di Bill Emmott
Tratto da La Stampa del 13 marzo 2011
Se vi siete mai chiesti perché il Giappone abbia così pochi vecchi edifici o perché la più famosa xilografia giapponese, opera dell’artista Hokusai, rappresenti una grande onda, o anche perché il termine internazionalmente accettato per maremoto sia «tsunami», una parola giapponese, bene, ora lo sapete.
Venerdì un incredibile, terribile terremoto e uno tsunami hanno ricordato a tutti noi quello che 120 milioni di giapponesi sanno da una vita: che il loro arcipelago di isole sul limite estremo dell’Asia è la zona sismica più attiva del mondo abitato.
È troppo presto per fare una stima di quante persone abbiano perso la vita nel terremoto e nello tsunami, ma anche un semplice sguardo ai filmati dell’onda che distrugge città e villaggi del Nord-Est del Giappone suggerisce che il numero finale potrebbe essere nell’ordine delle decine di migliaia, o forse anche di più.
Per via della frequenza e della gravità dei terremoti, le norme edilizie in Giappone sono molto rigide e la tecnologia è altamente avanzata. So per esperienza di piccoli terremoti (ho vissuto in Giappone per tre anni alla metà degli Anni 80 e da allora sono un assiduo frequentatore) che trovarsi in un grattacielo durante un terremoto è spaventoso, perché l’edificio continua a oscillare per un tempo incredibilmente lungo, ma anche molto sicuro.
Questo non vale invece per le case ordinarie, specialmente nelle piccole città e nei villaggi. I terremoti, e gli incendi che spesso li seguono, nel corso dei secoli hanno insegnato ai giapponesi a costruire e progettare case che possono essere sostituite facilmente e con poca spesa. Anche molti dei templi storici che i turisti visitano in una città antica come Kyoto sono stati ricostruiti più volte nel corso dei secoli. Così, quando lo tsunami ha colpito, molte piccole case sono state spazzate via o schiacciate come scatole di fiammiferi.
Guardando il disastro giapponese, una delle prime cose che mi viene in mente è un senso di colpa: mi sento in colpa perché sono più sconvolto e choccato da questa catastrofe che, per esempio, dal terremoto ad Haiti nel gennaio 2010 che forse ha ucciso 250 mila persone. Perché? Non è solo perché una volta ho vissuto in Giappone e ho molti amici lì, benché, certo, anche questo conti. Il fatto è che il Giappone assomiglia di più alla Gran Bretagna o all’Italia di Haiti o della provincia di Sichuan in Cina, dove sono morte circa 70. 000 persone: è un Paese moderno, sviluppato, industrializzato, come i nostri, in cui non ci aspettiamo che improvvisamente, durante un normale pomeriggio di marzo, decine o centinaia di migliaia di persone possano morire. Mette in discussione il nostro senso di sicurezza, di civiltà, le protezioni che la ricchezza sembra assicurarci.
E quindi quale potrebbe essere l’impatto di un tale evento in Giappone? Il primo principio quando si tratta di valutare le catastrofi naturali è, credo, di dimenticare l’economia. Molta gente chiede immediatamente quale sarà l’impatto economico in quella che è la terza economia del mondo. La risposta è che, salvo il brevissimo termine, sarà trascurabile. Naturalmente, ci saranno disagi per le fabbriche, i trasporti, le industrie di servizi e tutti i tipi di attività economiche. Ma sarà una cosa solo temporanea. Lo sforzo della ricostruzione rilancerà la produzione economica e creerà posti di lavoro e, in un’economia moderna e sviluppata, la gran parte di questo sarà finanziata dalle assicurazioni. Così, proprio come dopo l’uragano Katrina negli Stati Uniti, che ha devastato New Orleans nel 2005, l’impatto economico è la cosa meno importante di cui preoccuparsi. Una questione economica più significativa riguarda la sicurezza energetica: questa catastrofe potrebbe indebolire o rafforzare la fede dei giapponesi nella tecnologia a energia nucleare. Il Giappone è, accanto alla Francia, la nazione più dipendente dal nucleare per la produzione di energia elettrica.
Non si capisce ancora se uno o più dei suoi reattori nucleari possa essere stato reso pericoloso dal terremoto: se, in presenza del peggior terremoto della storia del Giappone non ci fossero stati gravi danni né avvelenamento da radiazioni, questo potrebbe rafforzare la scelta nucleare. Ma se il Giappone ha subito un incidente simile a quello di Cernobil in Ucraina nel 1986, allora l’opzione nucleare potrebbe anche uscirne distrutta, specialmente in altri Paesi a rischio sismico come l'Italia. E’ troppo presto per esprimere un giudizio, tuttavia.
