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DISCERNERE
Uno sguardo profetico sugli eventi
3 DICEMBRE 2015
Chesterton e la libertà donata da Dio
Un commento della scrittrice britannica Dorothy L. Sayers (1893-1957) riportato all'inizio del testo ricorda come per i giovani della sua generazione Chesterton sia stato “una specie di liberatore cristiano”: “come una bomba benefica esplosa in un’epoca misera, ha frantumato molte vetrate della Chiesa per far entrare folate di aria fresca, nei cui vortici le foglie morte della dottrina si sono messe a danzare con tutta l’energia indecorosa dell’Acrobata di Nostra Signora”.
“Senza dubbio la Chiesa era, nelle sue fondamenta, gloriosa e immutabile come sempre, ma all’inizio del secolo si presentava in modo, come dire, infelice quanto a sembianze esterne e dava l’impressione all’uomo della strada che non ci fosse molta scelta, se non tra una compiaciuta moralità protestante e una pietà cattolica piuttosto affettata”, osserva la Sayers. “E dal momento che molte persone astute erano alacremente indaffarate a minare le fondamenta sia della pietà che della moralità, i cristiani venivano comunemente considerati alla stregua di tarli, che masticando al buio si scavavano gallerie dentro travi marce e destinate a crollare insieme all’intero edificio”.
Fu quindi “stimolante sentirsi dire che il cristianesimo non era una cosa noiosa ma gioiosa, che non era qualcosa di retrogrado ma di avventuroso, che non era ottuso ma anzi saggio e addirittura sagace”; “ciò che fu soprattutto rinvigorente era vedere il polemista cristiano impugnare armi offensive anziché difensive”.
Nella postfazione, Annalisa Teggi, autrice della traduzione del testo, sottolinea che “La sorpresa” che Chesterton ci consegna tra le mani è “il sorprendente atto d’amore che sta all’origine della Creazione e che sussiste tutto nel paradosso della lontananza: per amare qualcosa, devo vederla nella sua interezza e quindi allontanarla da me. Meno possiedo una persona, più la amo”.
Lo capisce anche un semplice burattinaio, come l’Autore protagonista dell'opera dello scrittore inglese, che “conosce intimamente tutti i pupazzi che ha costruito, eppure questa specie di conoscenza non gli basta, li vuole vedere 'essere' al di fuori del racconto che ha creato per loro”.
Per la Teggi, “il perfetto alter ego di questa commedia”, cioè il libro che sarebbe bello leggere insieme a quest’opera teatrale, è ilFrankenstein di Mary Shelley, “il testo che più di ogni altro esplora un’idea di Creazione come atto volitivo ed egoistico”. Il dottor Victor Frankenstein, a differenza del burattinaio-Autore di Sorpresa, desidera infondere la vita a una creatura umana per uno scopo molto chiaro e tutt’altro che generoso, ovvero essere venerato come suo creatore e sorgente di vita.
“Sarebbe possibile attribuire questo medesimo pensiero a una divinità creatrice – suggerisce la Teggi –: Dio creò l’uomo per essere amato e riverito da una specie mortale che doveva a Lui la sua esistenza. Plausibile; eppure quest’ipotesi si riduce a un progetto meschino e infinitamente meno esaltante se paragonato a quel che, invece, scintilla nel desiderio del burattinaio-Autore di Chesterton”, che afferma: “Questa gente merita di essere viva; essi sono tutto, tranne che vivi. Sono intelligenti, complicati, combattivi, brillanti; traboccano di vita eppure non sono vivi”.
“Dio ha preferito trattarci da gentiluomini, piuttosto che da marionette. Un uomo deve avere l’opportunità di dimostrare che è un gentiluomo, deve poter dar prova di essere quello che in piena coscienza e deliberato consenso sceglie o tradisce una proposta di matrimonio, cioè di legame con il mondo e con chi l’ha fatto”.
Merito di Chesterton ne “La Sorpresa” è aver utilizzato l'espediente del deus ex machina della tragedia classica, la divinità che entrava in scena quando l’intreccio della trama degenerava in modo irrisolvibile e la cui presenza metteva a posto le cose, “per farci la sorpresa finale: quello di porgere al lettore in modo eclatante e allo stesso tempo ragionevolissimo il bisogno dell’Incarnazione. Il Dio cristiano non si è calato sulla scena umana per mettere fine alla storia, bensì innanzitutto per essere compagno degli uomini. Si è fatto Uomo tra gli uomini, che è molto più complicato che essere un Dio tra gli uomini”.
“Se della religione cristiana si può dire che è una outdoor education(un cammino educativo nell’aria fresca, libera e drammatica della realtà per ritornare alla casa del Padre da gentiluomini liberi e non da schiavi mansueti); se di conseguenza si può dire, in nome della sacralità della libertà, che gli uomini sono tutti fuori, allora del Dio cristiano si può dire che sia il più fuori di tutti – conclude la Teggi –. Perché, nella sua infinita libertà, ha scelto di buttarsi dentro l’orizzonte incasinato del mondo reale”.
Marco Sermarini, presidente della Società Chestertoniana Italiana, osserva nella prefazione del volume: “è abbastanza miope e ingeneroso il giudizio non lusinghiero (diffuso e ripetuto spesso come un mantra e senza cognizione di causa) che qualcuno ha dato del Chesterton autore teatrale”, visto che lo scrittore “è così profondo nell’esporre idee, inventare personaggi e trame, trasmettere messaggi buoni”.
Sermarini commenta anche gli altri scritti presenti nel libro, ritenendoli “un odoroso mazzetto di fiori colto nel grande prato” degli ultratrentennali interventi di Chesterton sull’Illustrated London News, nella cui rubrica Our Note-Book scriveva articoli da duemila parole che avrebbero dovuto prendere “la forma di una discussione leggera su argomenti del momento… da trattare senza faziosità politiche”.
Qualcuno ha definito la rubrica “il pulpito di Chesterton” e da lì egli disse, con grande efficacia, ciò che volle e gli piacque. L'Illustrated London News è anche il luogo in cui più di tutti compare la visione sacramentale delle cose che è uno degli aspetti più peculiari del pensiero di Chesterton.
“Mentre dettava questi articoli alle segretarie tirava di scherma con la spada o con un coltello contro i cuscini. Si racconta che una volta, mentre dettava l’articolo, tirò una freccia col suo arco fuori della finestra e sfiorò un cane, più sorpreso che colpito da questa… botta di vita. Pensate a questo ripetuto e agitato ménage mentre leggete questi saggi e darete ad essi un sapore indimenticabile”, osserva Sermarini.
