Su gentile richiesta di un lettore, riporto una piccola antologia di brani tratti da Léo Moulin, La vita degli studenti nel medioevo (trad. it. Jaca Book, Milano 1992), che avevo predisposto tempo fa per un altro sito. Il volume si compone di tre ampie sezioni: la prima è dedicata appunto agli studenti (tra gli argomenti affrontati: la vita comunitaria, il piano di studi delle diverse facoltà, l’organizzazione delle lezioni, i tempi di vacanza e di svago, la fatica degli esami, i riti di laurea e di addottoramento, etc.), la seconda ai maestri (con gustosissimi aneddoti), la terza al funzionamento complessivo delle strutture universitarie medievali, dal rettore al bidello (con qualche nota sui momenti di tensione e di crisi). Spero con ciò di invitare a una lettura integrale del libro.
Sull’origine e gli scopi dell’università: «L’università è una creazione del medioevo, nata dalla sua visione dell’uomo, della natura e di Dio. Qualcosa di esplicito, di originale nella storia delle civiltà quanto per esempio il canto fermo e la musica polifonica. Tutte le grandi civiltà hanno le loro liturgie e le loro cattedrali, i loro santi e i loro vangeli. Tutte hanno il senso del sacro e del religioso. Tutte hanno dato prova della loro creatività artistica, intellettuale e spirituale. Ma solo la civiltà europea del medioevo ha fondato delle università, da Bologna a Cracovia, da Parigi a Toledo, da Oxford a Uppsala. Nel 1600 si contano più di cento università nel mondo: tutte sono racchiuse nell’area socio-culturale dell’Europa [...]. Non è un caso. Infatti l’università è il frutto di un immenso slancio dell’intera società medievale […]. Nella bolla che emana, nel 1388, per esprimere il proprio consenso alla fondazione dell’università di Colonia, il papa Urbano VI scrive che gli obiettivi principali della nuova istituzione saranno quelli di diffondere la scienza per scacciare le nubi dell’ignoranza (“scientia per quam pelluntur ignorantiae nubila”), di porre gli atti e le opere “in lumine veritatis”, alla luce della verità, e infine ciò che definisce la missione sociale dell’università: essa dovrà essere utile “tanto alla comunità quanto ai singoli” (“tam publica quam privata res geritur utiliter”) e “accrescere il benessere degli uomini” (“prosperitas humanae conditionis augetur”)» (pp. 5-6).
Sui rapporti con l’Inquisizione: «Il nostro studente ha tremato, giorno e notte, davanti ai fulmini dell’Inquisizione? È ben lontano dall’averlo fatto. Ha tremato anche solo una volta? Bisogna ignorare l’insolenza dei fedeli riguardo al potere ecclesiastico, per crederlo. L’Inquisizione svolge la sua azione secondo regole giuridiche assai precise. Esse esigono in particolare che l’accusatore fornisca le prove di ciò che denuncia […]. Il nostro studente, per quanto fosse audace, non aveva nulla da temere, anche tenuto presente che la libertà accademica era pressoché totale: bisognava spingersi molto lontano, fino alla provocazione, per essere richiamati all’ordine […]. Il Parlamento e gli altri tribunali laici, per parte loro, condannavano raramente alla prigione. Nella maggior parte dei casi, bastavano ammende, peraltro spesso considerevoli, da versarsi al re o alla parte lesa» (pp. 9-10).
Sulla libertà di ricerca: «L’università è anche considerata e considera se stessa come il luogo per eccellenza di una totale libertà di pensiero. Col pretesto di porre un problema che merita di essere discusso, fosse anche per il semplice desiderio di esercitare la mente, non ci sono questioni fondamentali per la Fede che non siano state in essa discusse fin nelle loro ultime conseguenze. Basta leggere le condanne che si abbattono su alcuni per convincersene. Poche società hanno rimesso in discussione a tal punto i propri fondamenti […]. L’università di Padova protegge a tal punto il professore Pietro di Abano, accusato di stregoneria, che l’Inquisizione non può bruciarlo sul rogo se non dopo la sua morte. John Wycliffe (1324-1384), professore a Oxford – che aveva fatto proprie, riguardo al governo della Chiesa, le posizioni di Marsilio da Padova (1275-1343) e di Guglielmo d’Occam, francescano inglese, aveva messo in discussione la dottrina tradizionale dell’eucaristia, attaccato il papato, il sacerdozio e i religiosi, criticato la devozione ai santi, denunciato la ricchezza della Chiesa, con una violenza raramente raggiunta nel campo delle polemiche religiose –, morì pacificamente nel suo letto. La sua dottrina è all’origine di movimenti sociali violenti, come quello dei Lollardi, e Jan Hus ha subito il suo influsso» (p. 145).
