«L’uomo ama creare e aprirsi nuove strade – scrive Dostoevskji – ma allora perché egli ama così appassionatamente anche la distruzione e il caos?» Curiosa domanda e di grande attualità. La troviamo come esergo al libro L’eros della distruzione (Il Melangolo, pagine 142, 16 ) scritto dal filosofo Silvano Petrosino e da Sergio Ubbiali, teologo, saggista, docente di Teologia presso la Facoltà Teologica dell’Italia Settentrionale. Il libro raccoglie i due contributi tenuti nell’ambito di un Seminario sul male e viene presentato oggi pomeriggio a Milano presso l’Università Cattolica da Gianfranco Dalmasso e Giuseppe Noberasco (sede di via Nirone, ore 14,45).
Abbiamo incontrato Petrosino, filosofo, docente di Filosofia morale alla Cattolica di Milano e di Piacenza, noto come uno dei più importanti studiosi del pensiero di Derrida e di Lévinas. Di recente ha pubblicato La scena umana. Grazie a Derrida e Lévinas (Jaca Book) in cui ripercorre criticamente il compiacimento con cui la modernità ha celebrato l’"era delle fini", della morte di Dio, della verità, del soggetto.
Per quale via la sua riflessione si sofferma sul paradosso enunciato da Dostosvskij quando dice che l’uomo ama tremendamente il male e la sofferenza?
«Per me il problema del male s’inserisce in una problematica più ampia che è il soggetto umano. È il tentativo di una riflessione sull’umano che non sia un’immagine caricaturale dell’umano. La banalizzazione del male si attua con la sua riduzione a un gesto di follia o di debolezza. Talvolta, anche nel mondo cattolico, si afferma un’idea un po’ intellettualistica: si commetterebbe il male per stanchezza o per distrazione. Il male invece è una possibilità data al soggetto, è una scelta del soggetto. Questo, per molti aspetti è inquietante, però è fondamentale. Kant si chiede quale uomo farebbe del male a se stesso. Del resto mi sembrerebbe una concezione ingenua affermare che l’uomo a volte fa il male, ma in realtà cerca il bene».
La modernità è lacerata, assediata da un’idea di male assoluto…
«Certo il male assoluto è una forma di male spaventoso come l’Olocausto o il Gulag. Intravedo tuttavia il pericolo di un’enfatizzazione del male assoluto: da una parte si ipostatizza il male assoluto, dall’altra si mette in ombra il soggetto. Questo comporta il rischio di una cancellazione della soggettività. Più che all’esistenza effettiva di un male assoluto direi, come afferma Jankelevitch, che ci sono i malvagi, ci sono coloro che compiono il male: sono uomini. La scommessa è che il male possa diventare un’opportunità per il soggetto umano. E costantemente dobbiamo chiederci: che cosa cerca il soggetto facendo il male, perché sceglie di distruggere? Qui è importante notare che il male s’intreccia in modo inquietante col tema della giustizia: il soggetto distrugge per rincominciare tutto da capo, per non avere più un debito originario, quel debito che Gesù interpreterà invece come dono. Il soggetto distrugge per imporsi all’origine di se stesso. Nel mio lavoro La scena umana distinguo l’inizio dall’origine, non sono la stessa cosa. Il distruggere umano, quel distruggere "di fronte al quale persino gli animali feroci recedono inorriditi", come dice Lacan, non è nient’altro che un tentativo di risolvere l’origine nell’inizio».
Ma questo non significa escludere l’altro, comportarsi come se non esistesse?
«Certo! Infatti intorno a una soggettività narcisistica si raccoglie sempre una scena di distruzione. L’io è un’organizzazione passionale, affermava Lacan. Anche Gesù vive come organizzazione passionale, ma questa si struttura come dono, riguarda il debito. In effetti l’io è sempre un’organizzazione passionale, che si organizza o nella forma del distruttore nei confronti dell’altro, oppure, come nel caso di Gesù, nella forma del dono, in definitiva dell’amore».
Spesso i media propongono il male come qualcosa di necessario quasi per dire che dobbiamo essere sospettosi dell’altro…
«Significa allora che i media, che sono fatti da uomini, perseguono la passione per il distruggere. Direi che ciò accade, in un certo senso, perché il distruggere appare come una strada più facile rispetto all’accogliere. Chi non accoglie distrugge! È come un bambino che vede il castello di sabbia di un altro bambino: glielo distruggo. Ma domani potrà sorgere sempre un castello più bello. Posso distruggere anche quello… ma allora il male non avrà mai fine. Con il male non si scherza, ha una forza di attrazione. I media a volte sembrano scherzare con il male: mostrano questo o quest’altro, la morte, gli omicidi… Cercano di essere neutrali ma in realtà è pericolosissimo. È un’ubriacatura, non ti fermi più, devi proseguire, devi arrivare fino al punto più alto. È un po’ come accade con la torre di Babele: arrivati in cima, gli uomini provavano nausea a guardare giù. Non ci si accorge che le vertigini le provi nei confronti dell’uomo, ancor prima che nei confronti di Dio. Allora ti diventa insopportabile l’altro e quindi lo distruggi».
