«E tu a chi appartieni?»: nelle diverse flessioni dei nostri dialetti, fino a poco tempo fa non era difficile, soprattutto nella provincia meridionale, sentire rivolgere questa domanda per sapere come uno facesse di cognome, di quale famiglia fosse membro, che rapporti di parentela avesse, che posizione nel contesto sociale ricoprisse, e così via. Insomma tutto il mondo di una persona sospeso al filo della sua appartenenza e attraversato da esso.
Quello dell’appartenenza è un problema che – almeno a livello psicologico e sociale – è visto oggi come un residuo. In primo luogo il residuo di una personalità non ancora compiutamente emancipata o criticamente matura, che si attardi in maniera quasi patologica a concepire se stessa a partire dal rapporto con la sua origine, e quindi ancora in qualche modo “dipendente” da altro. Non che i legami di filiazione e di appartenenza ad un ceppo familiare, ad una terra, ad una storia, ad una cultura siano negati – e come potrebbero esserlo? –, ma essi vengono appunto ricondotti a una matrice psicologica o antropologico-culturale, a un deposito simbolico, a una preistoria emotiva. Né si può dimenticare la diffusa messa in discussione delle appartenenze ideologiche e delle identità religiose e politiche, che sembra abbiano lasciato come conseguenza più diffusa, anche solo nell’immaginario collettivo, che appartenere ad una storia, ad una comunità, ad un gruppo sociale è sicuramente un bene ed un passaggio inevitabile per il singolo, ma ultimamente impossibile a durare come costitutivo della propria conoscenza e della propria azione nel mondo, poiché prima o poi l’appartenenza va pagata al prezzo della libertà e dell’auto-determinazione, e se resta avrà la materia del “sogno” o dell’utopia. Un ideale, certo, ma staccato dalla realtà.
Per un altro verso, tuttavia, l’appartenenza è addirittura tornata ad occupare la scena culturale del nostro tempo, intesa proprio come il grumo affettivo o ideologico rimosso – e quindi irrisolto – di molte storie individuali, troppo affrettatamente illuse di potersi auto-determinare liberandosi dai rapporti con la propria origine e la propria storia. Oppure essa ritorna come una specie di correttivo sentimentale rispetto ad una razionalità calcolante e impersonale che sembra omologare tutto quello che tratta. Insomma, un disagio profondo che chiede di essere sempre nuovamente attraversato o una tendenza culturale (e in molti casi finanche alla moda) nel segno di un ritorno alle proprie radici o di un gusto per le tracce e i valori etnici di ogni cultura.
Se da un lato, dunque, quello dell’appartenenza si presenta nella nostra cultura come un fenomeno “residuale”, dall’altro lato esso non giunge mai ad esaurimento, ma resta come un problema aperto o un richiamo sempre ritornante. In altri termini, come un residuo irrisolto e irrisolvibile: e lo si vede soprattutto per il fatto che l’appartenenza è per così dire inchiodata ad un vocabolario che ne definisce pregiudizialmente – se non ideologicamente – i connotati e i confini. “Appartenenza” dice infatti “identità”, intesa quest’ultima come un fenomeno storico-culturale determinato in un dato contesto spazio-temporale, in cui si sviluppa una certa visione di sé e del mondo, con alcuni precisi valori e altrettanto precise pratiche e costumi. In una parola, se appartenere a qualcosa significa avere un’identità, avere un’identità significa entrare nel campo del “relativo” – nel senso che essa va concepita sempre e solo relativamente ad un certo mondo o sistema di riferimento, e questo – come molti antropologi si affrettano a precisare – anche, e forse soprattutto, qualora un’identità particolare concepisca se stessa come universale o naturale o comune. Si noti comunque che nel lessico del discorso pubblico il concetto di “identità” è quasi per definizione un concetto “relativistico”, come se l’esser-relativo costituisse un attributo intrinseco del fenomeno identitario. In fondo, ci troviamo qui di fronte alle estreme e più coerenti conseguenze del lavoro critico sviluppato in buona parte del cosiddetto pensiero “moderno”, impegnato a decostruire la pretesa tipica delle identità storiche a porsi come punti di vista universali, affinché, attraverso la relativizzazione dei loro fondamenti storico-culturali (soprattutto religiosi), si potesse giungere a costruire un altro tipo di universalità, non più fondata su identità già presenti o accadute nel corso della storia, ma auto-certificata come un modello o una matrice puramente razionale, come una pura natura comune a tutti gli uomini.
