DISCERNERE

Uno sguardo profetico sugli eventi

I Romani e l’amore. L’eros secondo Lucrezio


I Romani e l’amore

di Martino Menghi, Novae Vices. Lucrezio (pp. 100-101)

LA TESTIMONIANZA DI LUCREZIO
Nel corso della sua lunga e sarcastica descrizione delle lusinghe d’amore Lucrezio sembra confermare l’immagine comunemente diffusa della sessualità a Roma: egli esordisce infatti con una disamina su basi fisiologiche del rapporto amoroso escludendone la componente affettiva, per poi dispiegare un attacco contro la passione amorosa sentita come fonte di schiavitù per t’uomo, una debolezza degna di un poeta elegiaco e del suo otium. Si tratta dunque di un attacco alle forme libere e rivoluzionarie nei rapporti tra i sessi che si stavano introducendo in Roma, di una decisa negazione della libertà dei costumi sviluppatasi di pari passo con la penetrazione del I’otiuni privato nei suoi vari aspetti. In questo Lucrezio si trova al fianco della morale tradizionale: egli sottolinea soprattutto l’aspetto avvilente dell’infatuazione amorosa dal punto di vista del vir Romanus, che rischia, se sottoposto a una donna o a un altro uomo, di non essere più vir nel pieno dei suoi diritti. Due corollari sono evidenti in questa posizione: che il sesso, per certi versi libero, viene scisso da qualsiasi forma di affetto o di amore in senso romantico-borghese, e in secondo luogo che la posizione del maschio risulta dominante e questo genera disparità nel rapporto tra amante e amata (o amato).

LA LIBERTÀ SESSUALE A ROMA
La grande libertà sessuale del mondo romano, o meglio la mancanza di quelle limitazioni che poi introdurrà il cristianesimo (rapporti solo eterosessuali finalizzati alla procreazione nell’ambito del matrimonio; predominio della componente dell’affetto e della solidarietà), è riconducibile a cause ben precise.
La prima è la disponibilità assoluta, materiale, ma anche affettiva e sessuale, degli schiavi, o comunque una disparità tra le classi sociali ideale per perpetuare quella disparità di rapporto amante-amata/o di cui si è detto sopra. Tacito (Annales XIV, 42, l) ci tramanda un evento tragico: «Non molto tempo dopo il prefetto della città Pedanio Secondo fu ucciso da uno schiavo, o perché gli avesse negato la libertà, per la quale aveva già patteggiato il prezzo, o perché lo schiavo, preso d’amore per un amasio, non avesse tollerato nel padrone un rivale». Tacito si riferisce al fatto, eccezionale, che lo sfortunato prefetto era caduto vittima di una rivalitàamorosa omosessuale nella sua domus; è evidente che abusi da parte del padrone sugli schiavi dovessero essere la norma, mentre non era normale che uno schiavo si ribellasse in questo modo. Ancora più indicativi sono i piccanti ricordi di gioventù di Trimalcione, il ricco liberto protagonista della parte giunta fino a noi del Satyricon di Petronio, che diede precocemente inizio a una fortunata carriera come schiavo sessuale dei suoi primi padroni (Satyricon 75, 1 I ).
La seconda causa è la grande diffusione della prostituzione nelle città romane (e mediterranee in generale). Come ci informa la commedia antica, la prostituzione era anche incentivata dalla pratica di esporre i neonati indesiderati, in special modo le femmine, che venivano spesso raccolte e avviate su questa strada (e talvolta dotate di un’istruzione che le donne “oneste” non ricevevano). La prostituzione non solo era del tutto legale, ma era accettata anche dai tradizionalisti come una componente essenziale dell’ordine sociale, una valvola di sfogo per gli istinti sessuali utile a preservare l’integrità delle famiglie: sarà anche per questo che Cicerone non solo non pensa a interdire ai giovani la frequentazione delle prostitute, ma la ritiene una pratica non estranea «alla morale e alla tolleranza dei nostri antenati» (Pro Caelio 48). È evidente peraltro che l’altissimo numero di prostitute nelle città antiche (ma anche in metropoli come la Venezia del Cinquecento o la Londra e la Parigi dell’Ottocento, o anche in alcune città contemporanee del Terzo Mondo) è dovuto sia alla concentrazione di ricchezza nelle città stesse, sia alle condizioni di miseria materiale di gran parte della popolazione, che faceva dei mestieri sessuali una forma di sussistenza quotidiana (meretrix, “colei che guadagna”): lo dimostra il fatto che, al di là dei rapimenti o delle esposizionidi fanciulli, spesso erano le madri a offrire i propri figli a chiunque potesse pagare. A Crotone, la scena della seconda parte del Satyricon, viveva una matrona «tra le più rispettabili» che campava «appioppando figlio e la figlia a vecchi senza prole» perché si procacciassero l’eredità in cambio dei loro favori (Satyricon 140).
L’omosessualità poi era ammessa e praticata in Grecia e a Roma. Tuttavia nel mondo greco sussisteva un rapporto “pedagogico” tra erastés ed erómenos, cioè tra amante e amato, rapporto evidente per esempio tra Socrate e Alcibiade suo discepolo, mentre a Roma questa dimensione non esisteva. L’omosessualità era tollerata, anche se chi la praticava era oggetto di commenti malevoli; soprattutto era particolarmente disonorevole che un uomo di alto rango tenesse un ruolo passivo nel rapporto perché questo minava il concetto di virilità: lo testimoniano le offese che talvolta sono rivolte a uomini politici dai loro avversari oppure, anche, gli insulti osceni che, come voleva il costume tradizionale, i soldati di Cesare indirizzavano al loro generale durante i trionfi.
Da ultimo, bisogna tenere presente la relativa libertà sessuale delle donne romane di alta condizione rispetto, per esempio, alla posizione più sottomessa della donna libera greca. La Lesbia di Catullo, le donne dei poeti elegiaci e la Sempronia che partecipa alla congiura di Catilina ne sono un esempio. Questa libertà si sviluppò soprattutto alla fine della repubblica e coincise con una maggiore emancipazione della donna a livello economico e giuridico e quindi con il decadere dell’istituto tradizionale del matrimonio. Ciò tuttavia non impedì la condanna morale: i comportamenti troppo liberi delle donne furono sempre oggetto di riprovazione da parte dei tradizionalisti e dei benpensanti.