Il libro può essere acquistato solo ordinandolo presso il Centro Missionario Francescano attraverso l'e-mail laperlapreziosa@libero.it
Chesterton: Il fondamento della libertà è in Dio. Quella profezia sui banchieri di Wall Street
CHESTERTON LEGGE PROFETICAMENTE LA REALTÀ
Dopo anni di oblio, Chesterton sembra tornato di moda: lo si ripubblica, si offrono (finalmente) al pubblico italiano diversi inediti, e se ne parla in incontri e convegni. Se ne mette in evidenza – e giustamente – lo spirito apologetico del cristianesimo, ma c'è anche un altro fondamentale aspetto da sottolineare del grande giornalista e scrittore inglese: la sua capacità di leggere profeticamente la realtà. Già negli anni 30 scriveva e discuteva di eugenetica, ma non solo: vide in anticipo tutti i guasti che avrebbero prodotto i sistemi politici che a vario titolo soffocavano le libertà autentiche, in particolare giudicando con straordinaria preveggenza i guai di un moderno "stato servile" dove l'uomo è espropriato della sovranità personale, della possibilità di disporre del proprio lavoro, del proprio tempo, persino dei propri talenti.
PRENDERE SUL SERIO LA REALTÀ NELLA SUA INTEGRITÀ
Chesterton scrisse in una lettera alla fidanzata, agli inizi del proprio impegno giornalistico: "È facile, a volte, donare il proprio sangue alla patria, e ancora più facile donarle del denaro. Talvolta è più difficile donarle la verità". Urgeva in lui il desiderio appassionato di salvaguardare le coscienze e il pensiero dei suoi connazionali dai veleni della propaganda di parte, con tutte le sue falsità e menzogne.
L'intento di Chesterton era quello di prendere sul serio la realtà nella sua integrità, a cominciare dalla realtà interiore dell'uomo, e di adoperare fiduciosamente l'intelletto – ovvero il buon senso – nella sua originale sanità, purificato da ogni incrostazione ideologica.
USO SAPIENTE DEL PARADOSSO
Di fronte ai mali della Modernità, e, al loro progressivo affermarsi, Chesterton non rispose con pessimismo recriminante, ma con la lieta ribellione del cristiano.
Con l'uso sapiente del paradosso, Chesterton non si limita a far sorridere il lettore. Gli svela che il mondo lasciato a se stesso diventa sempre peggiore. La conseguenza più deleteria della scristianizzazione non è stato il pur gravissimo smarrimento etico, ma lo smarrimento della ragione. Il mondo che rifiuta Dio, che gli volta le spalle, che vuole fare a meno di Lui, impazzisce. Il rapporto individuo-società, libertà personale-ordinamento civile, ovvero persona-stato, è uno dei nodi cruciali della modernità. Uno dei modi più originali di affrontarlo è stato rappresentato dal movimento inglese del Distributismo, cui novant'anni fa Chesterton diede vita insieme agli amici Hilaire Belloc, scrittore, giornalista e parlamentare, e Vincent MacNabb, frate domenicano irlandese.
IL DISTRIBUTISMO, OVVERO UN'ALTERNATIVA AL CAPITALISMO E AL SOCIALISMO
Un problema mai risolto, si potrebbe obiettare, quello della "terza via" tra liberismo capitalista e socialismo collettivista, e forse superato dai tempi. In realtà quanto avviene oggi, i segnali di sostanziale fallimento della globalizzazione, ci invitano a riprendere seriamente in considerazione la questione, e una riscoperta del pensiero di Chesterton è quanto mai attuale.
Chesterton e i suoi amici distributisti avevano identificato nello "Stato servile", capitalista o marxista è indifferente, l'asservimento dell'uomo allo Stato o al proprietario, e alle loro pretese.
Al contrario, secondo il Distributismo, le persone dovrebbero essere messe in grado di guadagnarsi da vivere senza dover contare sull'uso della proprietà altrui. Esempi di persone che si guadagnano da vivere in questo modo sono gli agricoltori che possiedono la loro terra e le relative macchine (oppure in consorzio con altri agricoltori); gli artigiani che possiedono i loro strumenti, e che attraverso essi possono sviluppare il loro talento e la loro creatività. Il Distributismo prevedeva inoltre un approccio corporativo, o cooperativo, che prevedeva la co-proprietà di comunità locali più grandi di una famiglia, ad esempio, partner in un business oppure in un consorzio, pur sempre permanendo in una forma di indipendenza aziendale.
Il Distributismo, inoltre, prevedeva l'eliminazione, o una profonda rielaborazione, del sistema bancario, con un ruolo molto diverso dei governi in campo economico, ad esempio tramite accordi fiscali con tali piccole (se non piccolissime) imprese, finalizzati all'incentivazione della fiducia delle banche nei confronti dei creditori fruitori del credito sociale e dello sviluppo della fiscalità monetaria.
IL FONDAMENTO DELLA LIBERTÀ STA IN DIO
Utopie? In realtà Chesterton non fa che richiamarsi esplicitamente a quei principi di dottrina sociale cattolica che affondano le proprie radici nell'esperienza benedettina (Ora et labora) ed espressi modernamente in diverse encicliche papali.
Chesterton e i distribuisti ritenevano che ogni autorità, nella famiglia, nel negozio, nell'azienda, nella regione, nello stato non esiste mai, in nessun caso, a beneficio di coloro che la posseggono e ne fanno uso. Nessun padrone ha il diritto di sfruttare un solo uomo. Eppure ogni epoca, nota Chesterton, ha cercato di produrre una sua versione della tirannide e dello schiavismo. Il governo deve governare, ma mai divenire un tiranno; i governati devono obbedire, ma non devono mai adattarsi a divenire schiavi.
Il fondamento della libertà - a differenza di quanto recitano le diverse ideologie da duecento anni - sta in Dio. Dimenticare che Dio è l'unica fonte di autorità è un cominciare ad offrire a Cesare quel che è di Dio, venerare la Bestia dell'Apocalisse e adorare ciò che desidera primeggiare.
Il vero dramma della modernità, pertanto, sta nella scelta tra Dio e gli idoli, tra la civiltà cristiana e il nuovo paganesimo che adora potere, denaro e lussuria.
Torna la «processione» di Chesterton. In un racconto del 1924 l’autore «vede» il corteo di chi ha portato la fede a Londra
di Fulvio Panzeri
Tratto da Avvenire del 7 ottobre 2010
È senz’altro Chesterton lo scrittore straniero che ha interessato di più il mercato editoriale i taliano in questo 2010. Ora arriva il testo più curioso e sorprendente dello scrit to È re inglese, un racconto lungo, pochissimo conosciuto. Merita quindi di essere let ta questa meravigliosa «vi sione» che lo scrittore rac conta di aver avuto durante una passeggiata nella cam pagna inglese, un «pellegrinaggio» immaginario che riassume in sé metaforica mente la tesi storica molto cara a Chesterton: quella delle radici cristiane del l’Inghilterra e dell’Europa, tema al centro anche di u na conferenza che lo scrit tore inglese tenne a Firenze nel 1935 e di cui Raffaelli ha pubblicato il testo lo scorso anno (La letteratura inglese e la tradizione lati na, a cura di Marco Anto nellini).
