di Pietrangelo Buttafuoco
È un libro che si legge con il cuore in gola. I vinti non dimenticano(Rizzoli, 462 pagine, 19,50 euro) è il titolo del nuovo volume di Giampaolo Pansa. Ci si fa largo tra i morti, ogni pagina è una fossa e ci sono perfino preti che negano la benedizione ai condannati. E poi ci sono le donne, tante, tutte ridotte a carne su cui sbattere il macabro pedaggio dell’odio. È un viaggio nella memoria negata, quella della guerra civile, altrimenti celebrata nella retorica della Resistenza su cui Pansa, ecco, torna sopra per affidare al lettore una domanda: «Si può essere antifascisti, ossia per la libertà da tutti i regimi autoritari, ed essere insieme comunisti, ossia tifosi di un regime totalitario? Ecco una grande contraddizione che, dopo 65 anni, la retorica della Resistenza non è più in grado di nascondere».
Ancora una volta, Pansa. La magnifica quercia del giornalismo italiano. Ieri al fianco di Eugenio Scalfari, oggi firma di Libero e del Riformista. Scherza, Pansa: «Non sarebbe male se davvero venisse Enrico Cisnetto a metterci soldi nel Riformista. Sempre meglio dei rubli di Antonio Macalusoe Gianni Cervetti». Pansa dunque, la bestia nera per tutti i conformisti. Eccolo, classe 1935: «Gli storici, specie quelli rossi, non mi possono soffrire. Non gradiscono l’invasione di campo. Io sono il bambino che ha gridato: il re è nudo. Nuda è la verità ufficiale. Non ha tutte quelle braghe di gloria».
I rossi, certo, contestano. Ma i liberali? Paolo Mieli, per esempio, giornalista ma soprattutto storico, cosa pensa del suo lavoro?
Mieli è troppo intelligente per dire: Pansa non dovrebbe scrivere i suoi libri. Ma forse neppure lo pensa. E da presidente della Rizzoli sarà pur contento che pubblico per lui libri di così largo successo.
Comunisti a parte, spariti dal Parlamento, questo è un libro che non può certo piacere al presidente della Repubblica.
Ma io sono molto affezionato e grato a Giorgio Napolitano.
Non può piacere «costituzionalmente», questo libro. A prescindere dai comunisti, infatti, «I vinti non dimenticano» sfascia la ragione sociale della Repubblica democratica, nata nella Resistenza.
Da questo punto di vista sì, altro che. Questo libro l’ho scritto per rimediare, come potevo, a un’ingiustizia: l’esclusione dalla storia italiana di tante migliaia di fascisti che avevano aderito alla Repubblica sociale. Per la cultura dominante, quella comunista, non dovevano ricordare, parlare, esistere. Ma la mia colpa più grande, insieme a quella di avere dato voce ai fascisti, è un’altra.
Quale?
Avere posto il problema del Pci e del suo obiettivo nella guerra civile: fare dell’Italia un paese satellite dell’Unione Sovietica. Una verità storica che non può essere contestata, ma sempre inaccettabile per la retorica sulla Resistenza, dipinta come un movimento unitario che mirava al ripristino della democrazia parlamentare. Anche nella sinistra che si dichiara riformista questa verità, semplice e banale, è ancora un tabù. Chi osa affermarla è un falsario, un fascista, un eversore, un nemico.
E Napolitano?
A Napolitano sono grato per una dichiarazione che fece in mia difesa nel 2006 dopo che a Reggio Emilia, alla presentazione della Grande Bugia alcuni presunti democratici guidati da un funzionario di Rifondazione comunista si materializzarono all’hotel Astoria per issare un lenzuolo color del sangue con sopra scritto: «Triangolo rosso, nessun rimorso». I giovanotti vennero sconfitti dal pubblico e dopo la nota del Quirinale ebbi la solidarietà anche di tre big del centrosinistra, ovvero Romano Prodi, Piero Fassino e Walter Veltroni.
A proposito di Prodi: nel libro c’è il racconto di un fratello in camicia nera.
Il capitolo su Giovanni Prodi, militare della Rsi e poi finito nel campo di concentramento di Coltano, forse scandalizzerà qualcuno. Ma l’ho scritto con uno scopo: narrare il percorso fatto da decine di migliaia di ragazzi italiani, una parte dei quali nel dopoguerra ha preso una strada diversa da quella del fascismo.
Questa volta sarà più dura. Il libro è ancora più scandaloso. Chissà che cosa succederà alle presentazioni.
Presentare questo libro in incontri pubblici? Non so se lo farò. Questa è l’epoca delle aggressioni, anche a colpi di fumogeni.
Tanti altri figli di magistrati sono pronti alla vigilanza democratica.
