DISCERNERE

Uno sguardo profetico sugli eventi

La bellezza di esser vivi. Così l’autobiografia di Gilbert K. Chesterton racconta del suo incrollabile amore per la realtà

di Roberto Persico
Tratto da Il Foglio del 2 ottobre 2010

Inchinandomi con la mia cieca credulità di sempre di fronte alla mera autorità e alla tradizione dei padri, bevendomi superstiziosamente una storia che all’epoca non fui in grado di verificare di persona, sono fermamente convinto di essere nato il 29 maggio del 1874 a Campden Hill, Kensington; e di essere stato battezzato secondo il rito anglicano nella piccola chiesa di Saint George, che si trova di fronte alla torre dell’acquedotto, immensa a dominare quell’altura. La mia nascita è un caso fortuito, che accetto come un povero contadino ignorante, solo perché mi è stato trasmesso dalla tradizione orale, basandomi solo sul sentito dire. Certo, quella che molti definiscono ‘prova per sentito dire’ o anche solo prova umana, può essere contestata come molte questioni del criticismo storico. La storia della mia nascita potrebbe non essere vera. Io potrei essere un erede ignoto del Sacro Romano Impero oppure un neonato abbandonato davanti a un portone di Kensington da un malvivente di Limehouse, e poi destinato a rivelare una torbida tendenza al crimine nel corso della vita futura. Per la mia nascita, ci si potrebbe avvalere dei metodi dello scetticismo applicati al problema dell’origine del mondo e uno studioso serio e compassato potrebbe concludere che non sono nato affatto. Ma preferisco credere che il senso comune sia qualcosa che spartisco con i lettori, che daranno prova di pazienza di fronte a un’insipida cronaca di semplici fatti”. Così si apre l’“Autobiografia” che Gilbert Keith Chesterton scrisse negli ultimi tempi della sua vita, uscì postuma nel 1936 e viene ripubblicata oggi per i tipi di Lindau dopo quasi quarant’anni di assenza dai cataloghi italiani.

In questo incipit c’è già tutto l’autore: il polemista di rango che si diverte infinitamente a farsi beffe delle ideologie alla moda, brandendo le armi dell’ironia, del paradosso e del buon senso. Perché, per semplicistiche che possano parere, queste righe contengono un’intera lezione di filosofia della conoscenza: la difesa del senso comune contro le pretese della coppia scientismo/nichilismo, che affoga nel nulla tutto ciò che non è scientificamente provabile, cioè in pratica tutto quel che davvero interessa la vita. A ben guardare, non è che la riproposizione in toni chestertoniani di quel che pochi decenni prima aveva più dottamente affermato nella “Grammatica dell’assenso” il cardinal Henry Newman, la radice della rinascita del cattolicesimo in Inghilterra, proclamato beato nel corso del viaggio di Benedetto XVI in Inghilterra: “Ciascuno di noi è certo, senza il minimo sospetto d’errore, di non essere l’unico individuo al mondo; che v’è un mondo esterno; che è un universo regolato da leggi; che il passato influisce sul futuro. Rifiutiamo con scherno l’idea che noi siamo nati senza genitori, benché non ricordiamo nulla del giorno della nostra nascita, o che non moriremo mai, benché ci manchi la minima esperienza del futuro. Tali verità sono in nostro pieno, sicuro dominio; non ci sentiamo colpevoli di non amare la verità per la verità solo perché queste verità non le possiamo raggiungere mediante una serie di proposizioni d’intuitiva evidenza. Se la nostra natura ha delle leggi costitutive, una di tali leggi è certamente la necessità di accogliere come vere certe proposizioni situate fuori della cerchia angusta delle conclusioni in cui si imbriglia la logica formale”. Ecco, da un certo punto di vista tutta l’esistenza e l’opera di Chesterton sono state un’unica, grande battaglia per riaffermare le evidenze che stanno alla base della vita di ciascuno, contro tutti gli “ismi” che si sforzano di respingerle: “Tutto sarà negato. Tutto diventerà un credo. E’ una posizione ragionevole negare le pietre della strada; diventerà un dogma religioso riaffermarle. E’ una tesi razionale quella che ci vuole tutti immersi in un sogno; sarà una forma assennata di misticismo asserire che siamo tutti svegli. Fuochi verranno attizzati per testimoniare che due più due fa quattro. Spade saranno sguainate per dimostrare che le foglie sono verdi in estate. Noi ci ritroveremo a difendere, non solo le incredibili virtù e l’incredibile sensatezza della vita umana, ma qualcosa di ancora più incredibile, questo immenso, impossibile universo che ci fissa in volto. Combatteremo per i prodigi visibili come se fossero invisibili. Guarderemo l’erba e i cieli impossibili con uno strano coraggio. Noi saremo tra quanti hanno visto eppure hanno creduto”.

