DISCERNERE

Uno sguardo profetico sugli eventi

FRAGILITA' FEMMINILE: l'impostura diventata legge. Gravidanza: una malattia moderna






Cos’è successo alle donne? Perché sono diventate così deboli e psichicamente fragili tanto che al primo sospetto di gravidanza vanno subito fuori di testa? Una vera emergenza sociale, questa sopravvenuta fragilità femminile, per cui gli ordinamenti giuridici hanno sentito la necessità di metterla per iscritto in una legge, rendendo lecito, al fine di curare le donne da questa gravissima malattia, l’uccisione del proprio figlio in grembo.

Eh sì, proprio così è scritto all’art. 4 della nostra legge n. 194: la donna può interrompere la gravidanza qualora accusi circostanze che comporterebbero un serio pericolo per la sua salute fisica e psichica, in relazione o al suo stato di salute, o alle sue condizioni economiche, o sociali o familiari, o alle circostanze in cui è avvenuto il concepimento, o a previsioni di anomalie o malformazioni del concepito.

116.933 le interruzioni di gravidanza ogni anno in Italia (Rapporto Ministero della salute presentato in Parlamento nell’agosto 2010 relativo ai dati del 2009). Ciò significa che ogni 5 bambini nati 1 viene abortito.

5 milioni gli aborti in Italia dal 1978 - anno di promulgazione della 194 - ad oggi (Marina Corradi, Avvenire, 6 febbraio 2011, I nostri figli non nati cinque milioni di pensieri).

2.863.649 i bambini abortiti in Europa nel solo anno 2008 (Rapporto annuale IPF - Istituto di Politica Familiare - sull’aborto in Europa e in Spagna, presentato al Parlamento europeo il 2 marzo 2010), ovvero un figlio abortito ogni 11 secondi.

20.635.919 gli aborti effettuati negli ultimi 15 anni che fanno dell’aborto la principale causa di mortalità in Europa.

53 milioni gli aborti annui nel mondo (Organizzazione Mondiale della Sanità, dati del 1997, Antonio Socci, Il genocidio censurato), stimati recentemente ad oltre 40 milioni (Lorenzo Schoepflin, Avvenire, 11 agosto 2010, Aborto, ecatombe mondiale) sulla base dei 30 e più aborti ogni 100 bambini nati.

Più di 1 miliardo i bambini abortiti nel mondo, da quando l’aborto è stato legalizzato.

I dati sono eloquenti, non ci sono dubbi, ed è ora che qualcuno abbia il coraggio di dirlo: le donne sono diventate mentalmente instabili. Sembra che negli ultimi trent’anni uno strano virus, che si scateni esclusivamente in caso di concepimento, abbia colpito milioni di esse causando loro un’enormità di problemi fisici e psichici, impedendo il proseguimento della gravidanza e costringendole, ai fini della propria sopravvivenza, all’extrema ratio dell’aborto.

Ci troviamo di fronte ad una vera emergenza globale: milioni di donne stanno rischiando l’insania a causa di loro stesse, della loro propria natura, di quella cosa che è stata, è, e sempre sarà una loro esclusiva peculiarità consistente nel portare in grembo il figlio per nove mesi e poi nel partorirlo. Un miliardo di aborti in appena trent’anni è un dato che non può lasciare indifferenti, allora, chi può, faccia quanto prima qualcosa, come cercare un vaccino, o una cura, prima che la patologia si propaghi ancor più e si prospetti il rischio di una congestione ospedaliera mondiale o la necessità di riaprire tutti i manicomi.

Questi numeri immensi parlano a tutti noi, ma non dicono solo di quale immane strage di innocenti sia stata perpetrata in appena trent’anni di storia dell’umanità, queste grandezze sconcertanti ci mostrano anche la sconfitta del genio femminile. Da questi dati, il genio femminile, ne esce veramente a pezzi.