Ora è di nuovo Raf faelli a mandare in libreria il racconto La fine della strada romana (pp. 74, eu ro 15), sempre a cura di An tonellini, parte di una serie di scritti cui Chesterton si era dedicato dopo una ma lattia che lo aveva portato in punto di morte. Il ritor no alla letteratura è con trassegnato da un forte de siderio di ricerca storica, tanto che tra il 1914 e il 1917 escono vari testi dedi cati all’argomento, tra i quali il più conosciuto è la Breve storia dell’Inghilterra.
Il racconto viene scritto nel 1919 e pubblicato in volu me nel 1924, vale a dire due anni dopo il passaggio al cattolicesimo. Antonellini sottolinea che non è un ca so, visto la difesa strenua nel racconto della tradizio ne della cristianità e di quanto la visione rilegga e istituisca quella che il sottotitolo chiama «una pro cessione di pellegrini», ov vero di chi ha testimoniato la possibilità di un’Europa cristiana, compresa l’In ghilterra che fin allora si e ra chiamata fuori, visti gli influssi della tradizione prussiana. Ora l’esito della prima guerra mondiale rappresenta per Chester ton un’apertura per un ri torno a quelle tradizioni di menticate. Non a caso nel la «processione» gli ultimi sono i martiri della Grande Guerra, i quali riaprono quella strada interrotta ver so Londra che fa da scena rio alla visione. Per Anto nellini «il loro sacrificio non solo ha impedito al l’Inghilterra di essere nuo vamente separata dalla la tinità e all’Europa di essere spazzata via, ma ha real mente riaperto la strada al la possibilità di un destino di unità. Lo scrittore non è infatti preoccupato di que stioni territoriali, ma della minaccia di un’unità sanci ta nel cielo e manifestatasi in eventi storicamente documentabili». Così nella processione troviamo i sol dati romani, i paladini di Carlo Magno, i crociati, i francescani, l’esercito delle arti e dei mestieri, cioè quei cristiani europei che nel corso della storia si sono recati verso Londra con u na missione: testimoniare la cultura cristiana. Stupi sce la modernità di Che sterton nel tradurre la complessità di un’analisi storica in una forma che u nisce nella visione la ten sione teologica e il senso dell’epica, in una situazio ne narrativa semplicissima, quella di una passeggiata, evento quotidiano che si schiude a rivelazione di u na lezione che gli strumen ti della poesia rendono più potente.
La bellezza di esser vivi. Così l’autobiografia di Gilbert K. Chesterton racconta del suo incrollabile amore per la realtà
di Roberto Persico
Tratto da Il Foglio del 2 ottobre 2010
Inchinandomi con la mia cieca credulità di sempre di fronte alla mera autorità e alla tradizione dei padri, bevendomi superstiziosamente una storia che all’epoca non fui in grado di verificare di persona, sono fermamente convinto di essere nato il 29 maggio del 1874 a Campden Hill, Kensington; e di essere stato battezzato secondo il rito anglicano nella piccola chiesa di Saint George, che si trova di fronte alla torre dell’acquedotto, immensa a dominare quell’altura. La mia nascita è un caso fortuito, che accetto come un povero contadino ignorante, solo perché mi è stato trasmesso dalla tradizione orale, basandomi solo sul sentito dire. Certo, quella che molti definiscono ‘prova per sentito dire’ o anche solo prova umana, può essere contestata come molte questioni del criticismo storico. La storia della mia nascita potrebbe non essere vera. Io potrei essere un erede ignoto del Sacro Romano Impero oppure un neonato abbandonato davanti a un portone di Kensington da un malvivente di Limehouse, e poi destinato a rivelare una torbida tendenza al crimine nel corso della vita futura. Per la mia nascita, ci si potrebbe avvalere dei metodi dello scetticismo applicati al problema dell’origine del mondo e uno studioso serio e compassato potrebbe concludere che non sono nato affatto. Ma preferisco credere che il senso comune sia qualcosa che spartisco con i lettori, che daranno prova di pazienza di fronte a un’insipida cronaca di semplici fatti”. Così si apre l’“Autobiografia” che Gilbert Keith Chesterton scrisse negli ultimi tempi della sua vita, uscì postuma nel 1936 e viene ripubblicata oggi per i tipi di Lindau dopo quasi quarant’anni di assenza dai cataloghi italiani.
In questo incipit c’è già tutto l’autore: il polemista di rango che si diverte infinitamente a farsi beffe delle ideologie alla moda, brandendo le armi dell’ironia, del paradosso e del buon senso. Perché, per semplicistiche che possano parere, queste righe contengono un’intera lezione di filosofia della conoscenza: la difesa del senso comune contro le pretese della coppia scientismo/nichilismo, che affoga nel nulla tutto ciò che non è scientificamente provabile, cioè in pratica tutto quel che davvero interessa la vita. A ben guardare, non è che la riproposizione in toni chestertoniani di quel che pochi decenni prima aveva più dottamente affermato nella “Grammatica dell’assenso” il cardinal Henry Newman, la radice della rinascita del cattolicesimo in Inghilterra, proclamato beato nel corso del viaggio di Benedetto XVI in Inghilterra: “Ciascuno di noi è certo, senza il minimo sospetto d’errore, di non essere l’unico individuo al mondo; che v’è un mondo esterno; che è un universo regolato da leggi; che il passato influisce sul futuro. Rifiutiamo con scherno l’idea che noi siamo nati senza genitori, benché non ricordiamo nulla del giorno della nostra nascita, o che non moriremo mai, benché ci manchi la minima esperienza del futuro. Tali verità sono in nostro pieno, sicuro dominio; non ci sentiamo colpevoli di non amare la verità per la verità solo perché queste verità non le possiamo raggiungere mediante una serie di proposizioni d’intuitiva evidenza. Se la nostra natura ha delle leggi costitutive, una di tali leggi è certamente la necessità di accogliere come vere certe proposizioni situate fuori della cerchia angusta delle conclusioni in cui si imbriglia la logica formale”. Ecco, da un certo punto di vista tutta l’esistenza e l’opera di Chesterton sono state un’unica, grande battaglia per riaffermare le evidenze che stanno alla base della vita di ciascuno, contro tutti gli “ismi” che si sforzano di respingerle: “Tutto sarà negato. Tutto diventerà un credo. E’ una posizione ragionevole negare le pietre della strada; diventerà un dogma religioso riaffermarle. E’ una tesi razionale quella che ci vuole tutti immersi in un sogno; sarà una forma assennata di misticismo asserire che siamo tutti svegli. Fuochi verranno attizzati per testimoniare che due più due fa quattro. Spade saranno sguainate per dimostrare che le foglie sono verdi in estate. Noi ci ritroveremo a difendere, non solo le incredibili virtù e l’incredibile sensatezza della vita umana, ma qualcosa di ancora più incredibile, questo immenso, impossibile universo che ci fissa in volto. Combatteremo per i prodigi visibili come se fossero invisibili. Guarderemo l’erba e i cieli impossibili con uno strano coraggio. Noi saremo tra quanti hanno visto eppure hanno creduto”.