Ho capito meglio la sinistra di oggi studiando quella di ieri. Le tante sinistre odierne sembrano al tappeto, sul punto di sparire. Ma non hanno perso l’arroganza dei vincitori del 1945. Me ne sono reso conto, anche sul piano personale. Dopo l’uscita del Sangue dei vinti, nell’autunno 2003, mi hanno accusato di tutte le nefandezze possibili, la prima quella di avere scritto il falso per ingraziarmi Silvio Berlusconi.
Figurarsi. Berlusconi è il primo a indossare il fazzolettone da partigiano. Però la domanda è obbligata: nel berlusconismo c’è una replica del fascismo?
Ma dai… Ma non scherziamo! Sono incomparabili. La prima fu un’epopea di popolo, anche tragica. Quella di Berlusconi è una stagione: ma ha sbagliato e sbaglia ancora, peraltro innescando reazioni più a destra che a sinistra.
Che cosa è successo a Pansa che, da un decennio a questa parte, ha improvvisamente convertito l’editoria al revisionismo?
Niente di improvviso, anzi. Mi occupo della guerra civile da sempre. Ho scritto la mia tesi di laurea sullo stesso argomento. Ho voluto completare il ciclo iniziato con Il sangue dei vinti. Dopo solo due mesi dall’uscita, infatti, mi erano arrivate all’Espresso, dove lavoravo, più di 2 mila lettere, il 90 per cento delle quali scritte da donne. E in tutte quelle pagine tra le righe sofferte e anche sgrammaticate, tornava sempre lo stesso tema: «Caro dottor Pansa, ho letto il suo libro, ma non ho trovato la mia storia. Adesso gliela racconto». Ecco, qui ci sono le storie che non avevo scritto in quel libro e nei libri successivi. E quindi Toscana, Venezia Giulia, Trieste, Gorizia e Fiume. Poi Piemonte, Emilia e Liguria. Senza dimenticare quanto è costata la guerra sul versante degli Alleati: le vittime dei bombardamenti angloamericani, più numerose di quelle delle rappresaglie tedesche, e gli stupri compiuti dai marocchini in provincia di Siena, anche sui maschi.
Le bombe degli alleati? Un tabù, ancora più del portone chiuso del 25 aprile. A Milano la gente pensa che Gorla sia una fermata della metropolitana: il 20 ottobre 1944 gli americani bombardarono la scuola elementare nel quartiere di Gorla, 703 morti, di cui 200 bambini. Chissà gli anatemi…
Alzo le spalle di fronte a tutti gli anatemi. Vado per la mia strada e sorrido di fronte al fatto che la sinistra non mi ha più invitato a nessuno dei suoi dibattiti e mi ha escluso persino da quella parte di tv pubblica che ancora oggi controlla.
Niente Fabio Fazio?
Niente Raitre. La verità è che la sinistra e la tv rossa non sono più decisive per il successo di un libro. Sino a oggi Il sangue dei vinti ha venduto quasi 1 milione di copie. E anche i libri successivi hanno avuto tantissimi lettori, una montagna.
I libri si vendono. E fanno scandalo. L’eredità della Resistenza nel dna del terrorismo. Proprio non potrà piacere all’Italia ufficiale questo libro.
Sì. Assolutamente. Le Br si dichiaravano esplicitamente eredi della Resistenza. E in questo libro ci sono anche i temi che la retorica resistenziale ha sempre considerato inesistenti: la ferocia messa in mostra da entrambe le parti che si combattevano, quella partigiana e quella fascista. A Bogli, nel Piacentino, c’era un lager destinato a prigionieri fascisti che lì venivano torturati e uccisi. E poi il connotato di fondo della nostra guerra partigiana: il terrorismo politico volto all’eliminazione di migliaia di fascisti, quasi sempre civili che non erano in grado di difendersi. Nel mio libro azzardo un giudizio: la guerra per bande è sempre stata secondaria rispetto alla tattica del terrorismo diffuso. Identico a quello delle Br, ma su una scala enormemente più vasta.
La storia nega dignità alla memoria.
C’è ancora un altro tema proibito: l’eliminazione degli antifascisti che non accettavano la supremazia del Pci.
Un caso?
Nel libro racconto quello di Franco Anselmi, il pioniere della guerra partigiana sull’Appennino alessandrino, quello della morte misteriosa del socialista Giuseppe Bentivogli, ucciso nelle ore della liberazione di Bologna, e del democristiano Giuseppe Fanin, assassinato nel novembre 1948, quando la guerra civile era finita da più di tre anni.
La storia, quella in cattedra, sottrae verità alla memoria. Per fortuna ci sono i curiosi.
Sì, sono un curioso. E mi piace ascoltare.