di Salvatore Caggegi
Tratto da Il Foglio del 16 marzo 2011
"Lisbona è distrutta e a Parigi si balla”. Così, a caldo, solo pochi giorni dopo il catastrofico terremoto che aveva raso al suolo Lisbona, gridava Voltaire, il grande filosofo dell’illuminismo. Era il dicembre del 1755, la capitale del Portogallo e del grande impero portoghese era stata devastata il primo novembre da un terremoto stimato in magnitudo nove, analogo proprio a quello che ha colpito nei giorni scorsi il Giappone, e da uno spaventoso maremoto che aveva provocato vittime e macerie in Europa e Africa. A Lisbona erano crollati ottanta edifici su cento ed erano morte oltre sessantamila persone su una popolazione di duecentomila.
François-Marie Arouet “Voltaire” nel 1755 aveva 61 anni, e la sua vita era stata già contrassegnata da arresti e fughe, punizioni ed effimere riabilitazioni a causa del suo pensiero libero, che metteva in discussione, spesso con sarcasmo, le credenze e le istituzioni assolutiste del Settecento in Francia. Un uomo maturo e ricco di esperienza, dunque. Eppure la tragedia di Lisbona lo colpisce come un pugno in faccia, e d’impeto, non appena venutone a conoscenza, scrive un appassionato “Poema sul disastro di Lisbona”, denso di invettive nei confronti della filosofia prevalente del tempo, quella dell’ottimismo religioso espressa nella “Teodicea” da un altro grande scienziato e pensatore come Gottfried Wilhelm von Leibniz. Un ottimismo riassunto nell’assioma che “tutto è bene” e che l’umanità vive “nel migliore dei mondi possibili”, rigettato da Voltaire, il quale chiede come si possa così definire un mondo in cui accadono tragedie come quella di Lisbona, nella quale soffrono e muoiono anche bambini innocenti. E si chiede ancora con furore, contestando anche la lettura delle catastrofi naturali come punizioni divine, perché proprio Lisbona, mentre vengono risparmiate altre città: “La Lisbona che fu ebbe maggiori vizi di Parigi e di Londra, immerse nei piaceri?”.
Una polemica a cui non poteva rispondere Leibniz, morto da decenni, ma che aprì una disputa filosofica, scientifica e anche politica destinata ad avere un grande influsso sull’approccio alla religione, all’uomo, alla natura, alla visione del mondo. Una polemica a cui parteciparono i più grandi pensatori europei del tempo, a partire da Jean-Jacques Rousseau e Immanuel Kant, fino a Giacomo Leopardi.
Un dibattito appassionato, con al centro uomini, convinzioni e idee che risalivano alla fine del Seicento e che andò avanti fino ai primi decenni dell’Ottocento, contribuendo anche alla nascita dell’analisi scientifica e della sismologia e all’affermarsi del senso della responsabilità dell’uomo rispetto alla Terra, indipendentemente dalla fede. E in effetti, è opinione prevalente tra gli storici che il terremoto di Lisbona rappresenti uno spartiacque da cui nasce l’epoca moderna, proprio grazie a Voltaire e ai suoi scritti. Dopo Voltaire, in sostanza, nessuno potrà più guardare a una catastrofe naturale con gli stessi occhi di prima. Una tappa della storia come altre che hanno segnato il mondo moderno, costringendo gli uomini a ripensare il concetto di umanità e di società, dall’Olocausto all’undici settembre fino al terremoto di Honsu dei giorni nostri.
Prima del terremoto di Lisbona si erano verificate altre grandi e analoghe tragedie, che però non avevano avuto l’eco di quello portoghese: nel 1699 un sisma in Cina aveva provocato la morte di ben quattocentomila persone, e sempre in Europa, nel 1693, un terremoto aveva distrutto Catania e altri quarantacinque centri abitati in Sicilia orientale causando un numero di morti analogo a quello di Lisbona (sessantamilamila).