Ma andiamo con ordine. Battezzato secondo il rito anglicano, Chesterton cresce in un ambiente il cui presupposto culturale “non era semplice ateismo, ma ortodossia atea e perfino rispettabilità atea”, un ateismo incline al pessimismo – “non credeva nell’uomo più di quanto non credesse in Dio” – nel quale le filosofie in voga si mescolavano allegramente senza curarsi delle contraddizioni: “Uomini che credevano appassionatamente nell’altruismo erano sviati dalla necessità di credere nel darwinismo e di far proprie le conclusioni del darwinismo su una lotta spietata come regola di vita. Uomini che, con naturalezza, accettavano l’uguaglianza morale del genere umano, lo facevano, in un certo senso, facendosi piccini sotto l’ombra colossale del Superuomo di Nietzsche e di Shaw. I loro cuori erano al posto giusto, ma le loro menti erano completamente fuori posto”. In questo clima, Chesterton frequenta a modo suo le scuole, di cui ricorda “quel che mi fu insegnato, senza che mai imparassi niente, e quello che imparai, senza che nessuno me lo insegnasse”. La sua vera vocazione, fin dalle aule, è il dibattito, la controversia: è tra i fondatori di uno “Junior Debate Club” e di un giornalino scolastico, su cui la sua vis polemica fa le prime prove: “Ho potuto esser giornalista – scriverà – perché non ho potuto fare a meno d’esser polemico”. Figlio del suo tempo, all’inizio ne assorbe fino in fondo lo scetticismo cartesian-nietszchiano: “A quell’epoca, non distinguevo chiaramente il sogno dalla veglia: non era soltanto uno stato d’animo, ma un dubbio metafisico, che mi faceva sentire come se tutto fosse un sogno. Era come se avessi io stesso proiettato l’universo dall’interno, con suoi alberi e le sue stelle. E si arriva così vicino alla nozione di essere Dio che, in tutta evidenza, ci si avvicina ancora di più alla follia”. Ma arrivato al fondo di un io che si sogna signore d’una realtà evanescente, ecco la conversione, la vera conversione della sua vita, di cui quella alla chiesa di Roma, più di vent’anni dopo, non sarà che l’estrema conseguenza: “Dopo aver indugiato nelle profondità più oscure del pessimismo contemporaneo, ebbi un forte impulso interiore a ribellarmi, a rifiutare l’angoscia e a cacciar via gli incubi. Ma poiché rimuginavo il tutto completamente da solo, con poco aiuto dalla filosofia, e scarsissimo contributo della religione, mi inventai una teoria mistica rudimentale e improvvisata. In linea di massima, consisteva in quanto segue: che perfino la mera esistenza, ridotta agli estremi limiti, è talmente straordinaria da essere stimolante. Paragonato al nulla, tutto era meraviglioso”. Da allora e fino all’ultimo respiro, GKC combatterà la sua battaglia per “far capire agli uomini il miracolo, la bellezza di esser vivi”.
In mezzo amicizie, dolori, polemiche. La più grande di tutte le amicizie, quella con Hilaire Belloc, compagno di mille bevute e di mille canzoni e di mille battaglie, a cui è dedicato un capitolo intero: un rapporto così sostanziale che George Bernard Shaw ribattezzerà il duo il “Chesterbelloc”. Il dolore più acuto, la morte dell’amatissimo fratello Cecil, ucciso nelle trincee della Prima guerra mondiale. Soprattutto, infinite diatribe, con letterati e politici di ogni schieramento, sui due giornali che dirige, su ogni foglio che lo ospita, in cento e cento di quei dibattiti pubblici che erano la sua passione. La prima, la disputa sulla guerra boera, che sul finire del secolo infiammò l’animo degli inglesi, dove fu tra i pochissimi difensori della Repubblica sudafricana, non per pacifismo, come la maggior parte dei pochi altri che militavano dalla stessa parte (“né allora né mai ebbi qualche simpatia per quel che veniva definito pacifismo: ero enfaticamente filo-boero e con la stessa enfasi non ero pacifista”), ma per amore del diritto di ciascuno a decidere del destino della propria terra: “Mi soddisfa pensare che il primo dovere di un patriota inglese sia solidarizzare con il patriottismo appassionato dell’Irlanda”. La più celebre, la sfida ventennale col citato Shaw, combattuta in infiniti duelli vis-àvis e sulla carta, che mai arrivano a scalfire la reciproca stima: “La mia esperienza con Shaw è costituita per lo più da discussioni, dall’inizio alla fine. E’ interessante che, dalla discussione, io abbia maturato per lui affetto e ammirazione, più di quanto comunemente la gente ottenga con l’accordo. Bernard Shaw mostra il suo volto migliore quando si presenta come antagonista. Aggiungerei che è al suo meglio addirittura quando ha torto, e ha quasi sempre torto. O piuttosto, in lui tutto è sbagliato fuorché lui stesso”.