Ma andiamo con ordine. Battezzato secondo il rito anglicano, Chesterton cresce in un ambiente il cui presupposto culturale “non era semplice ateismo, ma ortodossia atea e perfino rispettabilità atea”, un ateismo incline al pessimismo – “non credeva nell’uomo più di quanto non credesse in Dio” – nel quale le filosofie in voga si mescolavano allegramente senza curarsi delle contraddizioni: “Uomini che credevano appassionatamente nell’altruismo erano sviati dalla necessità di credere nel darwinismo e di far proprie le conclusioni del darwinismo su una lotta spietata come regola di vita. Uomini che, con naturalezza, accettavano l’uguaglianza morale del genere umano, lo facevano, in un certo senso, facendosi piccini sotto l’ombra colossale del Superuomo di Nietzsche e di Shaw. I loro cuori erano al posto giusto, ma le loro menti erano completamente fuori posto”. In questo clima, Chesterton frequenta a modo suo le scuole, di cui ricorda “quel che mi fu insegnato, senza che mai imparassi niente, e quello che imparai, senza che nessuno me lo insegnasse”. La sua vera vocazione, fin dalle aule, è il dibattito, la controversia: è tra i fondatori di uno “Junior Debate Club” e di un giornalino scolastico, su cui la sua vis polemica fa le prime prove: “Ho potuto esser giornalista – scriverà – perché non ho potuto fare a meno d’esser polemico”. Figlio del suo tempo, all’inizio ne assorbe fino in fondo lo scetticismo cartesian-nietszchiano: “A quell’epoca, non distinguevo chiaramente il sogno dalla veglia: non era soltanto uno stato d’animo, ma un dubbio metafisico, che mi faceva sentire come se tutto fosse un sogno. Era come se avessi io stesso proiettato l’universo dall’interno, con suoi alberi e le sue stelle. E si arriva così vicino alla nozione di essere Dio che, in tutta evidenza, ci si avvicina ancora di più alla follia”. Ma arrivato al fondo di un io che si sogna signore d’una realtà evanescente, ecco la conversione, la vera conversione della sua vita, di cui quella alla chiesa di Roma, più di vent’anni dopo, non sarà che l’estrema conseguenza: “Dopo aver indugiato nelle profondità più oscure del pessimismo contemporaneo, ebbi un forte impulso interiore a ribellarmi, a rifiutare l’angoscia e a cacciar via gli incubi. Ma poiché rimuginavo il tutto completamente da solo, con poco aiuto dalla filosofia, e scarsissimo contributo della religione, mi inventai una teoria mistica rudimentale e improvvisata. In linea di massima, consisteva in quanto segue: che perfino la mera esistenza, ridotta agli estremi limiti, è talmente straordinaria da essere stimolante. Paragonato al nulla, tutto era meraviglioso”. Da allora e fino all’ultimo respiro, GKC combatterà la sua battaglia per “far capire agli uomini il miracolo, la bellezza di esser vivi”.