Sulla pedagogia e il “razionalismo” medievali: «Con il suo alternarsi di lezioni mattutine, inizialmente ex cathedra, di ripetizioni e di verifiche del sapere, di discussioni e di dispute destinate ad acuire lo spirito critico, in cui i contatti intellettuali tra il maestro e i suoi allievi sono intimi e vibranti, la pedagogia medievale sarà, tutto sommato, durante i due secoli del suo apogeo (XII e XIII) di notevole efficacia […]. Un vademecum anonimo del 1230-1240 serve da guida al nuovo pupillo di un maestro parigino. Vi si trovano menzionati Prisciano e Donato per la grammatica; Cicerone, De inventione, per la retorica; Aristotele (sei trattati), Boezio, Porfirio e il Liber sex principiorum per la logica; Tolomeo e l’Almagesto per l’astronomia; Euclide per la geometria; Boezio per l’aritmetica e la musica; infine, per la metafisica, la fisica, le scienze naturali e la morale, Aristotele (con dodici trattati), il Liber de causis e il De motu cordis, Cicerone e ilDe officiis, Platone e il Timaeus, Boezio e il De consolatione. Non si deve giudicare la pedagogia medievale sul suo contenuto, ma sul suo modo di formare gli spiriti e di offrire loro larghi spazi di libertà intellettuale. Libertà così grande e così reale che finirà per rendere possibile la propria ridefinizione e soprattutto l’analisi delle verità religiose più indiscusse. Infatti è proprio all’interno di un sistema che era ben lontano dall’essere chiuso (esso ricerca e assimila volentieri gli apporti giudaici e arabi) che, sotto le spoglie di tecniche della disputatio, si sono sviluppati sistemi di pensiero ortodossi ma contraddittori, marginali ma precursori del pensiero moderno».
Sulla composizione sociale degli studenti: «Non è facile determinare le origini sociali degli studenti. Alcuni criteri puramente geografici possono indicare tanto una capanna che un maniero (e chi proviene da una capanna può avere delle ragioni per non dirlo). Provenire da un ambiente urbano non significa necessariamente appartenere a un ambiente agiato […]. Il New College (Oxford) fornisce le seguenti cifre per il periodo che va dal 1380 al 1500: “figli di contadini”: più del 61% degli studenti (il cui totale ammonta a poco più di un migliaio); “borghesi e artigiani”: circa il 18%; “piccola nobiltà”: 8,4%; “aristocrazia”: 0,6%. Il numero degli studenti di origine rurale è dunque nettamente superiore a quello degli studenti di origini urbane» (p. 115).
Sull’accoglienza riservata agli studenti più poveri: «Il papa Urbano V manteneva, come sembra, 1400 borsisti. A chi gli faceva qualche obiezione riguardo alla sua eccessiva generosità, egli rispondeva innanzitutto che un buon numero dei suoi “protetti” non diventavano preti, ma padri di famiglia, per i quali, anche se dediti a lavorare la terra, gli studi avrebbero avuto effetti benefici […]. Ma le borse di studio non furono le sole forme di aiuto agli studenti poveri [circa un quarto del totale degli studenti usufruiva di una borsa, secondo una media europea]. La società medievale si ingegnò a moltiplicare le vie di accesso all’università offerte ai figli delle classi proletarie. Il papa Gregorio IX concede un’indulgenza di 40 giorni ai “benefattori” che finanziano le spese di alloggio, se occorre negli ospedali, degli studenti poveri (1233). A Tolosa il gesto viene considerato come un obbligo di coscienza. Si raccolgono così 56 letti di legno, 52 materassi di paglia e 49 di piuma. Il papa Innocenzo IV ingiunge nel 1245 al vescovo di questa città di provvedere all’alloggio dei “poveri scolari” e di vegliare che essi siano accolti caritatevolmente, in locali “extra viam publicam”, per garantire loro il massimo della tranquillità (e, senza dubbio, per poterli meglio sorvegliare)» (pp. 54-55).
Sulla crisi degli alloggi: «Nelle città universitarie ben presto la domanda superò l’offerta […]. Infatti, se nel 1155, a Bologna, gli studenti dicono ancora di trovare alloggio nel centro della città, fin dal 1189 il papa Clemente III scrive al vescovo di Bologna perché intervenga per frenare il rialzo dei prezzi e per far rispettare l’uso secondo il quale una camera, una volta affittata a uno studente, sia per sempre destinata a questo uso» (p. 15).
