di Carlo Bellieni
E’ cronaca: siamo arrivati a trattare degli embrioni umani come comuni medicine per curare gli adulti. Lo studio è appena iniziato e ci sembra strano tutta questa enfasi rivolta all’unica via ancora senza effetti tangibili: ci sono altre strade percorribili nel campo delle staminali, anche feconde di risultati.
Ma riflettiamo: non vi sembra che pensare all’uso di un embrione umano come medicina sia l’ennesima forma di sopruso culturale dell’adulto sul minore?
Cresciuti in un’epoca in cui si gettavano le basi per un rapporto non più servile tra genitori e figli (vedi il film “Padre-padrone”), finiamo per ricaderci, in barba alla laicissima etica kantiana che vuole che nessun essere umano sia mai mezzo di utilità per un altro. E che un embrione umano sia un essere umano è un dato di fatto perché ha un DNA umano ed è vivo e tanto basta; o volete anche che sia intelligente e bello? Sfido chiunque a dire la frase “io non sono stato un embrione!”.
Esistono tante forme in cui il minore è trattato come mezzo: dalla pubblicità in TV, in cui i bambini sono il tramite per esercitare pressione sui genitori; dai bambini messi in TV per impietosire o infilati addirittura nelle trasmissioni in cui si gioca con denaro; alle cure per i prematuri che in molti Paesi seguono protocolli diversi da quelli che si seguono per l’adulto, partendo dal concetto che il bambino ha un valore diverso dal grande; l’idea stessa che il figlio “venga pure, ma non deve cambiare la vita”, che sia “una scelta”, “un diritto”, sono forme di oggettivazione, anzi di “giocattolificazione” del figlio.
E quando il bambino-giocattolo diventa giovane crolla in depressione perché alla fine scopre di non essere quell’idolo-giocattolo unico e perfetto che dicevano papà e mamma. Una giocattolificazione degli adulti sui minori che strappa gli ideali agli adolescenti, tanto che le uniche cose per cui reclamano sono non gli ideali ma le paure (il surriscaldamento, l’inquinamento, la disoccupazione); o al massimo il Che Guevara, ideale in naftalina, imposto dai vecchi ai giovani per non sentirsi fuori moda.
Viviamo in un’epoca pedofobica, in cui il bambino che arriva fa paura perché potrebbe “non essere perfetto”, fobia che è segno di una paura storica, profonda, che non sa dare un nome ad una possibile speranza, e di ciò le spese le fanno i bambini, sopravvissuti alla diagnosi prenatale, garantiti perfetti da mille esami e selezioni che, quando arrivano tra le braccia delle mamme mostrano di non essere dei giocattoli e questo provoca depressione, post partum e anche oltre. E fa paura l’adolescente-giocattolo-per-vecchi che non lasciamo crescere e andarsene di casa, per non sentirci appunto vecchi.
Allora vi pongo due interrogativi.
Si può lottare contro l’uso medicinale di un embrione umano e non capire che il problema è la reificazione, cioè la giocattolificazione dell’infanzia?
E si possono difendere i bambini dalla TV, dal bullismo ecc, se non si difendono anche quando sono piccoli embrioni invisibili?
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