Probabilmente, il terremoto di Lisbona ebbe una grandissima risonanza, oltre che per le prese di posizione di Voltaire, anche per il momento storico in cui era avvenuto, che vedeva uno sviluppo notevole della comunicazione e della circolazione di idee, fenomeni che si innestarono sull’impressione fisica prodotta dal terremoto in molti stati europei: il sisma infatti venne avvertito in paesi vicini come Spagna, Marocco, Inghilterra, ma anche in luoghi lontani come la Finlandia e perfino, secondo alcune fonti, in Groenlandia e nelle Antille. L’epicentro è stato stimato essere nell’oceano atlantico, a circa duecento chilometri dalla costa sudoccidentale del Portogallo: fatto che ha provocato un maremoto con onde di marea alte fino a venti metri, che devastarono le coste portoghesi e nordafricane. Onde alte tre metri colpirono le coste del sud dell’Inghilterra e dell’Irlanda, e si propagarono, con minore forza, lungo tutto l’Oceano atlantico provocando danni fino alla Martinica.
Per una coincidenza che fece molta impressione a chi riteneva, come il gesuita italiano Gabriele Malagrida, allora a Lisbona, che il terremoto fosse una punizione divina, la scossa devastante avvenne alle 9, 40 del giorno d’Ognissanti, quando in tutta la città le chiese erano piene di fedeli, molti dei quali morirono nei crolli mentre assistevano alla messa. I superstiti raccontarono vicende terribili: crolli, persone intrappolate tra le macerie, grida dei bambini feriti in una totale assenza di soccorsi, in una città immersa in una nube densa di polvere dovuta ai crolli e al fumo delle centinaia di incendi che scoppiarono subito dopo la scossa, mentre l’onda di maremoto avanzava tra le viuzze e le macerie a completare l’opera di distruzione.
Centinaia di persone morirono bruciate vive nell’incendio del più grande ospedale della città, mentre crollavano o bruciavano o venivano spazzati via dalle onde anche le grandi strutture simbolo del potere e della grandezza imperiale, come il Palazzo reale e quello dell’Opera.
Di fronte all’apocalisse di Lisbona, Voltaire ebbe dunque un moto di repulsione verso le teorie di Leibniz e del poeta e scrittore cattolico inglese Alexander Pope, il quale pochi anni prima del terremoto aveva scritto nel suo “Saggio sull’uomo”, riecheggiando il pensiero leibniziano, che “tutto è bene”, esplicitando il concetto anche nell’asserzione secondo cui “Una verità è chiara: qualunque cosa esista, è giusta”.
E proprio a Leibniz e Pope si rivolge Voltaire fin dalle prime righe, accorate e rabbiose, del suo “Poema sul disastro di Lisbona”: “Poveri umani! Povera terra nostra! Terribile cumulo di disastri! Consolatori eterni di inutili dolori! Filosofi che osate gridare: Tutto è bene, venite a contemplare queste rovine orrende: muri a pezzi, carni a brandelli, ceneri infauste. Donne e infanti ammucchiati l’uno sull’altro sotto pezzi di pietre, membra sparse, centomila feriti che la terra divora, straziati, sanguinanti ma ancora palpitanti, sepolti sotto i loro tetti, perdono senza soccorsi, tra atroci tormenti, le loro misere vite”. E dopo essersi rivolto direttamente a loro, ai filosofi “consolatori eterni di inutili dolori”, Voltaire chiede provocatoriamente: “Ai deboli lamenti di voci moribonde, alla vista pietosa di ceneri fumanti, direte: è questo l’effetto delle leggi eterne che a un Dio libero e buono non lasciano la scelta? Direte, vedendo questi mucchi di vittime: fu questo il prezzo che Dio fece pagare per i loro peccati? Quali peccati, quali colpe hanno commesso questi infanti sul seno materno schiacciati e sanguinanti?”. E ancora più avanti, Voltaire insiste con toni sempre più forti e decisi, ma volendo rendere chiaro che la sua furia non è contro Dio, bensì contro chi pretende di interpretarne il disegno: “Tutto è bene, voi dite, tutto è necessario. Ma senza questo baratro infernale, senza inghiottire Lisbona, l’universo sarebbe dunque stato peggiore?”. Nel Poema comincia poi a emergere il pessimismo di Voltaire: “Elementi, animali, umani, tutto è in guerra. Confessiamolo pure: il male è sulla terra, il principio segreto è sconosciuto”. E parlando direttamente di Leibniz: “Leibniz non spiega con quali invisibili fili, nel più ordinato dei possibili universi, un disordine eterno, un caos di sventure, al nostro vano piacere, intrecci dolore reale. Né mi spiega perché come il colpevole anche l’innocente debba subire il male senza scampo. Né capisco perché tutto sia bene: Io sono come un dottore, ahimè, che non sa niente”. Se da un lato attacca Leibniz, Voltaire cita invece come modello un altro filosofo, il francese ugonotto Pierre Bayle, “onore del genere umano”, da alcuni considerato il padre spirituale dell’illuminismo, il quale sosteneva, tra l’altro, la necessità della tolleranza religiosa e dell’uso della ragione nell’interpretazione dei fatti naturali, attirandosi le persecuzioni dell’Ancien Régime. E a lui Voltaire rende omaggio: “Abbandono Platone, rigetto Epicuro. Bayle ne sa più di tutti (…) Bayle insegna a dubitare: saggio e grande abbastanza per non aver sistemi. Li ha tutti distrutti, mettendo in discussione anche se stesso”.
