DISCERNERE

Uno sguardo profetico sugli eventi

Pacifisti e guerrafondai provocarono la grande guerra

Lo dice il grande storico Usa, Niall Ferguson, che ora invita ad andarci piano con Gheddafi • È dalle loro sbagliate valutazioni che saltò fuori la più grande carneficina mai vista
di Diego Gabutti
Tratto da Italia Oggi il 15 marzo 2011

Da una strategia declamatoria possono discendere spaventosi errori di calcolo, e una politica estera fondata sulla retorica non è meno pericolosa d'una politica estera fondata sulla volontà di potenza. Niall Ferguson, in un'intervista apparsa su Italia Oggi venerdi scorso, invita alla prudenza le cancellerie occidentali, prese da frenesia rivoluzionaria da quando l'Africa del nord è in rivolta contro le tirannie postcoloniali. Storico della politica e dell'economia, alla fine degli anni novanta Ferguson pubblicò La verità taciuta, Corbaccio 2002, pp. 666, euro 36, 00. Era una storia trompe-l'oeil della prima guerra mondiale: «il più grande errore della storia moderna». Anche allora, prima che dalle «forze impersonali dell'economia», forze «al di là del controllo dell'uomo», come dopo il conflitto avrebbero cantato in coro, autoassolvendosi, le classi politiche delle nazioni in guerra, l'Europa fu accecata dalla sua stessa retorica. Furono gli errori di calcolo dei pacifisti e dei guerrafondai a sprofondare l'Europa nelle trincee e presto negli orrori del XX secolo. Oggi le diplomazie parlano il linguaggio politicamente corretto dei diritti politici e civili, tutto premesse teoriche e scarse conseguenze pratiche, salvo imprevisti, naturalmente. All'epoca era «il linguaggio del romanzo d'avventura e del melodramma» ad essere diventato «il linguaggio della vita normale», e nel 1914 l'imprevisto ci fu: una guerra globale.

Nei giornali, mentre montava la campagna giornalistica che avrebbe prima provocato e poi edulcorato e giustificato la guerra, si poteva leggere che era venuto il momento di battersi per «un patto solenne firmato sull'altare violato della libertà d'una piccola nazione» (sono sciocchezze alate che si sentono anche oggi, pronunciate per lo più da chi ama ascoltarsi quando parla). Non ne risultò soltanto la distruzione di ricchezze incalcolabili: un debito mai ripagato alle generazioni future. Ne risultò, soprattutto, il genocidio di milioni di giovani e giovanissimi europei: un debito con la specie umana che non potrà mai essere estinto. Non fu soltanto una guerra di nazionalismi contro nazionalismi, o di Kultur contro Zivilisation, secondo la categoria metapolitica che Thomas Mann ereditò da Oswald Spengler a giustificazione delle brame tedesche di dominio, ma fu anche una guerra, all'epoca ioniommaginabile, tra internazionalisti: la guerra dei socialisti francesi contro quelli tedeschi, dei socialisti austriaci contro quelli italiani e inglesi, ciascuno convinto del torto altrui, se non della propria ragione. Ogni nazione era vittima della propria retorica. Fu nelle trincee della Grande guerra che la democrazia parlamentare perse d'un tratto tutto il suo appeal e divenne «imbelle», cioè incapace di mantenere le sue promesse d'ordine e progresso, agli occhi dei sopravvissuti, che anche per questo, terrorizzati dagli esiti della proclamazione dei diritti dell'uomo e del cittadino, lasciarono via libera ai fautori del terrore politico. Costoro presero dapprima il potere in Russia, sulle macerie del regime zarista, ma presto dilagarono ovunque, in Italia, nell'Europa dell'est, in Germania e in Spagna. Non erano questi, naturalmente, i calcoli delle cancellerie europee alla vigilia della guerra (che non finì nel 1918 ma che si sarebbe combattuta per altri settant'anni, fino alla caduta dell'impero sovietico, passando attraverso Auschwitz e la Cambogia indemoniata di Pol Pot). Quali che fossero i calcoli delle cancellerie europee, si rivelarono tutti sbagliati. Ferguson continua a mettere in guardia contro la tentazione di parlare senza riflettere, come ha fatto per esempio Barak Obama al Cairo un anno fa, quando chiamò gli africani oppressi alla riscossa. Fece lo stesso un suo predecessore, Jimmy Carter, nel 1979, quando abbandonò l'Iran, per amore delle belle frasi, ai fondamentalisti sciiti. Parlare senza riflettere è peggio (perché più facile, salvo imprevisti) che agire senza riflettere.