Senza neanche tentare in questa sede di ricostruire lo sviluppo storico del problema, mi limito a sottolineare soltanto che a partire dal Seicento – da quando cioè esplode in Europa il problema delle guerre di religione – le identità storiche e le appartenenze religiose vengono progressivamente pensate come fenomeni particolari e necessariamente parziali (ciascuna però con una pretesa di totalità, e quindi inevitabilmente in conflitto con le altre), di contro a una “natura umana” pensata come comune a tutti, ma non in quanto ritrovata attraverso esperienze di fatto, bensì in quanto stabilita per così dire a priori dalla stessa legge naturale. Un puro meccanismo che fa a meno della storia, con la funzione di costituire una regola suprema di ciò che accade storicamente, sebbene alla fine questo si riveli come un’astrazione o un puro esperimento mentale, giacché la natura umana non esiste mai in sé e per sé, ma si dà sempre concretamente in esperienze storiche determinate.
Piuttosto bisogna osservare – ma tornerò più avanti su questo punto – che ogni esperienza storica, ogni determinata identità è l’unico modo che noi abbiamo per scoprire dei fattori comuni e universali della nostra natura, senza che le due cose siano in contraddizione tra loro. E invece da un certo momento in poi le cose cominciano inesorabilmente a divaricarsi: la natura comune o universale diviene il metro di misura di ogni esperienza particolare, e viceversa ogni identità storica particolare, ogni determinata appartenenza viene vista in qualche modo come una limitazione o parzializzazione di una neutra norma antropologica.
Il passaggio dal “relativo” delle identità storiche all’“assoluto” della legislazione razionale aveva come obiettivo principale niente di meno che salvaguardare la pace sociale tra le diverse parti politico-religiose, attraverso una precisa strategia della tolleranza che, da un lato, si appellasse alla ragione umana, intesa come il criterio supremo dell’universalizzazione dei comportamenti e delle norme, come collante della convivenza sociale; dall’altro escludesse che una pretesa di verità possa in qualche modo sottrarsi alla regola del potere statale.
Prendiamo il caso di Locke (1632-1704), il quale nei Saggi sulla legge di natura del 1664 sostiene che gli uomini sono capaci per natura – cioè esclusivamente in base all’esercizio della loro ragione – di giungere alle verità fondamentali dell’etica, della politica e della religione. Di conseguenza la legge naturale presente in ogni uomo non va intesa come ispirata da Dio (come dicevano i puritani dell’epoca), ma come originaria verità razionale, conoscibile solo grazie all’«uso appropriato» delle facoltà naturali. Se non si accettasse questo argomento, verrebbe meno qualsiasi terreno comune su cui fondare una convivenza pacifica tra gli uomini, vale a dire non sarebbe possibile la tolleranza, specie in materia religiosa. Ma con ciò il problema è molto meno risolto di quanto si potrebbe credere. Se non altro, resta aperta la questione di come la legge di natura possa dettare o divenire una norma civile. Anzitutto, come afferma esplicitamente lo stesso Locke, la legge di natura non è qualcosa di innato in noi (come attesterebbe il fatto che non si trova mai un accordo unanime nello stabilire in cosa essa consista), né ci viene trasmessa per mera tradizione (perché a ben vedere vi sono comunità e culture diverse che assumono come legge di natura principi spesso radicalmente diversi tra loro). Bisognerà dunque che tale legge venga appresa per conoscenza – ossia per esperienza –, e ad essa si dovrà accedere mediante le facoltà della mente umana (cioè nel senso e nella ragione, le due facoltà che strutturano appunto l’esperienza). Non è un caso che, nell’introdurre il suo Saggio sull’intelletto umano (1690), Locke dichiara che l’opera era nata in realtà da una discussione tra cinque o sei amici intorno allo scottante tema della pacificazione politica tra le diverse confessioni religiose all’epoca presenti sul territorio inglese, solo che essi «ben presto si trovarono