Sullo sfondo di tutte, la lotta per riaffermare la verità del cattolicesimo, riscoperto poco a poco alla radice dell’amore per la realtà: “Io non avevo cominciato a credere in cose sovrannaturali; erano i non credenti che avevano finito per non credere neppure a normalissime cose. Furono i laici a trascinarmi nell’etica teologica, distruggendo ogni sana e razionale possibilità di etica secolare. Furono i deterministi a tuonare che io non ero responsabile affatto e, poiché io desidero essere considerato responsabile e non un pazzo in libera uscita dal manicomio per un giorno, cominciai a guardarmi intorno in cerca di un asilo spirituale”. Così “cominciai a mettere insieme, pezzo per pezzo, i frammenti del vecchio credo religioso”, fino a scoprire che “la dottrina teologica antica si adattava per lo più all’esperienza, mentre le teorie nuove e negative non s’adattavano a nulla, neppure le une alle altre. Mi ero accorto che, in quel fascio confuso di eresie inconsistenti e incompatibili, l’unica eresia forte, imperdonabile, era quella ortodossa”. Fino a scriverne, in un’altra opera, pure da poco ristampata da Lindau, “La Chiesa Cattolica”: “La Chiesa Cattolica è l’unica cosa in grado di salvare l’uomo da una schiavitù degradante, quella di essere figlio del suo tempo. Le Religioni Nuove sono adatte al nuovo mondo, e questo è il loro difetto peggiore. Non abbiamo bisogno di una religione che sia nel giusto quando anche noi siamo nel giusto. Quello che ci occorre è una religione che sia nel giusto quando noi abbiamo torto. Era una cosa ben diversa quando si predicava la carità a pagani che in realtà non ci credevano, ed è altrettanto diversa adesso che la castità viene predicata a nuovi pagani che non ci credono. In questi casi si scopre la vera presa della religione; e sempre in questi casi emerge il trionfo singolare e solitario della fede cattolica. Non tanto perché ha ragione quando abbiamo ragione, quanto perché è lieta e piena di speranza e umana. Perché aveva ragione quando sbagliavamo, e perché questo fatto ci torna addosso come un boomerang”. Quel che ancora oggi non perdonano al Papa.
De Chesterton a Benedicto XVI pasando por John Newman
Alvaro Cortina
En Inglaterra, los católicos pueden ocupar un escaño parlamentariodesde 1829, pero aún hoy no pueden subirse legalmente al trono real. Tampoco sus maridos o mujeres, aunque fueran anglicanos. Es el 'papismo', expresión típicamente suya. Entre los intelectuales católicos ingleses, hay una suerte de arropamiento. Unos papistas llevan a otros. Y todos llevan a John Henry Newman, ahora beato. Pionero. Algunos caminos sí que llevan a Roma, y pasando por este cardenal. La Congregación para las Causas de los Santos lleva trabajando un tiempo en su obra. Al parecer, ha sido decisivo el milagro de la curación de un diácono bostoniano impedido físicamente que le rezó después de ver un documental sobre su vida. Inspiradora, la vida, y acaso también el documental.
Aunque al final de su existencia, en 1877, el Trinity College de Oxford lo nombró su primer miembro honorario, y al de dos años el recién elegido Leon XIII le nombro cardenal, en vida John Newman no tuvo más que problemas. Con las jerarquías oxonianas, anglicanas, y con las papistas de Inglaterra, de Irlanda y de Roma. Siendo miembro de la Iglesia de Inglaterra, en 1833, fundó el Movimiento de Oxford, cuyo primer objetivo era defender la independencia de la Iglesia respecto al Estado, basándola en el origen apostólico de la autoridad eclesiástica. Y se fue acercando al Vaticano. Y mientras tanto hizo crecer la urticaria en los miembros de la junta directiva de los colegios oxonianos con ciertos artículos. Polemismo anglo católico.
Benson y Knox, curas literatos
En 1845 tenía 44 años. Al menos, hay dos sacerdotes literatos, posteriores (seguidores) de carrera semejante, a principios del siglo XX. Dieron este paso más jóvenes. Uno de ellos es Hugh Benson, autor de�El señor del Mundo�, (que según De Prada, "merecería figurar entre las más clarividentes utopías siniestras que jamás se hayan escrito, al lado de '1984' o 'Un mundo feliz'"). Por la novela campa el Anticristo. Y por otro lado, Ronald Knox, de Oxford, como Newman, biografiado porEvelyn Waugh en 'Embajador en el infierno', desheredado por su aventura religiosa. Knox escribió novelas policíacas con el detective Miles Bredon y nunca sufrió precariedades. Tuvo éxito. Ofició, por cierto, la misa fúnebre de Chesterton, su amigo, el rey de los anglos católicos, en la Abadía de Westminster (¡anglicana!). Uno nos lleva a otro. Pero siempre hay escalas en la inspiración común de Newman, en sus sermones y ensayos.
Por otro lado, su obra más famosa quizá sea una novela. Su título primero siendo católico. Sobre un joven, Charles Reding, que busca reposo espiritual sobre las calzadas medievales y húmedas de Oxford. La novela, autobiográfica, se llama 'Perder y ganar'. Su otra novela clave, posterior, es 'Calixta'. Estas obras, como las de autores antedichos, se pueden encontrar en editoriales católicas como Encuentro, Rialp, HomoLegens, o Palabra, o El Buey Mudo. Historiadores como Christopher Dawson ('Los orígenes de Europa') e Hilarie Belloc ('Las cruzadas') reivindican el papel clave de la Iglesia en la fundación de Occidente.
Las torres oscuras sobre San Felipe Neri
Benedicto XVI visitó el pasado día 19 el oratorio de San Felipe Neri, en Birmingham. El Papa Pío IX dio a Newman autoridad para establecer oratorios en Inglaterra y para ello le permitió adaptar la regla de San Felipe. El oratorio fue el marco en que se desarrolló el resto de la larga vida de Newman. De allí era el sacerdote que crió a J. R. Tolkien cuando su madre, conversa, murió, apartada de su familia política por su religión. El joven Tolkien veía alzarse las torres de Perrott's Folly y Edgbaston Waterworksa sobre el Oratorio de Newman. De ahí saldrían la de Sauron y la de Saruman.
Fundó Newman otro oratorio en Londres, pero aquel se volvió en contra del futuro cardenal y beato por considerarlo (los fieles de la capital) un católico demasiado moderado. Tuvo, como se ha dicho muchos detractores. En respuesta al escándalo por la instauración de la jerarquía territorial católica, en 1850, escribió 'Conferencias sobre la situación actual de los católicos en Inglaterra', y le valió una multa de 100 libras por difamación a un aludido. Esta obra es famosa, pero quizá habría que destacar 'Apologia pro vita sua', sus confesiones editadas poco a poco en semanarios, en respuesta a unos ataques públicos, en 1864. Ya estaba curado de espanto. Hasta hay quien quiso por procesarlo por herejía desde el Vaticano, en el 59, a cuenta de un artículo a favor de la consulta a laicos en materia doctrinal. Hay quien opina que Newman es uno de los principales inspiradores del Concilio del Vaticano II.
Concesiones católicas en Westminster
Se podría haber citado a otros anglos católicos eminentes, como Edith Sitwell, poeta y autora de 'Ingleses excéntricos', o Muriel Spark, o el gran Graham Greene, o el poeta Gerald Manley Hopkins, jesuita. Por cierto que hay una losa que recuerda a este último en la Abadía de Westminster. Lo mismo que a Oscar Wilde, católico también. Pero irlandés, que no es igual. ¿Y qué dicen de Chesterton con su homilía de réquiem en Westminster? Este templo de las dinastías inglesas conserva la compostura con excepciones de nivel. No hay sitio para católicos en el trono, pero sí, no obstante, en su gran catedral.