Gravidanza: una malattia moderna

Che la gravidanza potesse essere considerata una malattia della donna non era mai stato pensato fino all’epoca moderna, un’epoca durante la quale gravidanza e parto hanno raggiunto il massimo grado di attenzione e sicurezza, e dove le condizioni di salute, economiche e sociali non sono mai state così tanto congeniali e favorevoli alla vita. Non si comprende allora, come mai, proprio durante questi ultimi anni, tali fattori possano aver causato tutti quei problemi fisici e psichici da indurre le donne ad abortire quell’enormità di figli, a meno che, quella supposta fragilità femminile non sia una colossale menzogna, un subdolo alibi che nasconda ben altro.

Non serve nemmeno andare troppo indietro nella storia per accorgersi che la tesi della fragilità femminile per sopravvenuta gravidanza, non sia affatto confermata dai fatti. È sufficiente volgere lo sguardo alle nostre nonne e bisnonne e a tutte quelle donne vissute nella prima metà del secolo scorso. Chi quattro, chi sei, chi otto, ma anche dieci/dodici figli e neanche un cedimento mentale. Eppure i parti avvenivano in casa, con pochi mezzi, l’acqua calda e l’aiuto di una levatrice. Non c’era l’epidurale, né le soluzioni fisiologiche e gli attuali farmaci, né tutta l’assistenza medica dei moderni ospedali. Partorire era molto più rischioso di oggi, i bambini morivano di più e anche le mamme, non era rarissimo che perdessero la vita a causa di un parto particolarmente difficile. Eppure le donne non si ammalavano se rimanevano incinte, né avevano bisogno di uccidere i figli per salvare se stesse.

Anche le condizioni economiche e sociali erano peggiori basti pensare che durante questo secolo si sono consumate ben due guerre mondiali. Eppure le donne non sono crollate. I mariti in guerra, i mezzi di sostentamento scarsissimi e loro a casa a crescere i bambini piccoli e a prendersi cura dei vecchi, forti, fiduciose, salde ad aspettare la fine della guerra, con la speranza che il proprio coniuge, e i figli grandi partiti per il fronte, avrebbero fatto ritorno sani e salvi, per ricominciare tutto daccapo, un’altra volta, sempre aperte alla vita.




Non c’erano nemmeno tutte le comodità che ci sono oggi. Come ad esempio i pannolini usa e getta, tutti quei prodotti per la cura del bebè, le medicine per curarli, le pappine e gli omogeneizzati belli e pronti, la lavatrice, lo scaldabagno. Fasce e pannolini di stoffa erano lavati a mano e senza l’aiuto dell’acqua calda. Chi non abitava in città non aveva nemmeno l’acqua corrente e allora bisognava attingerla al pozzo e trasportarla col secchio fino a casa, oppure si andava a piedi fino al lavatoio o al fiume. Moltiplichiamo tutto questo per sei-otto-dieci-dodici figli, ebbene, di nuovo, nemmeno un sintomo di patologia. Oggi basta rimanere incinta di un figlio ed è subito crisi, bisogna quanto prima correre dal medico a farsi fare il certificato “di pazzia” per abortire, altrimenti è malattia grave: un serio pericolo per la salute fisica e psichica.

Con buona pace della 194, non vale nemmeno la circostanza in cui è avvenuto il concepimento per giustificare detta fragilità femminile. Pensiamo ad un esempio veramente drammatico per la donna: una gravidanza a seguito di uno stupro, avvenuto nell’ambito di una crudele strategia di guerra, o per opera di uno sconosciuto mentre si rientra a casa dal lavoro o, peggio ancora, cagionata da una persona cara, da un familiare, in generale da colui dal quale sarebbe normale ricevere rispetto e amore. Ebbene, anche qui, la testimonianza delle donne è eloquente.

Donne che sono riuscite ad accogliere quel figlio frutto della violenza, conseguenza non di certo voluta di una terribile profanazione del proprio corpo, della propria intimità, della propria anima. Donne che hanno risposto al male con il bene, alla crudeltà della “pulizia etnica” e della brutale aggressività di quei maschi, con il dono di una nuova vita. Che sono state capaci, nonostante tutto, di accettare nel proprio ventre quel piccolo bimbo frutto dell’ingiusta e assurda violenza subita, mostrando così al mondo, non solo che la fragilità femminile è una menzogna, ma anche come funziona quella croce che salva, alla sequela di quell’altra somma Croce salvatrice.

