di testi o polemicamente anti-religiosi o apertamente apologetici. Non è un paradosso affermare che esistono, al contempo, un deficit di riflessione sul fenomeno religioso e un bisogno di capirlo in maniera più profonda e ragionata, rendendo conto della complessità delle società tardo-moderne (multi­culturali, post-secolari, globalizzate, e via catalogando) in cui viviamo. Quale peso oggettivo hanno le religioni come «meccanismi identitari» in un vissuto sociale sempre più segnato da vincoli istituzionali deboli e da una sovrabbondanza di opzioni e di scelte, ben simbolizzato dalla quasi infinita disponibilità della e nella Rete? È vero che, sfuggendo alle strategie di controllo e di conservazione messe in atto dalle istituzioni religiose tradizionali (soprattutto cristiane, islamiche ed ebraiche), si sta facendo strada una religiosità virtuale, liquida e sempre mutevole, che sancirebbe il trionfo di un’identità, individuale e collettiva, dalle identiche caratteristiche? E qual è la ricaduta di una simile ri-definizione della religione sull’identità personale qualora si profilasse un conflitto sociale o uno scontro culturale, ad esempio in materia di immigrazione o di diverse concezioni della laicità dello stato o quant’altro che la cronaca non manca di suggerire ogni giorno? Queste domande, e il bisogno di nuovo pensiero religioso a cui sembrano alludere, trovano eco e forse qualche originale, non sbrigativa ipotesi di risposta nell’impegnativa opera curata da Giovanni Filoramo dal titolo «Le religioni e il mondo moderno» (Einaudi). Si tratta del quarto volume, che appare dopo quelli specificamente dedicati a cristianesimo, ebraismo e islam, di un’opera che intende scandagliare, sotto molteplici punti di vista espressi da diversi esperti a livello italiano e internazionale, le modalità con cui nella tarda modernità sta evolvendo il ruolo delle religioni (al plurale) nella definizione delle identità personali e collettive, in rapporto all’appartenenza etnica o sociale ma anche in rapporto alle istituzioni e alle teologie a cui quelle religioni hanno dato vita nel corso della storia. Nell’introduzione e in suo saggio, Filoramo ipotizza tra il resto che stia emergendo ciò che lui chiama una «religione diasporica»: in società non più culturalmente omogenee, e rese liquide sia dal tasso migratorio (in entrata e in uscita) sia dalla mobilità elettronica (la Rete), l’esperienza religiosa d’origine, alla quale cioè siamo stati iniziati da piccoli, potrebbe fungere in futuro da prezioso collante per un’identità alle prese con le lealtà multiple che ci sono richieste. Tale funzione non può che essere positiva, e potrebbe attenuare il sempre ricorrente rischio di conflitti o di competizioni nel singolo non meno che nella società.

Forse l’aspetto meno esplorato in questa riflessione (e nell’intero volume) è l’impatto che sulle nuove forme di religiosità può avere una sensibilità, oltre che una pratica, che si va sempre più diffondendo come quella del dialogo interreligioso, dello scambio interconfessionale e dell’educazione alla multiculturalità.