Piénsenlo, Chesterton es, quizá, el padre del papismo del siglo XX. Pero John Henry Newman, tan aficionado a la patrística, sería algo así como el padre de todos ellos. Polémicos apologetas, reconfortantes (por su brava polémica y su ingenio 'british') para el común de los fieles católicos. Siempre está bien tener a Evelyn Waugh en el bando de uno, sobre todo cuando rondan científicos tipo Richard Dawkins (hecho a la medida de Bertrand Russell) 'agnostizando' al personal. Estos católicos, casi hasta mártires, pero sin muerte. O sin casi. Para Tolkien, su madre fue una auténtica mártir, muerta de diabetes en Birmingham, en la pobreza, apartada de los suyos por su papismo. Si quieren seguir buscando, pueden leer 'Conversos', de Joseph Pearce, o 'Siete escritores conversos', de Carlos Pujol.
Ratzinger & padre Brown. Perché i grandi scrittori cristiani inglesi piacciono a Benedetto XVI: l’umorismo è parte essenziale della fede
Perché i grandi scrittori cristiani inglesi, da Chesterton a Lewis, piacciono a Benedetto XVI: l’umorismo è parte essenziale della fede
di Andrea Monda
Tratto da Avvenire del 15 settembre 2010
In due occasioni il Pontefice ha citato le 'Lettere di Berlicche': «Un piccolo libro che mette in luce i pericoli e i problemi del mondo moderno in modo spiritoso e ironico» e l’inventore del prete detective: «Occorre saper vedere l’aspetto divertente della vita e la sua dimensione gioiosa»
Nei suoi Saggi cattolici Graham Greene sostiene che bisognerebbe nominare il cardinale Newman patrono dei romanzieri cattolici, o, meglio dei romanzieri che sono anche cattolici. In effetti la sua clamorosa conversione avvenuta a metà dell’Ottocento ha prodotto un effetto a catena di altre conversioni specie in campo letterario: Hopkins, Chesterton, Waugh, Tolkien, Lewis, Marshall, lo stesso Greene…sono solo alcuni dei nomi tra quelli che si potrebbero citare ad indicare la 'valanga Newman'. Benedetto XVI conosce bene non solo Newman ma anche qualche elemento di quella 'valanga'. Può darsi che non abbia letto i romanzi di Greene, tanto amati da Papa Montini, ma di sicuro ci sono due autori di quella schiera che Ratzinger conosce molto bene: Gilbert Keith Chesterton e Clive Staple Lewis. Quest’ultimo è un caso a parte, perché è l’unico che si è convertito dall’ateismo al cristianesimo ma è rimasto, almeno formalmente, al di fuori del cattolicesimo, eppure è un autore che Ratzinger ha amato e spesso anche citato (in particolare Le lettere di Berlicche e L’abolizione dell’uomo) apprezzandone la capacità di trattare argomenti 'alti', seri e profondi con arguzia, leggerezza e humour tipicamente inglesi; ad esempio il 18 novembre del 1998, presentando l’enciclica Fides et Ratio in San Giovanni in Laterano l’allora cardinale Ratzinger esordiva con queste parole: «Permettetemi di cominciare con una citazione presa dalle Lettere di Berlicche del noto scrittore e filosofo inglese C. S. Lewis. Si tratta di un piccolo libro pubblicato per la prima volta nel 1942, che mette in luce i problemi ed i pericoli dell’uomo moderno in modo spiritoso ed ironico», un’altra, ennesima, conferma della falsità dei luoghi comuni e degli stereotipi sul Papa: all’attuale Pontefice romano piace tanto il cristianesimo così come viene declinato oltremanica.
Principali caratteristiche di questa 'declinazione': l’accoppiata umorismo-umiltà, e la centralità della gioia. Ratzinger sa che diventare cristiani in fondo vuol dire lasciarsi sorprendere dalla gioia, come illustrato efficacemente dall’autobiografia di Lewis che s’intitola appunto Sorpreso dalla gioia. Ma la gioia ha bisogno dell’umorismo così come l’umorismo ha bisogno della gioia, così si è espresso il Papa in una recente catechesi: «La gioia profonda del cuore è la precondizione del senso dell’umorismo, e così l’umorismo è, in qualche modo, la misura della fede».
Questa consapevolezza il giovane Ratzinger l’ha maturata nel corso degli anni, grazie anche alla lettura di un autore come Chesterton, ad un tempo umorista e apologeta della fede per il quale la gioia è «il gigantesco segreto del cristiano». La dicotomia noia-gioia è per entrambi un nodo centrale come risulta evidente sin dal primo discorso del neoeletto Pontefice: «Chi fa entrare Cristo, non perde nulla, nulla, assolutamente nulla di ciò che rende la vita libera, bella e grande […] non abbiate paura di Cristo! Egli non toglie nulla, e dona tutto. Chi si dona a lui, riceve il centuplo».
Fortissima l’eco di Chesterton ad esempio quando ha parlato ai giovani polacchi esortandoli: «Non abbiate paura di essere saggi, cioè non abbiate paura di costruire sulla roccia!». Nel suo capolavoroOrtodossia, Chesterton afferma: «Taluni hanno preso la stupida abitudine di parlare dell’ortodossia come di qualche cosa di pesante, di monotono e di sicuro. Non c’è invece niente di così pericoloso e di così eccitante come l’ortodossia: l’ortodossia è la saggezza e l’essere saggi è più drammatico che l’essere pazzi.
[…] E’ facile essere pazzi; è facile essere eretici; è sempre facile lasciare che un’epoca si metta alla testa di qualche cosa, difficile è conservare la propria testa». Ma il Papa arriva anche a citare Chesterton, anche se implicitamente, e lo fa rispondendo ad un’intervista rilasciata ad una televisione tedesca; alla domanda sul ruolo dell’humour nella vita di un Papa, Benedetto XVI ha candidamente affermato: «Io non sono un uomo a cui vengano in mente continuamente barzellette. Ma saper vedere anche l’aspetto divertente della vita e la sua dimensione gioiosa e non prendere tutto così tragicamente, questo lo considero molto importante e direi che è anche necessario per il mio ministero.