In mezzo amicizie, dolori, polemiche. La più grande di tutte le amicizie, quella con Hilaire Belloc, compagno di mille bevute e di mille canzoni e di mille battaglie, a cui è dedicato un capitolo intero: un rapporto così sostanziale che George Bernard Shaw ribattezzerà il duo il “Chesterbelloc”. Il dolore più acuto, la morte dell’amatissimo fratello Cecil, ucciso nelle trincee della Prima guerra mondiale. Soprattutto, infinite diatribe, con letterati e politici di ogni schieramento, sui due giornali che dirige, su ogni foglio che lo ospita, in cento e cento di quei dibattiti pubblici che erano la sua passione. La prima, la disputa sulla guerra boera, che sul finire del secolo infiammò l’animo degli inglesi, dove fu tra i pochissimi difensori della Repubblica sudafricana, non per pacifismo, come la maggior parte dei pochi altri che militavano dalla stessa parte (“né allora né mai ebbi qualche simpatia per quel che veniva definito pacifismo: ero enfaticamente filo-boero e con la stessa enfasi non ero pacifista”), ma per amore del diritto di ciascuno a decidere del destino della propria terra: “Mi soddisfa pensare che il primo dovere di un patriota inglese sia solidarizzare con il patriottismo appassionato dell’Irlanda”. La più celebre, la sfida ventennale col citato Shaw, combattuta in infiniti duelli vis-àvis e sulla carta, che mai arrivano a scalfire la reciproca stima: “La mia esperienza con Shaw è costituita per lo più da discussioni, dall’inizio alla fine. E’ interessante che, dalla discussione, io abbia maturato per lui affetto e ammirazione, più di quanto comunemente la gente ottenga con l’accordo. Bernard Shaw mostra il suo volto migliore quando si presenta come antagonista. Aggiungerei che è al suo meglio addirittura quando ha torto, e ha quasi sempre torto. O piuttosto, in lui tutto è sbagliato fuorché lui stesso”.

Sullo sfondo di tutte, la lotta per riaffermare la verità del cattolicesimo, riscoperto poco a poco alla radice dell’amore per la realtà: “Io non avevo cominciato a credere in cose sovrannaturali; erano i non credenti che avevano finito per non credere neppure a normalissime cose. Furono i laici a trascinarmi nell’etica teologica, distruggendo ogni sana e razionale possibilità di etica secolare. Furono i deterministi a tuonare che io non ero responsabile affatto e, poiché io desidero essere considerato responsabile e non un pazzo in libera uscita dal manicomio per un giorno, cominciai a guardarmi intorno in cerca di un asilo spirituale”. Così “cominciai a mettere insieme, pezzo per pezzo, i frammenti del vecchio credo religioso”, fino a scoprire che “la dottrina teologica antica si adattava per lo più all’esperienza, mentre le teorie nuove e negative non s’adattavano a nulla, neppure le une alle altre. Mi ero accorto che, in quel fascio confuso di eresie inconsistenti e incompatibili, l’unica eresia forte, imperdonabile, era quella ortodossa”. Fino a scriverne, in un’altra opera, pure da poco ristampata da Lindau, “La Chiesa Cattolica”: “La Chiesa Cattolica è l’unica cosa in grado di salvare l’uomo da una schiavitù degradante, quella di essere figlio del suo tempo. Le Religioni Nuove sono adatte al nuovo mondo, e questo è il loro difetto peggiore. Non abbiamo bisogno di una religione che sia nel giusto quando anche noi siamo nel giusto. Quello che ci occorre è una religione che sia nel giusto quando noi abbiamo torto. Era una cosa ben diversa quando si predicava la carità a pagani che in realtà non ci credevano, ed è altrettanto diversa adesso che la castità viene predicata a nuovi pagani che non ci credono. In questi casi si scopre la vera presa della religione; e sempre in questi casi emerge il trionfo singolare e solitario della fede cattolica. Non tanto perché ha ragione quando abbiamo ragione, quanto perché è lieta e piena di speranza e umana. Perché aveva ragione quando sbagliavamo, e perché questo fatto ci torna addosso come un boomerang”. Quel che ancora oggi non perdonano al Papa.