L’AFFETTO TRA I CONIUGI
Va peraltro ricordato che a questo quadro generale di libertà sessuale, soprattutto da parte maschile, fanno riscontro forme di convivenza alle quali non era estranea la dimensione degli affetti, nelle quali si andava oltre il vincolo giuridico del matrimonio o la pura ricerca della soddisfazione sessuale: È un’idea del filosofo Michel Foucault e dello storico Paul Veyne che il comportamento maschile e l’etica familiare cambiarono già tra gli ultimi anni della repubblica e la prima età imperiale (e quindi non per l’influsso del cristianesimo, portatore dell’idea di uguaglianza tra i sessi e della dignità di “sacramento” del vincolo matrimoniale) nel segno della fine della logica dello stuprum, la rapacità sessuale, che aveva caratterizzato i rapporti tra il pater familias e i suoi sottoposti, dalla moglie agli schiavi della casa. Si verifica la nascita di una nuova aristocrazia, un’aristocrazia di funzionari uguali tra loro di fronte al potere imperiale, che sostituisce la nobiltà repubblicana mossa dalla logica “violenta” della concorrenza per le cariche pubbliche; questa nuova prospettiva avrebbe mutato la psicologia “virile”, di capo, del nobile romano e l’avrebbe costretto a dare un’immagine di urbanità che fra le altre cose comportava rispettabilità sessuale, continenza, affetto verso la moglie, non più considerata una parte del patrimonio, ma come una compagna da rispettare e sulla quale fare affidamento. Sempre a patto, peraltro, che la moglie o la compagna si mantengano su un livello di rispettosa deferenza nei confronti del marito e delle sue attività, come dimostra il rapporto non impositivo, ma comunque paternalistico tra Plinio il Giovane e la sua terza moglie, l’adolescente Calpurnia. Così Plinio scrive a una zia della ragazza: «Io non dubito che sarà una fonte di grande piacere per te sapere che si è rivelata degna di te e di suo nonno. La sua oculatezza e la sua parsimonia sono della più alta qualità: mi vuole bene, il che è indizio della purezza del suo cuore. A queste virtù si aggiunge un interessamento per la letteratura, che essa ha sviluppato per affetto nei miei riguardi. Ha in mano i miei lavori, li legge frequentemente e addirittura li impara a memoria. Che ansietà prova quando sono sul punto di parlare in tribunale! Quale gioia prova quando ho finito!» (Epistulae IV, 19).
Ma del resto anche Lucrezio, al termine della sua descrizione dei mali dell’amore, lascia un quadro positivo dell’affetto coniugale: «La femmina stessa talvolta, con modi gentili e modesti, col nitore del corpo, può indurti a trascorrere i giorni, la vita con lei. L’abitudine, poi, produce l’affetto: ché il medesimo oggetto, battuto da colpi continui, anche lievissimi, cede ed è vinto con l’andare del tempo» (IV, vv. 1280-1285).