ad un punto morto per le difficoltà che sorsero da ogni parte». E continua: «Dopo esserci affaticati per qualche tempo, senza avere fatto un passo avanti nella soluzione dei dubbi che ci imbarazzavano, mi venne fatto di pensare che eravamo su una strada sbagliata e che, prima di impegnarci in ricerche di quel genere, era necessario esaminare le nostre stesse capacità, e vedere quali oggetti siano alla portata della nostra intelligenza, e quali invece siano superiori alla nostra comprensione» (dall’Epistola al lettore). Senza entrare qui nel merito della gnoseologia lockeana, basti ricordare che essa contempla non solo la possibilità di una «conoscenza certa» (knowledge), tanto evidente quanto limitata alle idee ricavate direttamente dall’esperienza (cioè sensazione e riflessione), quindi di per sé ancora incapace di orientare le nostre decisioni e con ciò condurre la nostra vita, ma anche una «conoscenza probabile» (judgment), che riguarda cose di cui non abbiamo direttamente una conoscenza certa, ma a cui diamo il nostro assenso indirettamente, o perché ne rileviamo l’accordo con la nostra esperienza, oppure perché ci basiamo sulla testimonianza credibile di altri uomini (e cioè per fede). Il giudizio, dunque, può essere dato come assenso razionale, ma anche come assenso per fede (la fede infatti, secondo Locke, deve sempre poter esibire le sue buone ragioni, e quindi non va mai contrapposta alla razionalità). Dal giudizio esulano invece le cose che risultano «incompatibili o inconciliabili» con le nostre conoscenze razionali (certe o probabili che siano), e che si presentano come oggetto di un fideismo fanatico o di un «entusiasmo» misticheggiante, in quanto presumono di basarsi su una rivelazione che possa fare a meno della ragione. E mentre la vera rivelazione divina per Locke ha come suoi segni certi la ragione e la Scrittura, il fanatismo ha come segno la spada da impugnare per sconfiggere in nemici della propria confessione. Per assicurare una reale situazione di tolleranza, dunque, la legge naturale non basta e la stessa evidenza della conoscenza razionale è sempre in pericolo di essere sopraffatta dal fanatismo irrazionale. Per questo, nel momento in cui l’interesse religioso degli uomini (con i suoi rituali, le sue credenze e i suoi costumi) entrasse in conflitto con l’interesse civile, è il potere civile che è chiamato a risolvere il conflitto e ad assicurare la convivenza pacifica nella società. Il magistrato infatti, secondo Locke, ha sempre il diritto di intervenire nelle cose che riguardano il bene pubblico, e dunque anche in quelle di religione, laddove esse lo contraddicano. Ad esempio, se una confessione religiosa, come il cattolicesimo, dà ai suoi membri la possibilità di cacciare dal trono un re scomunicato, e quindi in definitiva non riconosce lo Stato come ultima istanza della vita civile (giacché i “papisti” sono obbedienti al Papa prima che al re), essa va perseguitata; come pure va perseguitato l’Islam per il fatto che non separa il potere spirituale da quello temporale e infine vanno perseguitati gli atei, i quali negando che vi sia un Dio impediscono di pensare i legami sociali come qualcosa di sacro e inviolabile (cfr. la Lettera sulla tolleranza, del 1689). Sembrerebbero problemi e contesti assai lontani dalle questioni che agitano il nostro presente, e tuttavia, a ben guardare, in essi si trova come la chiave per aprire e comprendere nei suoi presupposti di fondo le stesse discussioni che occupano la cultura contemporanea. E ancor più in essi possiamo rintracciare le matrici di tutta una problematica educativa che oggi sembra in affanno rispetto alle questioni legate al conflitto o alla coesistenza pacifica delle identità, presa com’è nel dilemma tra il modello multiculturalista e il modello integrazionista, cioè tra una mera coesistenza orizzontale di identità in sé chiuse, incommensurabili ed impermeabili e l’organizzazione dei loro rapporti in senso verticalizzato, e cioè tramite la loro simultanea riduzione ad alcuni denominatori comuni decisi dall’esterno. Vediamo.