Perché debole è il violento, debolezza è essere schiavi del male, fragilità è occhio per occhio e dente per dente. Invece forza è rompere la catena di reattività dove l’odio chiama odio, l’offesa genera offesa,… e lo stupro genera un aborto. Certo, dal punto di vista fisico il male ha prevalso, ha sopraffatto le donne, ma alla fine la sua è stata una disfatta, sconfitto dalla forza pacifica, senso di accoglienza e dono di sé, propri del genio femminile, altro che fragilità!

Rimangono da considerare altre due giustificazioni alla debolezza del genere femminile - e quindi all’aborto - contenute nella legge sull’interruzione di gravidanza, quella di fronte allo stato di salute della donna e a previsioni di anomalie o malformazioni del figlio concepito. Anche in questi casi, possiamo costatare come la 194 faccia acqua da tutte le parti.

Sono ancora le donne – e non astratte teorie – che con la propria testimonianza mostrano come una salute precaria, o il rischio stesso della propria vita, non facciano da deterrente alla prosecuzione della gravidanza. Un esempio significativo è certamente quello di Gianna Beretta Molla, proclamata santa da Giovanni Paolo II nel maggio 2004.




Mentre è in attesa del quarto figlio le viene diagnosticano un grosso fibroma all’utero. Gianna si sottopone al necessario intervento chirurgico ma chiede di salvare il suo bambino e di proseguire la gravidanza. Così avviene, alla fine partorisce una bimba ma, appena qualche ora dopo il taglio cesareo, le sue condizioni si aggravano. Muore una settimana dopo, a casa, dove aveva chiesto di essere riportata, dopo aver udito la voce dei suoi “tesori” svegliatisi per il subbuglio. Così aveva detto ai medici qualche giorno prima del parto: “Se dovete decidere fra me e il bimbo, nessuna esitazione: scegliete - e lo esigo - il bimbo. Salvate lui”.

La testimonianza di Gianna, non è certo un caso isolato, sono tantissime le donne che hanno deciso di proseguire la gravidanza, nonostante le precarie o gravi condizioni fisiche. Donne che hanno rinunciato all’aborto e a curarsi perché i farmaci avrebbero avvelenato o causato malformazioni al figlio portato in grembo. Qui, gli esempi sono veramente numerosi, a dimostrazione del fatto che non siamo di fronte a un’eccezione, a qualche sporadica situazione riguardante appena due o tre madri con un coraggio fuori dal comune. Ci riferiamo a Paola, Carla, Rita, Anna Maria, Tonia, Stefania, Rachel, Luisella, Roberta, Felicita, Claudia, delle quali adesso diremo, ma anche alle altre numerosissime mamme che non sono mai arrivate sulle cronache dei giornali, che hanno detto sì alla vita nonostante le gravi condizioni di salute e a dispetto del patetico art. 4 della legge 194.

Paola Breda, 38 anni, di Treviso. Al sesto mese della sua seconda gravidanza scopre di avere un tumore al seno ma non accetta di sottoporsi alle cure che avrebbero irrimediabilmente danneggiato il figlio nel suo grembo. Nel gennaio 2007 nasce Nicola e la sua mamma inizia le terapie per combattere il male. Inizialmente sembrano funzionare, poi la ricaduta, 17 mesi dopo, Paola non ce la fa.

Carla Levati Ardenghi, di Seriate (Bergamo). Muore nel gennaio 1993, all’età di 28 anni. Anche lei aveva rifiutato le cure contro il tumore che l’aveva colpita, per non compromettere la vita di Stefano, il suo secondo figlio, del quale era in attesa. Purtroppo anche il suo bimbo non ce la farà e, undici giorni dopo, raggiungerà la mamma. Ciò non toglie assolutamente valore al gesto di abnegazione di Carla.

Rita Fedrizzi, 41 anni, di Pianello del Lario (Como), muore a fine gennaio 2005, dopo aver dato alla luce Federico, il suo terzo figlio. Racconta il marito che i dottori le avevano detto: “l’unica terapia è l’aborto”. Il verdetto era chiaro, il cancro la metteva di fronte a una scelta: o tu o lui, o “la morte tua o quella del bambino”.