L’eros secondo Lucrezio

di Martino Menghi, Novae voces. Lucrezio (pp. 126-130)

L’epicureismo, come del resto le altre filosofie ellenistiche, è una dottrina a forte impronta terapeutica, poiché intende guarire l’uomo dalla sofferenza, affrancandolo dalle sue grandi paure e passioni. Se si tratta della paura della morte o di quella degli dèi, ad affrancarcene sarà una corretta conoscenza della natura mortale di anima e corpo o della vera condizione della divinità. Se si tratta dell’ambizione, della passione del potere o della ricchezza, a guarircene sarà l’educazione a soddisfare i bisogni elementari in un contesto di serena amicizia e di reciproco aiuto. Se si tratta infine della sofferenza che troppo spesso si instaura nei rapporti d’amore, a liberarcene sarà sempre la conoscenza della fisiologia e delle motivazioni del desiderio.

1. L’EROS SECONDO PLATONE E ARISTOTELE
Platone aveva collocato il desiderio erotico nell’anima concupiscibile, situata a sua volta nei visceri e negli organi sessuali. Questa parte dell’anima (l’epithymetikón) doveva essere costantemente controllata dall’anima razionale (il logistikón) in alleanza con l’anima irascibile (lo thymós), perché solo con l’imposizione di un comportamento temperante essa avrebbe potuto contribuire al buon equilibrio dell’individuo e dunque alla concordia della comunità politica di cui egli è parte. Come si legge nel libro VIII della Repubblica (559 e ss.), infatti, il venir meno di questa azione di controllo porrebbe sullo stesso piano tutti i desideri umani (da quello della conoscenza, il più nobile, a quello del potere, della ricchezza, fino al più pericoloso di tutti, quello appunto dell’eros) e porterebbe all’anarchia nell’individuo e di conseguenza all’insorgere della tirannide nella città.
Aristotele compie una delle sue operazioni concettuali più sottili rispetto al maestro trasformando l’epithymía erotica platonica nella funzione fisiologica della riproduzione, come pure il desiderio di cibo e di bevande in funzione fisiologica dell’alimentazione. La terza parte dell’anima, infatti, non è più per Aristotele l’”anima desiderante” (epithymetikón) di Platone, bensì l’”anima nutritiva” o “vegetativa” (threptikón, phytikón), organica e pertanto solidale con le esigenze e le condizioni del corpo. I suoi desideri escono così dalla dimensione della turbolenza psicologica (che necessita la costante azione repressiva della ragione e dellothymós platonici) per entrare in quella della normalità biologica, sorvegliata dalla semplice azione moderatrice della ragione, la stessa che un buon padre - secondo l’esempio spesso evocato da Aristotele - esercita all’interno della propria famiglia per garantirne un sereno equilibrio.
Gli epicurei, gli stoici, e con loro i medici alessandrini, operano all’indomani di questa rivoluzione “fisiologica” dell’anima e delle sue prerogative, e in modi diversi la proseguono, la integrano o la modificano anche per quanto riguarda il problema dell’eros.