Nella soluzione moderna al problema delle identità la partita sembra giocarsi interamente sul rapporto tra la parte e il tutto: il tutto è la comunità civile, normata dalle leggi dello Stato, le parti sono le singole identità religiose. Le loro differenze sono tollerabili ma solo fino a quando non turbino l’ordine unitario del corpo sociale, il quale va dunque considerato come l’orizzonte di possibilità e di senso di ogni verità identitaria, e le identità, da parte loro, vanno sempre commisurate ad una totalità entro la quale esse devono inserirsi e alla quale devono essere in qualche modo funzionali. L’alternativa drammatica è dunque la seguente: o le guerre di religione o la sottomissione di ogni identità al potere dello Stato. Da questo punto di vista arrivano a cambiare anche i termini della questione: il rapporto tra identità e differenze non va più visto a partire da ciascuna delle identità, perché esso deve trovare un punto di osservazione terzo (“terzo” nel senso esatto di “neutro”), un’istanza superiore, quella del potere (o meglio dei poteri) del governo civile, che assume per così dire totalmente su di sé il senso e il ruolo di una nuova, autentica e legittima “identità” artificiale, ricomprendendo, regolamentando e delimitando sotto di sé tutte le differenze. In altri termini tutte le identità costituiscono per ciò stesso altrettante differenze, non solo o non più tra di loro, bensì rispetto allostandard identitario comune delle istituzioni statali. È quello che, nel secolo successivo, verrà teorizzato da Rousseau (1712-1778) – un autore che peraltro ha giocato e gioca un ruolo significativo anche in chiave pedagogica. Rousseau può essere considerato un pensatore molto distante, se non contrapposto a Locke, quando afferma che lo stato di natura è «uno stato che non esiste più, che forse non è mai esistito, che probabilmente non esisterà mai», ma che ci serve per poter «giudicar bene del nostro stato presente» (Discorso sull’origine e i fondamenti della diseguaglianza, 1754, Introduzione). La legge naturale non sembra più essere uno strumento di comprensione e di direzione razionale delle vicende degli uomini, dal momento che da quando questi sono entrati nella società (e cioè, da quando essi concretamente esistono, secondo le loro appartenenze, la loro cultura, i loro costumi ecc.) è iniziato un processo di inesorabile corruzione. Anzi, contro i giusnaturalisti Rousseau afferma che quando i filosofi tentano di identificare una «legge naturale» cooriginaria alla condizione primitiva dell’uomo, il più delle volte proiettano su di essa, e giustificano grazie ad essa, i vizi e le corruzioni della vita civile. Quale sia l’originaria natura umana è ormai impossibile riconoscerlo, dopo le erosioni compiute dal tempo. Ciò che esiste effettivamente è solo e sempre la società, e la natura umana funziona per così dire come un concetto euristico grazie al quale poter determinare il modo in cui la società «crea» gli individui. Per poter sopravvivere in società, l’uomo deve sottoporsi ad una trasformazione di tipo ontologico (changer sa manière d’être), e cioè trasformare la sua stessa natura, in maniera tale che l’essere assoggettati mediante i legami sociali non appaia più come una schiavitù ma come la conquista della libertà. Secondo Rousseau, com’è noto, tutto ciò può accadere solo ad opera della legge dello Stato, che incarna la «volontà generale», cioè nell’alienazione totale di ciascun individuo e dei suoi diritti a vantaggio della comunità: «ciascuno di noi mette in comune la sua persona e tutto il suo potere sotto la suprema direzione della volontà generale, e noi tutti, in quanto corpo, riceviamo ciascun membro come parte indivisibile del tutto» (Il contratto sociale, 1762). Così si compie il miracolo di