Il Poema ebbe una grandissima diffusione in tutta Europa, con numerose edizioni a stampa. Ma le prime copie manoscritte furono distribuite dallo stesso Voltaire ad alcuni grandi pensatori dell’epoca. Tra loro c’era Jean-Jacques Rousseau, che aveva appena completato il suo “Discorso sull’origine e i fondamenti della diseguaglianza tra gli uomini”. Ma il filosofo ginevrino forse deluse Voltaire, al quale scrisse una lunga lettera contestando duramente l’eccessivo pessimismo del testo e alcune affermazioni relative al ruolo di Dio, inserendo altri concetti “moderni” anche relativi alla responsabilità dell’uomo sulle vicende terrene. “Tutte le mie rimostranze sono rivolte contro il ‘Poema sul disastro di Lisbona’ – scrive Rousseau – perché mi aspettavo da voi un risultato più degno dell’umanità che sembra avervelo ispirato. Rimproverate a Pope e Leibniz di offendere i nostri mali sostenendo che tutto è bene e ingigantite talmente il quadro delle nostre miserie che ne aggravate il peso: invece della consolazione in cui speravo, voi finite col rattristarmi”.
Rousseau dunque, in contrasto con Voltaire, sceglie il versante dove fede e ragione si incontrano in quanto “vi è maggior consolazione e si aggiunge il peso della speranza all’equilibrio della ragione”.
Tuttavia, nella sua lettera, Rousseau introduce anche il concetto della responsabilità degli uomini, in maniera coerente rispetto alla sua visione della società ideale: “Restando al tema del disastro di Lisbona, converrete che, per esempio, la natura non aveva affatto riunito in quel luogo ventimila case di sei o sette piani, e che se gli abitanti di quella grande città fossero stati distribuiti più equamente sul territorio e alloggiati in edifici di minor imponenza, il disastro sarebbe stato meno violento, o forse non ci sarebbe stato affatto. Ciascuno sarebbe scappato alle prime scosse e si sarebbe ritrovato l’indomani a venti leghe di distanza, felice come se nulla fosse accaduto”. Una visione certamente troppo ottimistica vista l’entità del terremoto, ma che attribuisce una responsabilità non più direttamente a Dio o alla Natura, bensì all’organizzazione sociale. Non solo. Rousseau critica direttamente gli uomini, i singoli individui, colpevoli di cupidigia o di stupidità: “Ma si deve restare con ostinazione intorno alle misere stamberghe, esporsi al rischio di nuove scosse, perché quello che si lascia vale più di quello che si può portare via con sé. Quanti infelici sono morti in questo disastro per volere prendere chi i propri abiti, chi i documenti, chi i soldi?”.
Nella diatriba si inserisce anche l’allora giovane filosofo Immanuel Kant, che prende le distanze dalle interpretazioni strettamente teologiche e si rivolge all’uomo e alla scienza, chiarendo che le catastrofi naturali devono indurre l’uomo a non considerarsi il fine unico ed esclusivo dell’universo. Inoltre Kant critica un certo atteggiamento superstizioso verso la religione proprio in un suo scritto sulle cause dei terremoti: “La paura toglie agli uomini la capacità di riflettere”, dice, argomentando che gli uomini “pensano di mitigare le durezze della sorte con un atteggiamento di cieca sottomissione che li porta ad abbandonarsi completamente alla grazia e alla disgrazia”.