Sulle abitudini e gli svaghi degli studenti: «Se ci si attiene ai regolamenti dei collegi e ai sermoni dei moralisti, lo studente modello pratica ogni giorno le seiopera scholarium, e cioè: levarsi di buon mattino, vestirsi, pettinarsi, lavarsi le mani, recitare le preghiere e andare con gioia a scuola. È impegnato, studioso, obbediente, casto e serio. Non gioca a scacchi e non fa sport». Ma le regole, si sa, son fatte per essere infrante. Anzi, se vi sono regole è il segno evidente che qualcuno è solito trasgredirle. Così, non senza ironia, Moulin cita un Manuale del perfetto studente (1495), che elenca appunto «ciò che è proibito allo studente», ovvero ciò che lo studente, probabilmente, faceva quasi di norma: «star fuori la notte (che comincia alle 20 in inverno e alle 21 in estate), giocare alla domenica con dei laici, nuotare al lunedì, bighellonare al mercato il mercoledì, non assistere al mattutino, sonnecchiare durante la messa, mancare ai vespri, picchiare i bambini, sporcare i libri quando si canta l’ufficio, incitare al disordine, dire stupidaggini (“insanias”), spezzare alberi, disturbare il boia mentre esegue i suoi doveri, recitare commedie nelle chiese e nei cimiteri…» (pp. 24-25).
Sulla disperazione dei genitori, attraverso le lettere private: «Borbottano: “Tu perdi il tuo tempo a gironzolare a cavallo per la città”, “a giocare a dadi” (gioco generalmente proibito agli studenti), “a carte o a pallacorda”, “ti sei comprato un cane e vai a caccia”, “spendi il tuo denaro in vestiti regali, in morbide pellicce”, dimostri “la tua grande mattezza”. O ancora: “Ho saputo, non dal tuo maestro (precisazione fatta, senza alcun dubbio, su richiesta del maestro stesso), ma da alcune persone di fiducia, che tu non studi seriamente, che ti diverti a suonare la chitarra, che frequenti luoghi sconvenienti (meretricia frequentando)” […]. A volte il padre spiega: “Sono meno ricco di quanto tu creda”, “anche le tue sorelle hanno diritto…”, “la vigna non ha dato nulla quest’anno” […]. Severa risposta di uno studente: “Chi resta a casa giudica gli assenti come vuole, mentre è a tavola, mangiando di buon appetito marmitte di carne e pane a sazietà, dimenticando completamente chi, sottomesso alle dure regole della scuola, è oppresso dalla fame, dalla sete, dal freddo e dalla nudità”. Talvolta la ramanzina paterna assume un tono patetico: “I tuoi genitori sono ormai pieni di pena e degni di pietà… tu accorci la loro vita…”» (p. 101).
Sugli alquanto vivaci rapporti tra le Nazioni: «Tutta l’Europa viene messa alla berlina dall’Europa stessa. È ovvio che ogni Nazione abbia delle buone ragioni per combattere con ardore le altre Nazioni – di preferenza le più vicine. Per i polacchi, i mazoviani hanno la caratteristica di essere nello stesso tempo sempliciotti e intriganti. Gli inglesi criticano i normanni frivoli e millantatori, i tedeschi furiosi e osceni, i borgognoni stupidi e collerici. A Parigi, secondo Giacomo di Vitry (1180-1240), i tedeschi sono detti ladri e lenoni, gli inglesi ubriaconi e codardi, i francesi (d’Ile-de-France) superbi ed effeminati, i bretoni volubili e indecisi, quelli di Poitiers traditori e “cortigiani della fortuna”, i borgognoni grossolani e sciocchi, i lombardi avari e maliziosi, i romani sediziosi e violenti, i siciliani tirannici e crudeli, i normanni fatui e orgogliosi, i fiamminghi prodighi ed epuloni, i brabantini incendiati e ladri. I tedeschi sono dipinti dai cechi come “lupi nell’arena, mosche nel piatto, serpenti sul petto e puttane nei bordelli”. “È più facile che un serpente si scaldi nel ghiaccio, che un ceco auguri del bene a un tedesco”. Per i boemi, i teutoni nascono “de culo Pilati” (occorre tradurre?), mentre essi stessi provengono “de corpore Christi”…» (pp. 118-119).
