DISCERNERE

Uno sguardo profetico sugli eventi

La coscienza di Michele. L'inferno è fare male ed essere soli

di Marina Corradi
Nella tragedia di Avetrana, una delle più atroci che le cronache di questi anni abbiano raccontato, c’è un punto che ap pare in contraddizione con il fiume di ma le che ha travolto una ragazza di quindici anni. Perché ad Avetrana ripugnante è la li bidine di un uomo, che di quella ragazza e ra come un padre; e raggelante è il silenzio che quest’uomo ha saputo mantenere per un mese, mentre appariva in tv con i suoi limpidi occhi chiari. Come un rigurgito di male, un conato di abissi, venuto su in un piccolo sconosciuto paese del Sud. Accade, talvolta, e ogni volta noi a domandarci co sa è stato, come è stato possibile che una madre a Cogne, che un 'buon uomo' ad A vetrana, abbiano potuto; dimentichi, appe na lo possiamo, di quanto grande sia la for za del male. Ma ad Avetrana c’è quel particolare che stu pisce. Non c’era alcuna prova contro l’as sassino; nessuno aveva visto. Si parlava di ra pimento. Si sospettava di altri. Col tempo i riflettori sul paese si sarebbero spenti, le te lecamere se ne sarebbero andate, e il mi stero sulla fine di Sara sarebbe rimasto per sempre. Che cosa, dunque, ha spinto Mi chele Misseri a fingere di trovare il telefoni no della nipote? L’uomo ha confessato che già da tre giorni l’aveva lasciato su una stra da, in evidenza, sperando che qualcuno lo vedesse. E siccome invece questo non suc cedeva, lui stesso si è spinto a dire d’averlo per caso ritrovato in campagna. Cosa in credibile, naturalmente: e gli occhi degli in quirenti si sono puntati su quel 'buon uo mo'.
Perché dunque il cellulare, che sembrava dire «prendetemi, sono stato io»? Perché, ha detto lo stesso Misseri, il ricordo di quel che aveva fatto non era tollerabile. Perché l’im magine di Sara gli era davanti agli occhi in ogni istante; e ogni notte tornava, chieden do la pietà di rivestirla. Non mentiva l’as sassino, almeno quando piangendo diceva davanti alle telecamere: «Ho sempre Sara in mente». Era vero. In quel pozzo, insieme al corpo di lei, anche il carnefice era sprofon dato, in un pomeriggio di fine estate.
E nessuno sapeva, e nessuno osava imma ginare che a uccidere potesse essere stato u no che quella bambina bionda l’aveva te nuta sulle ginocchia come u na figlia. Ma qualcosa den tro premeva insopportabil mente, tanto da obbligare a tradirsi. Cosa, se non la co scienza? Nonostante il delit to bestiale, nonostante l’a trocità e il nascondimento a bile, freddo, qualcosa resta anche in fondo al peggiore assassino – una voce che non si riesce a zittire in alcun mo­do. La consapevolezza del male è un’evidenza stampa ta nell’uomo; per quanto cancellata, negata, non tace. Non è ancora rimorso ciò che ha spinto l’as sassino di Avetrana a tradirsi. È invece l’in sopportabile angoscia di trovarsi, di fronte a quel ricordo, totalmente solo. Nessuno con cui poter parlare del fantasma che lo inse guiva, di quella figura esile e bionda che gli chiedeva l’ultima pietà di coprirne i resti. Assolutamente nessuno. Un giogo come un macigno, da reggere solo; facendo finta di niente, a tavola con la famiglia, la sera. In mezzo agli altri, ma solo nel suo pozzo, com plementare e simmetrico a quello in cui a veva sepolto la nipote. L’inferno, disse Sar tre, 'sono gli altri', ma è vero il contrario: l’inferno è essere soli. Con quel volto genti le sempre davanti, e nessuno a cui poter di re una parola. Così che, ha detto Misseri, è stato un sollie vo confessare, e perfino portare i carabinie ri laggiù, in campagna, nella notte. Forse perfino le maledizioni e gli insulti degli al tri, in carcere, ora, sono meglio che quella terrificata solitudine. Con una voce dal profondo che però premeva, gridava. L’an sia di confessare e quindi di tornare fra i vi vi, fra gli uomini, se pure come il più spie tato degli assassini. La coscienza soffocata, che però costringe e non dà pace. Avetrana, storia di inferi, dice però che qualcosa an che nel fondo del buio, anche nel peggiore degli uomini, ostinatamente si oppone al l’orrore del male e del nulla.

«Avvenire» del 9 ottobre 2010