Mia moglie si era informata, sapeva bene che se non avesse abortito non avrebbe avuto alcuna speranza di sopravvivenza, ma considerava quel figlio un dono e ha sempre sostenuto che i doni vanno riconosciuti e poi custoditi. […] Quando qualcuno - ed erano in tanti - le raccomandava l'aborto come unica via di scampo, lei semplicemente spiegava: «È come se mi chiedessero di uccidere uno degli altri miei due figli per salvare la mia pelle». E così non le restava che accogliere Federico, rifiutando le massicce dosi di chemioterapia che avrebbero ucciso il cancro cresciuto nel suo grembo” (www.donboscoland.it). È una lotta contro il tempo e contro il male, ma Federico nascerà, sano e pieno di vita.

Anna Maria Negri, 37 anni, di Venegono Inferiore (Varese). Come le altre, anche Anna Maria procastina le pesanti cure mediche, che sarebbero servite per contrastare il male incurabile, che scopre durante la sua terza gravidanza. La piccola Rita viene alla luce ma, due mesi dopo, nel luglio 2005, la madre soccombe alla malattia.

Tonia Accardo, 33 anni, di Torre del Greco (Napoli). Nell’agosto 2005 le viene diagnosticato un rarissimo tumore alla ghiandola salivare sottolinguale, così il mese successivo si sottopone ad un intervento chirurgico che ha buon esito ma, purtroppo, non è sufficiente per debellare completamente il male. Le viene pertanto fissato, per il mese di ottobre, il primo ciclo di cure radioterapiche, proprio quando Tonia scopre di aspettare un bambino. I medici le danno un solo consiglio: abortire, ma lei non ne vuole sapere, il solo pensiero la fa inorridire, vuole portare avanti la gravidanza ad ogni costo. «Ero troppo felice al pensiero della gravidanza - dirà - mai avrei deciso di interromperla. Mio marito era preoccupato per la mia salute […], ma davanti alla mia serenità, al mio ottimismo ha dovuto cedere» (www.donboscoland.it). A questo punto non le rimane che pronunciare due no secchi: no all’aborto e no alle terapie.

Trascorrono sette mesi, la bimba cresce, ma lo fa anche il tumore, le metastasi le invadono il collo. Comincia così il peregrinare suo e del marito per ospedali e cliniche, prendendo contatto con i migliori specialisti d’Italia, ma tutti si rifiutano di eseguire l'intervento, nessuno vuole la responsabilità di un'operazione così delicata, per di più su di una donna incinta che non si cura da mesi. «Mi dicevano tutti che dovevo rinunciare al bambino se volevo continuare a vivere», dirà con amarezza. Finché approdano all’Istituto dei tumori di Napoli, dove il dottor Franco Ionna – dopo aver esaminato le criticità del caso - accetta di operarla.




Nel maggio 2006 Tonia si sottopone al nuovo intervento che durerà cinque ore. Accanto alla sala operatoria sarà allestita anche una camera prenatale e all’operazione parteciperanno anche i ginecologi e due neonatologi affinché, tutto sia approntato per un eventuale parto cesareo d’emergenza. Anche questa volta l’operazione riesce. Però ora la donna ha assolutamente bisogno di cure radioterapiche, così la sua bambina, Sofia, sarà fatta nascere prima del termine dei nove mesi, il 10 giugno 2006.

Mamma Tonia avrà la possibilità di trascorrere quasi due anni con la sua bimba, si arrenderà al male nel febbraio 2008. Al termine del secondo difficile intervento aveva detto sorridente e felice: “Ho seguito il mio cuore, la chemioterapia avrebbe ucciso mia figlia”.

Stefania Dal Cer, 36 anni, di Saronno (Varese). Tre giorni dopo aver saputo di essere in attesa del suo secondo figlio, scopre di essere affetta da un melanoma maligno. Stefania rifiuta la chemioterapia per tutelare la vita del suo piccolo. Misael nasce l’8 febbraio 2008, lei muore 45 giorni dopo. «Ha affrontato tutto con determinazione e coraggio, sempre con il sorriso sulle labbra. […] Fin dal primo istante sapeva che cosa rischiava e ha affrontato anche questa prova da vera combattente qual era», ricorderà la sorella Simona (Avvenire, 29 marzo 2008).