essere al tempo stesso alienati in altri e liberi, condizionati e autonomi, di amare se stessi amando il bene dello Stato come il proprio. In questa maniera ci si congeda dall’«uomo» e si comincia a vivere come «cittadino»: ma la seconda figura non è una specificazione della prima, bensì una netta alternativa ad essa: «Bisogna scegliere se fare l’uomo o il cittadino; perché non si può fare insieme l’uno e l’altro». E ancora: «L’uomo naturale è tutto per sé: è l’unità numerica, è l’intero assoluto che ha rapporto solo con se stesso o con il suo simile. L’uomo civile non è che un’unità frazionaria che dipende dal denominatore e il cui valore risiede nel rapporto con l’intero, che è il corpo sociale. Le buone istituzioni sociali sono quelle che meglio riescono a denaturare l’uomo, a privarlo della sua esistenza assoluta per conferirgliene una relativa, a inserire l’io nell’unità comune. Così che ciascun individuo non si creda più uno, ma parte dell’unità, e non sia più consistente se non nel tutto» (Il contratto sociale). Notiamo qui una strana inversione del problema: non è tanto il carattere relativo di ogni individualità o identità che richiede, per essere composta con le altre identità a loro volta relative, l’inclusione totalizzante nel corpo dello Stato, ma è proprio la legge dello Stato, come espressione della volontà generale, a determinare il carattere relativo delle identità. E con ciò, la relatività cessa di significare relazione o referenza alle altre identità (e cioè alle differenze), e significa referenza all’istanza unica della universalità rappresentata dallo Stato. Nel passaggio dall’autonomia naturale all’appartenenza sociale, l’identità dell’essere umano diviene ormai quella di un essere pubblico (il cittadino ricompreso nella volontà generale). Se l’uomo deve realizzarsi nello Stato, quest’ultimo deve costituire integralmente e radicalmente l’uomo, che non appartiene più a qualcuno o a qualcosa, ma a tutti, come tutti appartengono a lui: e cioè egli non apparterrà a nessuno e lui stesso non sarà altro che il «nessuno» a cui appartengono gli altri (la formula di Rousseau suona: «se tutti si danno a tutti, nessuno si dà a nessuno»). Di qui deriva il compito dello Stato: «Chi affronta l’impresa di dare istituzioni ad un popolo deve sentirsi in grado, per così dire, di cambiare la natura umana; di trasformare ogni individuo, che in se stesso è un tutto perfetto e solitario, nella parte di un tutto più grande da cui questo individuo riceva, in qualche modo, la vita e l’essere; di alterare la costituzione dell’uomo per rafforzarla; di sostituire un’esistenza parziale e morale all’esistenza fisica e indipendente che noi tutti abbiamo ricevuto dalla natura» (Il contratto sociale). La verità dell’io si trasforma nella volontà generale, e la libertà del singolo viene a coincidere con la sua appartenenza al corpo dello Stato e la sua sottomissione alle leggi esprimenti il consenso comune. In definitiva, il rapporto dell’io e della verità può e deve realizzarsi solo in forma politica. Mi sono attardato a considerare questi due autori decisivi per il cosiddetto pensiero moderno, non solo per l’importanza delle loro proposte teoriche (l’uno come riferimento obbligato del cosiddetto pensiero liberale e dell’individualismo su base proprietaria, l’altro delle diverse versioni del primato della società politica in chiave egualitaristica o collettivistica), ma per il fatto che in essi – come anche in altri autori che qui naturalmente non posso neanche citare – viene forgiato il lessico stesso e l’impianto categoriale con cui anche noi, post-moderni, oggi pensiamo i termini fondamentali del rapporto tra identità e differenze a livello pubblico (come è in gioco soprattutto nella scuola). Vale comunque la pena prendere