Kant non si limitò a criticare l’approccio fatalistico e superstizioso nei confronti dei disastri naturali, ma avviò un progetto di lavoro definibile quasi scientifico: raccolse tutte le informazioni possibili sul terremoto e pubblicò tre saggi sul tema. La sua teoria sui terremoti si basava sulla presunta presenza nel sottosuolo di enormi caverne sature di gas caldi. La tesi venne superata dalle successive scoperte, ma rimane pur sempre il tentativo di approccio scientifico al problema.
L’approccio moderno e scientifico al problema del terremoto venne anche dal primo ministro portoghese Sebastiano de Melo, che ebbe un atteggiamento molto pragmatico nell’affrontare le conseguenze del terremoto: convinse il re Giuseppe I, terrorizzato dall’evento, a non abbandonare il paese, gli suggerì, per prima cosa, di “seppellire i morti e sfamare i vivi”, fece bruciare migliaia di cadaveri per evitare epidemie e in un anno fece ripulire la città dalle macerie e avviò la ricostruzione secondo criteri “anti sismici”. Con ciò attirandosi le ire del gesuita Gabriel Malagrida, fanatico e sedicente profeta, che sosteneva bisognasse lasciare le macerie per terra perché erano il simbolo della punizione divina: “Sappi o Lisbona, che il distruttore delle nostre case, palazzi, chiese e conventi, la causa della morte di tanta gente e delle fiamme che hanno divorato così ricchi tesori, sono i tuoi abominevoli peccati, e non comete, stelle, vapori ed esalazioni, e simili fenomeni naturali”. Malagrida, che aveva anche profetizzato la nascita dell’anticristo in Italia nel 1920, aveva diffuso un libretto con le sue idee sul terremoto e si era dimostrato molto attivo e persuasivo: “E’ scandaloso pensare che il terremoto sia stato solo un evento naturale, perché se questo fosse vero, non ci sarebbe bisogno di pentirsi e cercare di evitare la collera di Dio”. In seguito Malagrida fu sospettato di complicità in un tentativo di uccidere il re, nel 1758. Nel 1759 i gesuiti furono cacciati dal Portogallo, e Malagrida per paradosso finì sul rogo nel 1761, all’età di 72 anni, perché considerato eretico e falso profeta, con quello che fu l’ultimo atto dell’Inquisizione portoghese. Ma il primo ministro avviò anche una iniziativa molto “moderna”, che è stata fonte di preziosissime informazioni sul sisma: fece infatti distribuire un questionario con una serie di domande rivolte ai sopravvissuti su come si era sviluppato il terremoto e sui fenomeni fisici che avevano osservato: materiale che ancora oggi costituisce importante documentazione per gli studiosi.
Con gli anni, la rabbia veemente di Voltaire sembrò tramutarsi in ironia e quasi sarcasmo, ma il filosofo non cambiò idea su Leibniz: lo inserì nelle vesti di Pangloss nel suo romanzo “Candido o l’ottimismo” (1759), ridicolizzandolo e facendolo morire sul rogo dell’Inquisizione, per concludere poi che di fronte ai mali del mondo, di cui non conosciamo la natura, era meglio dedicarsi a “coltivare il proprio giardino”. E ancora nel dizionario filosofico, a proposito del motivo per cui esiste il male, scrisse tagliente che “Leibniz si rendeva conto che non poteva rispondere nulla; ragion per cui scrisse grossi libri di cui lui stesso non capiva un bel niente”.
Il dibattito tuttavia non finì affatto presto: nel 1826, quel Giacomo Leopardi che ironizzerà amaramente sulle “magnifiche sorti e progressive” dell’umanità, scrive sul suo Zibaldone: “Tutto è male. Cioè tutto quello che è, è male; che ciascuna cosa esista è un male; ciascuna cosa esiste per fin di male; l’esistenza è un male e ordinata al male; il fine dell’universo è il male; l’ordine e lo stato, le leggi, l’andamento naturale dell’universo non sono altro che male, né diretti ad altro che al male. (…) Questo sistema, benché urti le nostre idee, che credono che il fine non possa essere altro che il bene, sarebbe forse più sostenibile di quello del Leibniz, del Pope ecc. che tutto è bene. Non ardirei però estenderlo a dire che l’universo esistente è il peggiore degli universi possibili, sostituendo così all’ottimismo il pessimismo. Chi può conoscere i limiti della possibilità?”.