Un qualche scrittore aveva detto che gli angeli possono volare perché non si prendono troppo sul serio. E noi forse potremmo anche volare un po’ di più, se non ci dessimo tanta importanza». La citazione è tratta sempre da un brano di Ortodossia di Chesterton che continuava con l’immagine di Lucifero, l’angelo che cade per la forza di 'gravità', dove questa gravità significa proprio seriosità, mancanza totale di umorismo che, per lo scrittore inglese come per il Papa tedesco, è quella capacità di visione, di rovesciare la prospettiva e cogliere la gioia (e anche il divertimento, secondo Benedetto XVI). Il Papa-teologo che più volte ha invocato l’esigenza di una 'teologia in ginocchio', sa bene che l’umorismo è, anche etimologicamente, fratello dell’umiltà e tutti e due provengono dall’humus, dalla terra. Solo chi ha i piedi ben piantati per terra, chi riconosce la sua 'adamiticità' (Adamo, cioè il 'terroso', secondo la Genesi), può volare alto, fino al cielo. È anche questo messaggio che il Papa andrà a proclamare, insieme alla grandezza di un suo maestro come Newman, volando oltremanica per andare in Inghilterra, la Terra degli Ang(e)li.
Un secolo fa nasceva padre Brown il primo detective tra i "preti di carta" Alla ricerca di criminali da perdonare
di Paolo Pegoraro Sarà pure una singolare coincidenza, ma l'Anno sacerdotale indetto da Papa Benedetto XVI si è concluso a un secolo dalla nascita del più celebre tra i "preti di carta". Sì, perché padre Brown, il parroco detective uscito dalla penna di Gilbert K. Chesterton, fece la sua prima comparsa sul numero di "Storyteller" del settembre 1910. E oggi, per un'altra singolare coincidenza, ben tre editori italiani ci ripropongono le sue avventure (Morganti, con una nuova traduzione e veste grafica, Mursia e San Paolo).
Piccolo, tozzo e dimesso, la talare sdrucita e l'immancabile ombrello che lo accompagna anche nella canicola più impietosa, padre Brown emana la bizzarra solennità di un personaggio dickensiano. Il saturno "simile a un'aureola nera" copre una faccia tanto più inespressiva quanto più è intelligente. Una faccia dove brillano due occhi guardinghi e uno sguardo lontano, "carico dell'umiltà di un incarico troppo grande per gli uomini". Com'è noto, Chesterton modellò il suo personaggio sulla figura di padre John O'Connor di Bradford, il quale non era né piccolo né tozzo né dimesso, e che, 17 anni dopo, avrebbe accolto lo scrittore londinese nella Chiesa cattolica. Perché le chiacchierate con padre O'Connor convinsero Chesterton a una verità sorprendente: il cattolicesimo ne sapeva più di lui non solo intorno al bene, ma perfino riguardo al male.L'incontro con il sacerdote irlandese - che risale al febbraio 1905 - fu però soltanto una delle tappe che portò, cinque anni dopo, alla nascita di padre Brown. Perennemente affascinato dalla chiazza di sangue e dal grottesco, Chesterton aveva ripetutamente parlato, tra il 1901 e il 1904, del genere poliziesco come "simbolo dei misteri più alti". E prima che "l'indagatore sacramentale" assumesse la forma compiuta di padre Brown, incontriamo due significative prove narrative di genere: Il club dei mestieri stravaganti (1905) e l'obbligatorio L'uomo che fu Giovedì (1908). In entrambi il protagonista è un uomo che vive separato dagli altri, un celibe eccentrico o un asceta, perché il detective puro - lo notava Leonardo Sciascia - non può possedere nulla che possa competere con la difesa della legge. A ben guardare queste due opere, però, ci si rende conto che i suoi protagonisti non sono mossi da ferreo legalismo. E che alla base della peculiare "scienza dell'anima" di padre Brown - così Antonio Gramsci, che preferiva il piccolo prete al pretenzioso Holmes - ci sono niente meno che due sacramenti: la Confessione e l'Eucaristia.
Protagonista del Club dei mestieri stravaganti (1905) è Basil Grant, un ex giudice poeta e dal temperamento mistico, accompagnato dal fratello Rupert, detective privato di professione, uomo pratico e pronto all'azione, dotato di un'intelligenza acuta, sospettosa e tendenzialmente scettica. I sei racconti hanno la struttura del racconto poliziesco classico - richiesta di aiuto, indagine, svelamento - se non che ogni caso si conclude senza crimini o criminali. Tutti i "casi" si rivelano falsi allarmi originati da situazioni equivoche, con conseguente scorno di Rupert, che indaga per sorvegliare e punire, e fragorose risate di Basil, che indaga per assolvere. L'ultimo tratto caratteristico di Basil Grant viene rivelato nelle ultime pagine, dove si spiega perché egli ha lasciato il posto di giudice. La carcerazione gli sembrava inutile, ciò che occorreva davvero era "un bacio o una bastonatura". Il perdono o la correzione: ma desiderati dal profondo di sé, non subiti passivamente come pena immeritata o indulto non richiesto. Per questo Basil istituisce un "tribunale penale volontario" al quale si presentano quanti vogliono essere giudicati "non per le colpe pratiche cui nessuno bada, come il commettere un omicidio (...) ma per quelle colpe che rendono veramente impossibile la vita sociale", come l'egoismo, la maldicenza o la vanità. Divenuto un giudice "puramente morale", Basil Grant non sta facendo altro che amministrare - almeno simbolicamente - il sacramento della penitenza.
Anche L'uomo che fu Giovedì si regge sul meccanismo di una colpevolezza apparente e sulla ricerca spasmodica di un criminale. Pagina dopo pagina, infatti, la lista degli indagati va assottigliandosi finché, giunti al sorprendente epilogo, le colpe di tutti sembrano concentrarsi su un solo indiziato. Solo che è il capo della polizia, colui che ha avviato l'indagine. "Di chi è la colpa?": a ben vedere questo interrogativo, che è poi quello del libro di Giobbe, esaurisce non solo quei polizieschi che si accontentano di "trovare un colpevole", ma anche una buona fetta della giustizia umana. L'uomo che fu Giovedì osa di più e rivolta la questione: non più "di chi" è la colpa, ma "qual è" la colpa reale, oltre le apparenze? E la colpa che si imputa al capo della polizia - il quale appare sempre più simile a un essere ultraterreno - non è quella di essere un anarchico, come si crede nelle prime pagine, ma di non aver mai conosciuto né dolore né sofferenza. E di essere, pertanto, colpevolmente felice. Le ultime parole che il personaggio soprannaturale lascia al protagonista, prima di scomparire, sono un preciso rimando al Vangelo di Marco (10, 38): "Potete bere nella coppa dalla quale io bevo?". È una prefigurazione del sangue sparso per la salvezza del mondo: il mistero eucaristico. L'immagine del calice nel quale si concentrano le colpe dell'umanità verrà ripresa in un racconto cardine della serie di padre Brown.