sul serio la sfida di questi autori, per verificare – anche al di là delle loro soluzioni – la vera posta in gioco di tale rapporto. La riflessione di Locke, in primo luogo, ci fornisce un elemento di grande rilievo e di sicura utilità per giudicare del nesso possibile tra identità e differenze nell’ambito della convivenza civile, ed è quello secondo cui il punto di verifica iniziale risiede in un problema di ordine cognitivo. Questo mi permette di sottolineare che tale problema – soprattutto a livello educativo – non è innanzitutto un problema di carattere etico-politico, bensì conoscitivo: o meglio, può essere risolto a livello etico e politico se viene in chiaro circa la sua dimensione cognitiva. Intendo qui il livello conoscitivo non come quello riguardante i presupposti teorici o ideologici delle scelte e dei comportamenti pratici, bensì il livello dell’auto-comprensione ossia della coscienza che noi abbiamo di noi stessi e del mondo. In altri termini, l’unica possibilità di intendere la nostra identità di singole persone e la nostra appartenenza a un’identità storica, culturale, religiosa ecc., e al tempo stesso la differenza rispetto ad altri individui e ad altre appartenenze, è di tipo conoscitivo nella misura in cui comprende nuovamente le domande – cioè il bisogno di senso, ossia il desiderio del “reale” e del “vero” – che strutturano la nostra esperienza, che fanno di me e di noi qualcuno di identificabile nella propria esigenza, e a cui le nostre appartenenze danno di volta in volta una risposta più o meno adeguata. L’inevitabilità di tale interrogazione può essere facilmente documentata, sub contrario, attraverso la semplice constatazione che la crisi delle identità (e quindidelle differenze) dipende da una crisi delle appartenenze, ma a sua volta la crisi delle appartenenze deriva dal fatto che esse non vengono percepite più come una risposta alla domanda di senso delle persone, e quindi o vengono abbandonate come non pertinenti al bisogno strutturale dell’io, oppure vengono reiterate come valori assoluti della tradizione. Ma in entrambi i casi le appartenenze non sono più dei modi di “essere” dei singoli. Questa impostazione permette di evitare o di risolvere alcune questioni problematiche che oggi sembrano aver bloccato la possibilità di affrontare in maniera non conflittuale, ma neanche semplicemente omologante, il problema del rapporto tra identità e differenze nell’ambito della società civile, della politica e della scuola. 1) La prima questione riguarda l’idea stessa che ogni identità debba essere affermata in senso relativo (se non relativistico), pena il perpetuarsi della pretesa identitaria come imposizione ideologica di una parte sul tutto. Il punto infatti non è tanto quello di reimpostare e limitare in senso politicamente corretto i fondamenti di verità di una cultura o tradizione o appartenenza (e questo il più delle volte viene realizzato a buon mercato, semplicemente negando che possano esservi dei fondamenti identitari stabili e ancor più radicalmente negando che nelle esperienze storiche relative si dia qualcosa di così impegnativo come una verità). Si tratta piuttosto di tornare a porre la questione che trova soluzione o tentata soddisfazione nella propria identità di appartenenza. E al tempo stesso ritrovare la domanda o le domande che stanno alla base delle altre culture e identità. Nella cultura del “nichilismo” realizzato, come è quella che oggi costituisce il nostro comune orizzonte (almeno nelle società occidentali), il relativo o è relativistico o non è; esso si contrappone all’assoluto, meglio è ciò che non è assoluto e basta, senza che nella parola e nel concetto che essa nomina si avverta più la “relazione” costitutiva di ogni identità individuale. L’altro, come la