2. L’EROS SECONDO LUCREZIO
Lucrezio, che è la nostra fonte privilegiata per quanto riguarda la concezione epicurea dell’amore, riconduce il desiderio erotico tra quelli naturali (l’esperienza del piacere, la procreazione) ma non necessari, per poi mettere in guardia il suo lettore-discepolo affinché non lo trasformi in volontà di possesso del proprio partner o di fusione con lui: si tratterebbe infatti di un desiderio irrealizzabile, e quindi destinato a veicolare sofferenza certa. Il desiderio erotico è resentato come del tutto naturale (De rerum natura IV, 1037-1048).
Ma dopo la descrizione della naturalità del desiderio erotico, che l’uomo potrebbe soddisfare proficuamente se solo si limitasse ad avere rapporti amorosi senza illusioni di possesso (cfr. vv. 1063-1075), Lucrezio si richiama alla teoria dei simulacra - le “pellicole atomiche” che si distaccano dalla superficie dei corpi e ci permettono di conoscere la realtà, dunque anche i nostri simili -, per ricordarci che della persona amata non possiamo avere altro che queste immagini inconsistenti: pertanto ogni tentativo di impadronirsi del corpo della persona amata o di diventare tutt’uno con lei non solo non sarà mai soddisfatto, ma sarà anche fonte di sicura sofferenza (De rerum natura IV, 1091-1096). Il concetto viene ribadito con la descrizione dell’amplesso, il momento più carico di questo tipo di illusioni (De rerum naturaIV, 1105-1111).
A questa vana illusione, si aggiungono altri pericoli per gli innamorati: la dispersione delle proprie forze, il trovarsi in balia dell’amato, il dilapidare la propria sostanza, il trascurare i propri doveri, o infine, il patetico delirio dell’innamorato che scambia i difetti della persona amata per qualità. Paradigma del buon comportamento amoroso è il mondo animale, che si limita a seguire gli impulsi della natura e a propagare la specie, come si legge nei primi versi del poema (De rerum natura I, 10-20), o nel paragone tra la donna onesta e generosa e le femmine degli animali (De rerum natura IV, 1192-1200).

3. L’EROS SECONDO LO STOICISMO
Per gli stoici, l’amore è di per sé un impulso naturale, ma rientra nella temibile dimensione passionale non appena oltrepassa la giusta misura che è regolata dalla ragione. Il medico e filosofo Galeno (II secolo d.C.) ci riporta questa preziosa testimonianza di Crisippo (III secolo a.C.), il sistematizzatore dello stoicismo antico, riferita alla dinamica degli impulsi naturali in genere:

In questo senso si è parlato anche della smodatezza dell’impulso, in quanto esso oltrepassa quella simmetria naturale che gli è propria. Ciò che intendo dire diverrà più chiaro con questi esempi. Il movimento delle gambe nel camminare non supera una certa misura rispetto all’impulso, ma corrisponde ad esso in maniera tale che, se si voglia, ci si può fermare e cambiare strada. Se invece si corre, tale movimento non si verifica in questa misura, ma la supera in eccesso, di modo che si è trascinati in avanti e non si può facilmente cambiare strada, una volta che così si è cominciato. [...] Insomma, nel caso della corsa si verifica un eccesso rispetto all’impulso, nel caso dell’impulso si verifica un eccesso di questo rispetto alla ragione. La giusta misura dell’impulso naturale è quella regolata dalla ragione, fino a tanto che questa agisca e fino a tanto che lo consideri opportuno.

De placitis Hippocratis et Platonis IV, 2; trad. M. Isnardi Parente

Quanto all’amore, non è un caso che Seneca, stoico di età imperiale, nel suo trattato De matrimonio, per noi perduto ma in parte citato da Gerolamo nell’Adversus Iovinianum, così si esprima sul rapporto uomo-donna:

Ogni amore con la donna di un altro è una vergogna, ma lo è anche con la propria, se non evita l’eccesso. Il saggio deve amare sua moglie secondo ragione, senza abbandonarsi alla passione: gestisce infatti gli impulsi del piacere senza gettarsi con precipitazione nel coito. Nulla è peggio di amare la propria donna come se si trattasse di un’amante.