Riassumendo, ecco le stazioni del "binario giallo" seguite finora da Chesterton: l'incontro con padre O'Connor (1905), l'invenzione di un singolare giudice che impartisce penitenze e assoluzioni (1905), infine un ancora più insolito capo della polizia che porta su di sé le colpe di tutti (1908). Il 20 febbraio 1909 egli scrive sul "Daily News": "La Chiesa è l'unico organismo che ha sempre tentato sistematicamente di perseguire e scoprire i crimini, non allo scopo di vendicarli, ma con l'intenzione di perdonarli. (...) La stranezza della Chiesa era questa sua impietosa pietà: era come un inesorabile segugio che insegue la preda per salvarla, non per ucciderla". La scena è pronta, gli indugi rotti, le metafore messe da parte. Entra in scena un sacerdote cattolico, l'investigatore sacramentale per eccellenza, che riassume in sé personaggi abbozzati: nasce padre Brown.
Su questo umile eroe - non così distante dal curato d'Ars - c'è troppo da dire. Concentriamoci sul legame tra sacerdozio e investigazione. Nel racconto che dà il titolo al terzo volume del ciclo - Il segreto di padre Brown (1924) - il piccolo prete del Norfolk, temendo gli si attribuiscano poteri paranormali, si vede costretto a svelare il suo metodo d'indagine, "un esercizio talmente religioso che non avrei dovuto parlarne". Questo "esercizio spirituale" comincia concentrandosi sulla colpa: cosa c'è di desiderabile in questo atto? A quali attese risponde? Quale congerie di emozioni e pensieri conduce una persona a imboccare questa strada come inevitabile? Attraverso questa "immedesimazione" reale con il colpevole, riconosciuto uomo identico a se stesso e non piùmonstrum relegato dal suo delitto a una distanza incolmabile dal resto dell'umanità, padre Brown giunge infine a scoprirne l'identità. "Io - spiega il sacerdote - sono un uomo del tutto simile al criminale, eccetto che nella volontà di compiere l'azione finale". Perché padre Brown non si accontenta del meccanismo "colpa-colpevole", dove la prima è una diretta promanazione del secondo. Egli scende nell'abisso del "peccato-peccatore", dove il primo tiene prigioniero il secondo. Non basta punire il reato: bisogna sradicare il peccato. Il pretino inglese sa bene che il "cattivo" è prima di tutto un captivus, un essere tenuto "in cattività" dai suoi atti. La prima vittima del crimine è il criminale, perché omicidio e furto sono solo la maturazione di delitti ben più radicati, come l'invidia, la vendetta, la superbia e le eterne eresie. Identificati queste storture del cuore e della mente, non solo si scioglie il caso, ma si può portare soccorso al "colpevole" prima che il suo male lo autodistrugga. Padre Brown è un moderno inquisitore, un santo segugio che insegue la preda per salvarla da se stessa, laddove i giudici di questo mondo la vorrebbero soltanto sul patibolo. In uno dei racconti più potenti e meno noti della serie, Il grande dolente di Marne, padre Brown scaglia una memorabile invettiva contro chi fino a un attimo prima lo accusava di carente carità cristiana, ma poi, scoperto lo stato reale delle cose, reclama la testa del colpevole: "Continuate pure sul vostro comodo sentiero, perdonando tutti i vostri vizi preferiti e facendo i generosi nei confronti dei vostri crimini alla moda, e lasciate noi nelle tenebre, vampiri nella notte, a consolare coloro che veramente hanno bisogno di consolazione, coloro che compiono atti veramente indifendibili, cose che né il mondo né loro stessi possono difendere e che nessun altro se non un sacerdote potrà perdonare. Lasciateci con gli uomini che commettono i crimini peggiori, i più ributtanti e reali: orribili quanto san Pietro quando cantò il gallo, eppure l'alba sorse lo stesso". Lo scandalo del perdono rende il sacerdote un essere abbietto e spregevole agli occhi della giustizia del mondo, niente meno che un "vampiro", un essere che osa addentrarsi nella notte dell'anima. Quella notte nella quale Giuda si perse, nonostante fosse stato tallonato fino all'ultimo dall'Amore.Questa vicinanza al peccato, questo rispecchiarsi completamente nel peccatore meno che nell'assenso della volontà, provoca sconcerto: nella letteratura di ieri come nella cronaca di oggi. I benpensanti e sconvolti ascoltatori di padre Brown gli domandano prontamente se questa prossimità non lo renda troppo indulgente. La risposta del piccolo prete non lascia scampo. Ci sono due modi - egli spiega - per rinunciare al diavolo: averne orrore perché è troppo distante da noi, oppure perché è troppo vicino. Chesterton non faceva mistero di appartenere alla seconda catego- ria, come confessa nell'Autobiografia: "Quando la gente chiede a me, o a qualsiasi altro: "Perché vi siete unito alla Chiesa di Roma?", la prima risposta essenziale, anche se in parte incompleta, è: "Per liberarmi dai miei peccati". Perché non v'è nessun altro sistema religioso che dichiari veramente di liberare la gente dai peccati". Eppure fu proprio la personale discesa ad inferos che permise a Chesterton - e a padre Brown - di varcare la soglia regia del cristianesimo ed entrare là dove molti re e imperatori si rifiutarono di mettere piede: nel santuario del proprio essere. Prendiamo l'esempio letterario per eccellenza: Macbeth. Ucciso re Duncan e rimasto solo con se stesso, deve scegliere se ammettere di essere un traditore e un assassino, oppure negarlo, rivestendosi di menzogna. Imboccherà la seconda, diabolica via che lo condurrà a spargimenti di sangue sempre più grandi. Padre Brown si comporta in maniera specularmente opposta. Dopo aver spiegato ai suoi uditori il suo strano metodo d'investigazione, egli si ferma, meditabondo, a contemplare un particolare. "Padre Brown alzò il suo bicchiere e la fiamma rese il vino trasparente come un bicchiere rosso del sangue di un glorioso martire. La fiamma parve assorbire il suo sguardo che affondava sempre più, come se quel singolo bicchiere contenesse un mare rosso del sangue di tutti gli uomini, e la sua anima nuotasse, tuffandosi nell'oscura umiliazione, più in basso dei mostri più profondi, nel fango antico. (...) "Sì", disse, portando il calice alla bocca, "mi ricordo bene"". Il bicchiere che il piccolo sacerdote del Norfolk porta alle labbra è ben più di un bicchiere di vino. È la coppa nel quale sono raccolte le sofferenze dell'umanità. Quel "mare di sangue" che Macbeth sparge pur di non doversi riconoscere colpevole è racchiuso nel calice eucaristico che soltanto il Giusto può portare alle labbra. "Potete bere nella coppa nella quale io bevo?" aveva chiesto, al culmine della sua spaventosa epifania, il misterioso personaggio de L'uomo che fu Giovedì. A rispondergli c'è padre Brown.
(©L'Osservatore Romano - 8 settembre 2010)