Abbiamo incontrato Petrosino, filosofo, docente di Filosofia morale alla Cattolica di Milano e di Piacenza, noto come uno dei più importanti studiosi del pensiero di Derrida e di Lévinas. Di recente ha pubblicato La scena umana. Grazie a Derrida e Lévinas (Jaca Book) in cui ripercorre criticamente il compiacimento con cui la modernità ha celebrato l’"era delle fini", della morte di Dio, della verità, del soggetto.
Per quale via la sua riflessione si sofferma sul paradosso enunciato da Dostosvskij quando dice che l’uomo ama tremendamente il male e la sofferenza?
«Per me il problema del male s’inserisce in una problematica più ampia che è il soggetto umano. È il tentativo di una riflessione sull’umano che non sia un’immagine caricaturale dell’umano. La banalizzazione del male si attua con la sua riduzione a un gesto di follia o di debolezza. Talvolta, anche nel mondo cattolico, si afferma un’idea un po’ intellettualistica: si commetterebbe il male per stanchezza o per distrazione. Il male invece è una possibilità data al soggetto, è una scelta del soggetto. Questo, per molti aspetti è inquietante, però è fondamentale. Kant si chiede quale uomo farebbe del male a se stesso. Del resto mi sembrerebbe una concezione ingenua affermare che l’uomo a volte fa il male, ma in realtà cerca il bene».
La modernità è lacerata, assediata da un’idea di male assoluto…
«Certo il male assoluto è una forma di male spaventoso come l’Olocausto o il Gulag. Intravedo tuttavia il pericolo di un’enfatizzazione del male assoluto: da una parte si ipostatizza il male assoluto, dall’altra si mette in ombra il soggetto. Questo comporta il rischio di una cancellazione della soggettività. Più che all’esistenza effettiva di un male assoluto direi, come afferma Jankelevitch, che ci sono i malvagi, ci sono coloro che compiono il male: sono uomini. La scommessa è che il male possa diventare un’opportunità per il soggetto umano. E costantemente dobbiamo chiederci: che cosa cerca il soggetto facendo il male, perché sceglie di distruggere? Qui è importante notare che il male s’intreccia in modo inquietante col tema della giustizia: il soggetto distrugge per rincominciare tutto da capo, per non avere più un debito originario, quel debito che Gesù interpreterà invece come dono. Il soggetto distrugge per imporsi all’origine di se stesso. Nel mio lavoro La scena umana distinguo l’inizio dall’origine, non sono la stessa cosa. Il distruggere umano, quel distruggere "di fronte al quale persino gli animali feroci recedono inorriditi", come dice Lacan, non è nient’altro che un tentativo di risolvere l’origine nell’inizio».
Ma questo non significa escludere l’altro, comportarsi come se non esistesse?
«Certo! Infatti intorno a una soggettività narcisistica si raccoglie sempre una scena di distruzione. L’io è un’organizzazione passionale, affermava Lacan. Anche Gesù vive come organizzazione passionale, ma questa si struttura come dono, riguarda il debito. In effetti l’io è sempre un’organizzazione passionale, che si organizza o nella forma del distruttore nei confronti dell’altro, oppure, come nel caso di Gesù, nella forma del dono, in definitiva dell’amore».
Spesso i media propongono il male come qualcosa di necessario quasi per dire che dobbiamo essere sospettosi dell’altro…
«Significa allora che i media, che sono fatti da uomini, perseguono la passione per il distruggere. Direi che ciò accade, in un certo senso, perché il distruggere appare come una strada più facile rispetto all’accogliere. Chi non accoglie distrugge! È come un bambino che vede il castello di sabbia di un altro bambino: glielo distruggo. Ma domani potrà sorgere sempre un castello più bello. Posso distruggere anche quello… ma allora il male non avrà mai fine. Con il male non si scherza, ha una forza di attrazione. I media a volte sembrano scherzare con il male: mostrano questo o quest’altro, la morte, gli omicidi… Cercano di essere neutrali ma in realtà è pericolosissimo. È un’ubriacatura, non ti fermi più, devi proseguire, devi arrivare fino al punto più alto. È un po’ come accade con la torre di Babele: arrivati in cima, gli uomini provavano nausea a guardare giù. Non ci si accorge che le vertigini le provi nei confronti dell’uomo, ancor prima che nei confronti di Dio. Allora ti diventa insopportabile l’altro e quindi lo distruggi».
Giancarlo Ricci