De matrimonio, framm. 84-85 Haase; trad. M. Menghi

Più che i risvolti sociologici di questa testimonianza, per cui Seneca, e non è l’unico al suo tempo, vieta l’adulterio tanto per la donna quanto per l’uomo, sanzionandone anche la passionalità che di solito vi si esprime, è l’insistenza su una gestione razionale del sentimento d’amore che qui soprattutto interessa. Come si verifica secondo gli stoici lo scivolamento dell’amore nella passione, e quali sono i suoi effetti sul soggetto?
Per lo stoicismo la passione è un impulso eccessivo che sfugge al controllo della ragione, ma nel momento in cui ciò si verifica, il portato passionale finisce col diventare una seconda natura della nostra anima (che è solo ragione) e col sopraffarla, come un cancro invade un corpo sano. Ma qual è la dinamica? La ragione, strumento di conoscenza sovrano di noi stessi e del mondo che ci circonda, ha la possibilità, anche riguardo alla nostra condotta morale, di giudicare in anticipo se il nostro comportamento sarà buono o malvagio grazie a “rappresentazioni” esterne di noi stessi o di altri (le phantasiai), che di volta in volta può accettare e fare proprie, oppure rifiutare. Le accetta se esse sono conformi alla ragione, le rifiuta se non lo sono. La nostra anima sarà dunque invasa dalla passione nel momento in cui la ragione esprime un giudizio errato su una rappresentazione esterna che sarebbe da rifiutare e che invece accoglie. Riprendendo gli esempi di cui sopra, il saggio sa in anticipo che correre a perdifiato è pericoloso perché non ci si può fermare quando si vuole, e quindi cammina, soddisfacendo in modo “ragionevole” il naturale impulso umano di muoversi. Quanto all’amore, il saggio sa anche che ogni comportamento passionale nei confronti del proprio partner (la gelosia, un eros sfrenato, la volontà di possesso, la trasgressione del proprio dovere) è nocivo per l’anima, e quindi lo rifiuta in anticipo.
Seneca, nel suo intento educativo-didattico, affida alle sue tragedie (come pure al trattato De ira) il compito di prospettare al suo pubblico il danno che possono arrecare alcune phantasíai errate nel momento in cui la nostra ragione le accoglie. Si tratta della strategia dell’eikasmós, della rappresentazione, a scopi profilattici, degli effetti devastanti della passione (lo stesso, del resto, faceva Crisippo con le tragedie di Euripide). Così, per quanto riguarda la dinamica e il danno di un amore non razionale, egli nella tragedia Fedra ci mette a parte della vicenda della moglie di Teseo, che si innamora perdutamente del figliastro Ippolito. Potrebbe trattarsi di una semplice phantasía, destinata a essere rifiutata dalla ragione, ma Fedra se ne lascia lusingare, attratta dal brivido dell’incesto e dal piacere che le deriva dal fatto di vincere passo dopo passo le proprie paure. Il tarlo dell’amore la invade a poco a poco, la rende folle: infine, approfittando dell’assenza del marito (in viaggio agli Inferi dove si è recato per riportare Proserpina sulla terra), la donna decide di dichiararsi a Ippolito, cominciando col rifiutare l’appellativo di madre con cui egli, in segno di rispetto, era solito chiamarla. Ecco le sue parole:

FEDRA Quello di madre è un nome solenne, troppo importante: un nome più umile si adatta meglio a quello che sento. Chiamami sorella, Ippolito, o schiava, sì, schiava è meglio. Per te sopporterò ogni prova. Se tu me lo chiedessi, attraverserei le alte nevi, calcherei i gioghi ghiacciati del Pindo; se tu me lo ordinassi, non esiterei a passare attraverso i fuochi e le schiere nemiche, offrendo il mio petto alle spade sguainate. Prendi il potere e tienimi come una schiava: il regno non fa per una donna. Tu invece, che hai il fiore primaverile della gioventù, reggi da forte i tuoi sudditi col potere di tuo padre; proteggi una supplice, la tua schiava, dopo averla presa tra le tue braccia; abbi pietà di una vedova.

Fedra 609-623; trad. M. Menghi
“Schiava” della passione, “vedova”, non solo del marito che spera non ritorni più dal suo viaggio, ma anche della ragione, Fedra è disarmata di fronte al proprio male e destinata a una fine orrenda. Al rifiuto sdegnato di Ippolito, seguono infatti l’ira di Teseo finalmente tornato, le menzogne della moglie che accusa il figliastro di aver tentato di sedurla, la maledizione del padre sul figlio, la tragica morte di costui e infine il suicidio di Fedra. Come l’ira, l’invidia, o il desiderio di potere e di ricchezza, anche la passione d’amore “ammala” l’anima nello stesso modo in cui gli agenti patogeni ammalano il corpo. La passione è dunque malattia.
È il caso di soffermarsi brevemente sulla natura delle phantasíai, oggetto di tanta attenzione da parte degli stoici. A differenza dei simulacra epicurei, che entrano nell’anima del soggetto indipendentemente dalla sua volontà e ne stimolano il desiderio amoroso, l’accogliere o il rifiutare le phantasíai implica per gli stoici un atto volontario, dunque una precisa responsabilità morale, conseguenti al giudizio che la ragione esprime su di esse. Anche lephantasíai erotiche non sono altro che l’oggetto del desiderio di comprensione-possesso che deriva dall’assensio dato a esse dalla ragione. Ma tale desiderio diventa tutt’uno con i suoi desiderata, per il fatto di essere speranza, attesa, anticipazione del godimento di una determinata phantasía. Desiderare è possedere in anticipo, come dice il Vangelo di Matteo (5, 28): «Chi guarda una donna per desiderarla, ha già commesso adulterio con lei nel suo cuore». Il soggetto è insomma attivo e responsabile in questo processo, e non più passivo come chi per Lucrezio è visitato ed eccitato dai simulacra di corpi seducenti.