I veri, significativi effetti a lungo termine saranno probabilmente psicologici e culturali. L’ultimo grande terremoto in Giappone si è verificato nel 1995 a Kobe, una città industriale a Sud-Ovest di Tokyo e ha causato 6. 500 morti. Col senno di poi, è chiaro che il disastro di Kobe ha scosso la fiducia dei cittadini sia nella competenza del governo sia nell’efficacia del regolamento edilizio del Paese. A differenza dell’Italia, il governo godeva della fiducia dei cittadini in Giappone e i regolamenti erano ritenuti i migliori al mondo. Il risultato di un soccorso caotico e del crollo di molte strutture che erano state considerate a prova di terremoto ha di certo contribuito a distruggere la fiducia della gente comune nel sistema in cui avevano fino ad allora confidato. La yakuza locale, le bande del crimine organizzato hanno guadagnato credito per il loro ruolo nei soccorsi a scapito della polizia e dell’esercito o dei funzionari pubblici.
Sarebbe sbagliato attribuire tutto a un solo evento. Ma di conseguenza la politica giapponese e le procedure di attuazione delle politiche sono diventate meno decise ed efficaci, e più dispersive e controverse. L’esperienza del terremoto di Kobe ha sicuramente contribuito a tale processo.
Ora, c’è una possibilità che i risultati politici siano positivi piuttosto che dannosi. La politica altamente disfunzionale del Giappone, che ha dato al Paese quattro primi ministri negli ultimi quattro anni, potrebbe ora arrivare a un accordo temporaneo, o almeno a un obiettivo comune attorno al compito di ricostruire e rimettere in sesto la nazione. Le memorie politiche possono essere brevi e la morale scarsa, ma la lotta in corso proprio prima del terremoto, che bloccava il bilancio annuale del governo per forzare il ricorso alle urne, sicuramente ora apparirà irresponsabile e obsoleta.
Il Paese ha urgente bisogno di un senso di comune appartenenza, per varare le riforme e rilanciare la propria economia, e una terribile catastrofe naturale potrebbe contribuire a dare esattamente quel tipo di sensazione. Il Giappone si è ricostruito e reinventato più volte in passato dopo le calamità, compreso il terremoto del 1923 seguito da un incendio che distrusse Tokyo, e la sconfitta e la distruzione del secondo conflitto mondiale.
Vi è, tuttavia, anche un pericolo psicologico e culturale. Ed è che, choccato da questa catastrofe e reso di nuovo consapevole della propria vulnerabilità, il popolo giapponese possa di nuovo ripiegarsi su se stesso, distogliendo ambizioni ed interessi dalla globalizzazione e diventando ancora più insulare e remoto di quanto già sia.
Questa tendenza è in corso da qualche tempo. Nella tecnologia c’è anche una frase per definirla: «L’effetto Galapagos». Negli ultimi 20 anni le imprese di elettronica giapponesi hanno continuato a produrre innovazioni meravigliose ma molte applicabili solo a casa, in ambiente giapponese. Da qui questa idea che il Giappone si stia evolvendo separatamente, come le iguane e le tartarughe delle isole Galapagos.
Più in generale il crescente distacco dal resto del mondo è stato visto nella diminuzione del numero dei giovani giapponesi che scelgono di studiare o lavorare all’estero. Il problema giapponese è in questo senso il contrario della «fuga dei cervelli» dell’Italia: sempre meno giovani si recano all’estero, e questo significa che sempre meno stanno imparando da esperienze, tecnologie o idee internazionali.
Sarebbe sbagliato esagerare questo rischio. Dopo questo disastro il Giappone non ha intenzione di chiudere le sue porte al mondo nel modo in cui lo fecero i suoi shogun Tokugawa (leader militari) per oltre 200 anni, dal 1630 fino al 1860. Ma potrebbe anche diventare ancora più diffidente, più preoccupato dei suoi affari, più sulla difensiva e più, beh, spaventato. Speriamo di no: l’Asia e il mondo sarebbero peggiori senza l’attivo contributo di uno dei Paesi più sviluppati e avanzati del mondo, in particolare con la Cina in crescita e la Corea del Nord sempre pericolosa.
(Traduzione di Carla Reschia)