filosofia del Novecento ha più volte richiamato, non è solo l’altro dell’io, ma è anche e prima ancora l’altronell’io; e questo vuol dire che in ogni identità vi è una trascendenza irraggiungibile o una differenza non totalizzabile nelle nostre misure, vale a dire una traccia della provenienza e una tensione al compimento irriducibili, perché tendenzialmente aperti all’infinito. Insomma noi siamo sempre più di ciò che pensiamo di essere o che vogliamo essere o che siamo capaci di fare e di costruire. Noi “siamo” altro in quanto noi stessi, proprio perché cerchiamo un significato ultimo, più grande di noi. Più precisamente, noi “apparteniamo” a tale significato. E la nostra domanda di significato è precisamente il segno universale che ogni identità porta in sé una differenza, e che tutte le posizioni differenti si riferiscono a una comune identità. Compito specifico dell’insegnamento scolastico, e in esso del rapporto educativo, può essere allora proprio quello di richiamare l’attenzione e favorire la scoperta del rapporto con l’“altro” nell’io, ma non tanto – come pure si sarebbe tentati di ridurre la questione – attraverso l’evocazione di una solidarietà compassionevole, bensì attraverso la condivisione di quella relazione fondamentale che è la domanda di senso. Solo tale domanda può far scoprire che il tutto o l’intero non è il risultato di una sommatoria di singole parti, ma è un fenomeno che è compreso all’interno di ogni parte, sta al cuore di ogni identità determinata. Solo che tale intero costituisce sempre una dinamica inconclusa: quanto più si individua un significato di sé e del mondo, tanto più si potenzia la domanda e si intensifica la scoperta di tale significato nella storia. 2) La seconda questione riguarda la contestazione, avanzata sempre più frequentemente, che si possa in generale parlare e appellarsi a una “natura umana”, dal momento che non si tratterebbe di qualcosa di sostanziale o di stabile, tanto meno di immutabile, ma di un continuo processo di “antropo-poiesi” (per usare un’espressione utilizzata e forse anche enfatizzata in antropologia culturale). Ogni cultura non sarebbe un fenomeno identitario in senso assoluto, ma solo in senso fluido, non sostanzializzabile, nel quale si può parlare soltanto di costruzioni multiple e in qualche modo incommensurabili, se non per il fatto che sono tutte produzioni culturali, e in definitiva delle finzioni, che non devono essere mai intese illusoriamente come realtà originarie o segni di una eccedenza del reale rispetto al soggetto, ma come l’attestazione della nostra unica natura, cioè la cultura come auto-produzione di sé. L’illusione che qui si tratti di un dato ontologico con una sua verità che non è a nostra disposizione, deve in qualche modo rovesciarsi nella considerazione di ogni dato ontologico come illusione. Leggiamo in un recente saggio di antropologia culturale: «La prima consapevolezza è: noi sappiamo che non possiamo sottrarci al compito antropo-poietico; non possiamo delegare ad altri la responsabilità di fabbricare modelli di umanità e provare a realizzarli tra noi. La seconda consapevolezza è: noi sappiamo che i nostri modelli di umanità sono una delle possibilità tra tante (noi siamo fatti così, ma potremmo essere diversamente). La terza consapevolezza è: sappiamo anche che quello che facciamo non è altro che una ‘finzione’, una ‘finzione di umanità’. […] Diventare uomini significa capire l’importanza della finzione e, nello stesso tempo, svelarla: significa dunque acquisire la terza consapevolezza come elemento indispensabile per la propria umanità e per il buon funzionamento della società» (F. Remotti, Contro natura. Una lettera al Papa, Laterza, Roma-Bari 2008, pp. 211-212).
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