La critica di Lucrezio all’eros

di M. Menghi – M. Gori, Voces. Lucrezio (pp. 138-143)

Riprendendo le critiche già avanzate da Epicuro e tendenti a evitare i piaceri non necessari, Lucrezio si deve confrontare con una tradizione di segno opposto e con l’esperienza anticonformista dei poetae novi e della loro morale libera. Ne esce una satira violenta contro le lusinghe dell’amore e per certi versi il ritorno alla serietà della morale tradizionale.

1. L’EROS PLATONICO E L’AMORE-PASSIONE DELLA TRADIZIONE LIRICA
1.a. L’amore nei dialoghi platonici
Un’ampia sezione del libro IV del De rerum natura è dedicata alla passione amorosa e ai suo effetti devastanti sull’equilibrio psichico dell’uomo. Lucrezio ci offre in questo libro l’analisi “clinica” e la relativa terapia di una condizione che egli considera appunto patologica.
Una visione così pessimistica si doveva confrontare nell’antichità con idee e concezioni filosofiche sull’amore di natura completamente differente. La più nota di queste concezioni è la dottrina platonica, che riserva all’amore un’appassionata celebrazione. Il dialogo platonico nel quale è esposta questa concezione è il Simposio: il filosofo “mette in scena” un banchetto in cui alcuni dei più famosi personaggi della vita politica e culturale ateniese del V secolo a.C. pronunciano a turno un elogio di Eros, considerato dalla tradizione religiosa come un dio antico e potente. L’intervento più originale è senza dubbio quello del grande poeta comico Aristofane (vissuto tra il V e il IV secolo a.C.), che inventa un mito per spiegare la reciproca attrazione tra gli amanti e il loro desiderio di unirsi e di fondersi in un’unica entità.
Aristofane racconta che originariamente gli uomini erano costituiti da due metà, l’una maschile, l’altra femminile, oppure da due parti, entrambe dello stesso sesso. Tali creature primitive furono punite da Zeus per la loro sfrontatezza e tagliate in due per diminuire la loro forza. Da quel momento ciascuna metà desidera ardentemente di riunirsi con l’altra parte di se stessa per ricostruire l’unità originaria.

PLATONE
Dunque da così tanto tempo è connaturato negli uomini il reciproco amore degli uni per gli altri che ci riporta all’antica natura. Ciascuno di noi, pertanto, è come una contromarca di uomo, diviso com’è da uno in due, come le sogliole. E così ciascuno cerca sempre l’altra contromarca che gli è propria.
(Simposio 191c-d; trad. G. Reale)

LUCREZIO
Ma spesso la donna è sincera e mentre ricerca M insieme col maschio la gioia suprema lo sprona a toccare la meta d’amore. Altrimenti gli uccelli, gli armenti, le belve; le piccole bestie e le grandi e vacche e cavalle non potrebbero al maschio piegarsi e giacere se non le bruciasse d’amore natura e non fosse per loro una gioia l’assalto del maschio. Non vedi le coppie, legate a mutuo piacere, come soffrono strette nei ceppi comuni?
(De rerum natura IV, 1195-1204; trad. E. Cetrangolo)

La posizione di Aristofane non coincide tuttavia con quella di Platone. Dopo gli elogi di Eros degli altri commensali prende la parola Socrate, portavoce dell’autore. Il maestro di Platone sostiene che Eros non è un dio, perché altrimenti possederebbe già bellezza e bontà; piuttosto è un demone, che aspira a possederle. Egli si rivela dunque filosofo in quanto desideroso di quella sapienza che ancora non gli appartiene.