Sulle intemperanze di certi maestri: «L’università di Cracovia denuncia il vizio di ubriacarsi (“detestabile vitium ebrietatis”) di certi professori, in occasione di uscite notturne (“occasione nocturnae vagationis”), accompagnate da schiamazzi che disturbano gli abitanti della città (“inquietationis hominum”). Il maestro che si comporta in tal modo perderà il suo salario (“suspenditur a salario et lectura”). Se persevera, ogni possibilità di carriera (“ascensus”) gli sarà preclusa. Si può arrivare fino alla scomunica» (p. 161).
Sull’uso della lingua latina: «La lingua comune a tutti gli studenti, in tutte le università d’Europa, è il latino (questo spiega la facilità con cui, e talvolta con il minimo pretesto, maestri e allievi passano da un’università all’altra). È la lingua della Chiesa e di ogni élite intellettuale […]. I maestri del XV secolo – questa volta siamo in Sassonia – avevano inventato un gioco (“discretio magistralis”) in cui vi era un asino che parlava tedesco (ma quale tedesco?), dunque non come un essere razionale (“velut homo rationalis”), il quale, evidentemente, parlava latino. Gli abitanti di Bologna, esasperati dalle ripetute stravaganze degli studenti, si gettano all’assalto delle loro case, urlando: “Exite foras, ribaldi”, “Uscite, mascalzoni” […]. Gli scolari che avevano a che fare con le guardie, con gli osti e le prostitute, conoscevano il dialetto locale? È lecito dubitarne. Si dice che gli stessi mendicanti e vagabondi conoscevano sufficientemente il latino per esercitare il loro mestiere. Si cita poi il caso del papa Giovanni XXII (di Cahors), il quale, dopo aver studiato a Parigi e a Orléans, dovette farsi tradurre una lettera del re Carlo IV (1294-1328) scritta in francese» (p. 129).
Sulla “disputatio”: «I corsi iniziavano con una lezione pubblica (principium) che era inframmezzata da “dispute” (disputatio temptatoria) incentrate su diversi temi delle Sentenze [raccolte da Pietro Lombardo], seguite da una “disputa generale su un qualsiasi argomento” (“de quodlibet”) e proposta da “chiunque”, in cui l’estro aveva libero sfogo. Poiché si dava per acquisito il sapere, restavano la sottigliezza dell’analisi, la sua profondità, la sua intelligenza e anche la maniera, più o meno brillante, di difendere la tesi proposta alla riflessione. Nessuno poteva essere ammesso a un esame preparatorio alla licenza se non aveva frequentato dispute di maestri per un anno “o per la maggior parte dell’anno” e partecipato “attivamente” (“respondebit”) a due dispute, in presenze di qualche maestro (statuto di Parigi, 1366). Altre “dispute” avevano luogo nel pomeriggio (le “meridiane”) o anche alla sera (le “vespertine”). Il successo di queste disputationes era grande. Ci vengono descritti ascoltatori appassionati che assistono alle finestre. A Parigi sono pressoché giornaliere. Un cronista arriva a scrivere che Parigi è simile a “un alveare di api industriose, avide di sapere”, che sono attive “notte e giorno”. A Padova si proibisce agli studenti di far rumore durante le “dispute”, di intervenire contro i disputanti o i loro avversari, di accordarsi con l’uno o con l’altro di loro prima del dibattito» (pp. 140-141).
Sui cattivi e sui buoni maestri: «Giovanni di Salisbury, vescovo di Chartres (XII secolo), condanna i maestri che “ottundono le facoltà intellettuali dei loro studenti, cercando di dar prova della propria erudizione”. Sfortunatamente, egli aggiunge, vi sono insegnanti i quali vedono nella dialettica soltanto dei giochi di parole e, in realtà, non sono altro che degli sciocchi che argomentano col solo scopo di argomentare. Daniele di Mornay, un altro inglese, prende in giro i silenzi, la gravità, il sussiego di certi maestri. Tutto ciò, egli dice, non è altro che il mantello che ricopre la loro ignoranza, la quale appare, in tutto il suo infantilismo, non appena aprono la bocca […]. Ecco quali saranno le domande che Dio farà al maestro, quando questi si presenterà davanti a lui [secondo un Manuale di iniziazione alla vita universitaria, redatto da Martino da Fano, nel 1255]: “A qual fine hai studiato?”, “Come hai ‘letto’ (insegnato)?”, “Come hai pregato?”, “Come hai ‘disputato’?”, “Sei stato zelante?”. Anche perché “non è la toga che fa il dottore, né la berretta, né la posizione più elevata” che egli occupa, dice un altro testo latino; ciò che fa il dottore è contemporaneamente il suo sapere e il suo modo di trasmetterlo, “ad utilitatem auditorum”, per essere utili a coloro che ascoltano» (pp. 149-151).