PLATONE
La giusta maniera di procedere da sé o di essere condotti da un altro nelle cose d’amore è questa: prendendo le mosse dalle cose belle di quaggiù, al fine di raggiungere il Bello, salire sempre di più, come procedendo per gradini, da un solo corpo bello a due, e da due a tutti i corpi belli, e da tutti i corpi alle belle attività umane, e da queste alle belle conoscenze, e dalle conoscenze procedere fino a che non si pervenga a quella conoscenza di null’altro se non del Bello stesso, e così giungendo al termine, conoscere ciò che è il Bello in sé.
(Simposio 211 b-c; trad. G. Reale)

Nella concezione platonica dell’eros l’amore filosofico è indubbiamente superiore all’amore sensuale. Quest’ultimo però non rappresenta un ostacolo per la sapienza, ma in base al principio platonico dell’imitazione esso deve essere considerato un’immagine dell’eros spirituale: entrambi conducono a quella “generazione nella bellezza” che esprime un desiderio di immortalità, una tensione verso il sovrasensibile. Una lettura consigliata potrebbe a questo punto essere il Fedro di Platone, dove le idee sull’amore sono inserite in un meraviglioso quadro che tratta della sorte dell’anima.

1b. La tematica amorosa nella letteratura dell’età di Lucrezio: Catullo
Alcuni studiosi hanno ravvisato elementi epicurei nello spirito di freschezza e di novità della poesia dei poetae novi e soprattutto nell’anticonformismo della loro esperienza di vita: il culto per la poesia leggera, il gusto del lepos - che come si sa è termine riferito al fascino di Venere e alla grazia dello stile che compare nel proemio del De rerum natura (I, 15 e 28) e nella dedica a Cornelio Nepote del Liber di Catullo (I, 1) -, il culto dell’amicizia, il disinteresse per la dimensione pubblica dell’esistenza unito al disprezzo per la fama, la gloria militare, le ricchezze ottenute a costo di gravi rischi. Tuttavia l’amore come esperienza totalizzante che non va evitata, ma che assume anzi il carattere di una vera e propria ragione di vita, l’elemento fondamentale dell’esperienza neoterica, bastava a segnare la distanza con il pensiero degli epicurei e a costruire un’immagine completamente diversa, e per certi versi meno tradizionale, dell’eros. A questa nuova concezione contribuivano essenzialmente due elementi: da un lato la nascita della dimensione dell’otium, cioè della vita privata, a spese delle pubbliche virtù del mos maiorum, dall’altro una parziale emancipazione sociale, economica, giuridica e sessuale delle donne dei ceti elevati. Come Lesbia appunto.
La vicenda poetica ed esistenziale di Catullo è in questo senso esemplare. Leggiamo due passi emblematici: nel primo il poeta rivolge un’accorata preghiera agli dèi perché lo liberino dal tormento della passione; nel secondo, la chiusa della traduzione-rielaborazione della più famosa ode di Saffo (fr. 31 Lobel-Page), constata amaramente la causa dei suoi mali:

CATULLO
O dei, se è vero che siete misericordiosi, o se mai proprio in punto di morte avete recato a qualcuno l’aiuto supremo, volgete lo sguardo su me infelice e, se sono vissuto senza colpa, strappatemi dal cuore questo male che mi conduce a rovina [...]
Sono io che voglio guarire e liberarmi da questo male oscuro. 0 dei, fatemi questa grazia in cambio della mia devozione.
(carme LXXVI, 17-20; 25-26; trad. F. Della Corte)

L’ozio, o Catullo, ti è molesto:
a causa dell’ozio ti esalti e troppo ti agiti:
l’ozio ha perso regni e città
un tempo felici
(carme LI, 13-16; trad. F. Della Corte)


2. L’ANTIEDONISMO DELLA TEORIA DEL PIACERE DI EPICURO E IL RITORNO ALLA MORALE TRADIZIONALE IN LUCREZIO

2a. L’antiedonismo della teoria epicurea del piacere
Epicuro aveva classificato i piaceri in tre categorie: 1) naturali e necessari; 2) naturali ma non necessari; 3) né naturali né necessari. In questo quadro l’amore carnale era collocato all’interno della seconda categoria: esso è, per Epicuro (Epistola a Meneceo 132, vedi p. 134) un ostacolo all’atarassia in quanto fonte di turbamento e di continua inquietudine. Lo stesso amplesso veniva ritenuto da Lucrezio, in una realistica rievocazione (De rerum natura IV, 1077 e ss., vedi punto la.), fonte di un piacere incompleto e illusorio; per Epicuro poi l’atto sessuale poteva essere addirittura dannoso. Dalla condanna non si salva neppure l’amore coniugale: il saggio infatti deve preferire al matrimonio quell’amicizia nella quale il filosofo indicava uno dei valori più alti. E un atteggiamento antiedonistico che entra in conflitto con l’immagine vulgata del piacere epicureo.
Una testimonianza in tal senso ci viene da Diogene Laerzio (III secolo d.C.) nella sua opera sulla vita e la dottrina dei filosofi antichi:

DIOGENE LAERZIO
Gli epicurei ritengono che il saggio non debba innamorarsi [...]. Sostengono che l’amore non è mandato dagli dei [...]. Sostengono che l’amplesso non giova mai, c’è da contentarsi che non nuoccia. Il saggio non dovrà sposarsi né avere figli, come dice Epicuro nei Casi dubbi e nei libri Sulla natura; se si sposerà lo farà solo in circostanze particolari della vita; in certi casi poi se ne asterrà di proposito.
(Vite dei filosofi X, 118 e 119; trad. M. Isnardi Parente)

2b. Il piacere erotico come illusione in Lucrezio
In versi celebri Lucrezio smonta l’enfasi neoterica per l’amour-passion svelando gli inganni e le civetterie delle donne (De rerum natura IV, 1155-1169) e procedendo a un ribaltamento sistematico di tutti i tópoi della lirica d’amore, soprattutto il motivo del servitium amoris (IV, 1052-1057). Il piacere amoroso si rivela illusorio perché Venere inganna gli amanti insinuando nell’amante i simulacra della persona amata; si genera il desiderio che, contrariamente alla legge di natura e a quanto affermano i poeti d’amore, non è placato dalla presenza della persona amata, ma fa ardere il petto di feroce passione (dira cuppedine, IV, 1090). La perdizione fisica ne è la conseguenza. Un ultimo argomento contro l’amore viene preso dalla morale tradizionale romana: l’illusione d’amore conduce l’infelice amante alla rovina economica, e con le sostanze della famiglia se ne va anche la fama. È meglio quindi dimenticare qualsiasi idea romantica dell’amore e considerarlo, come vuole il maestro Epicuro, solo un piacere naturale non necessario, da soddisfare con una sessualità “fisiologica”, lontana da qualsiasi complicazione affettiva.
Dopo che si è evidenziato per entrambi una sorta di ritorno alla tradizione, è da notare un’ultima convergenza tra Lucrezio e Catullo, due poeti per molti lati così lontani. Nel poeta epicureo l’ansia di diffondere l’insegnamento del maestro o la disillusione per i vani atteggiamenti degli uomini lo riporta a volte a cullarsi nell’etica tradizionale e nell’ossequio al passato; nonostante il rifiuto dell’età dell’oro, per esempio, Lucrezio idealizza la vita “naturale” dei primi uomini, lontani dal progresso ma anche dal vizio. Allo stesso modo il Catullo disilluso dei carmi del discidium, del distacco da Lesbia, si aggrappa disperatamente al concetto religioso di fides mutuato dal mos maiorum e giunge a interpretare il suo rapporto con la donna nei termini altrettanto sacri del matrimonio. Non è un caso che anche Lucrezio concluda la digressione sull’amore dando un quadro positivo della vita affettiva nel rapporto tra un uomo e una donna in cui la consuetudo ha sostituito la passione amorosa: sembra di cogliere un’affinità tra la serenità del vincolo matrimoniale e il valore dell’amicizia, unica fonte di piacere nelle relazioni umane.
Confronta il seguente testo di Lucrezio sull’amore coniugale con le idee del maestro, mediate dal commento di Cicerone, che nel corso del ragionamento sembra essere dalla parte della visione fisiologica del sesso, come pura attrazione, propria di Epicuro. Forse almeno in questo punto Lucrezio si stacca da lui.

LUCREZIO
Non è per influsso divino né per le frecce di Venere che a volte si ama una donna di poca bellezza. La femmina stessa talvolta, con modi gentili e modesti, col nitore del corpo, può indurti a trascorrere i giorni, la vita, con lei. L’abitudine poi produce l’affetto [...].
(De rerum natura IV, 1278-1283; trad. E. Cetrangolo)
CICERONE
Veniamo ai maestri di virtù, ai filosofi, che dicono che l’amore non ha niente a che fare con la libidine, e in ciò disputano con Epicuro, che, a mio avviso, non è poi tanto in errore. Che cos’è infatti codesto amore dell’amicizia? Perché nessuno ama un giovane brutto né un vecchio bello?
(Tusculanae disputationes IV, 70; trad. G. Burzacchini e L. Lanzi)
Postato l'11 febbraio 2011