Di Rachel Crossland, 29 anni, ne da notizia il quotidiano britannico Daily Mail. Qualche ora prima di operarsi per rimuovere un tumore alla vescica, grande quanto una palla da golf, Rachel scopre di essere incinta di due gemelli. Dopo l’operazione avrebbe avuto bisogno di chemioterapia e radioterapia, ma lei le rifiuta: “I medici mi hanno raccontato storie orribili su ciò che succede ai bimbi nati da donne in cura da chemio, ero terrorizzata e mortificata. Così ho deciso di evitare le cure e di portare avanti la gravidanza”, racconta (www.leggo.it).




Quando manca ancora un mese alla nascita programmata, Rachel deve essere ricoverata perché gravemente ammalata. Le gemelline Poppy e Saffron vengono fatte nascere con parto cesareo mentre la mamma è ricoverata in terapia intensiva. Riuscirà a vederle solo il giorno dopo: “Stavo male al pensiero di non vederle. Ma poi ho realizzato che erano vive, e che io e loro avevamo realizzato un piccolo miracolo”. Dopo qualche mese dal parto viene dimessa e può tornare a casa con il marito e le sue belle bimbe. Ora può iniziare a curarsi e cercare di sconfiggere la malattia.

Luisella Longoni Crosina, 35 anni, di Erba (Como). Muore nel luglio 2002, quattro giorni dopo aver dato alla luce Margherita. A gennaio dello stesso anno le avevano diagnosticato un tumore ai polmoni spiegandole che se voleva curarsi avrebbe dovuto rinunciare alla sua prima bimba. Nonostante sapesse a cosa andava incontro, Lella non ha esitato un attimo. Dopo sette mesi le sue condizioni si aggravano così i medici decidono di far nascere la bimba anticipando il parto di due mesi. Margherita nasce settimina, ma in buone condizioni di salute, mentre quelle della neo mamma precipitano. Luisella chiede di essere riportata a casa con la piccola, e ci riesce. Morirà nel letto della sua camera tra le braccia del marito.

Roberta Magnani Arlenghi, 31 anni, di Mortara (Pavia). La notizia di essere incinta l’aveva riempita di felicità, ma un mal di schiena che non passava mai e gli esami clinici eseguiti in proposito avevano annunciato un verdetto implacabile: tumore al polmone in fase avanzata. Roberta rifiuta le cure. “Una scelta che ha fatto da sola – racconta il marito Mauro – aveva tanto desiderato un figlio, che non se l’è sentita di sottoporsi a terapie che potessero nuocere al feto. Qualsiasi cosa facesse, subire una radiografia o ingoiare una pillola, bisognava darle mille assicurazioni che non avrebbe causato malformazioni al bambino. Era questa l’unica sua paura, tanto che subito dopo il parto, un po’ scherzando, mi ha chiesto se Marco aveva tutte e dieci le dita delle mani. Le uniche iniezioni che faceva volentieri erano quelle per rinforzare il feto. Per il figlio era disposta a soffrire” (archiviostorico.corriere.it).

I medici erano più scettici sulla possibilità di portare avanti la gravidanza. Al massimo, speravano che potesse resistere nel grembo materno 25-26 settimane. Invece, il piccolo Marco è nato dopo 32 settimane, il tempo sufficiente a garantirgli la sopravvivenza”. Dopo il parto il bimbo sarà ricoverato al San Gerardo di Monza, per essere disintossicato dalla morfina che la mamma era costretta a farsi somministrare, a causa della forte sofferenza dovuta al male, ormai giunto allo stadio terminale. Muore nel luglio 1998, 14 giorni dopo aver dato alla luce il suo bambino.

Un giorno potrò spiegargli quanto è stato amato dalla sua mamma – dirà il papà -. Conserverò i giornali che in questi giorni parlano di lei, perché fra qualche anno possa leggerli anche lui. E capire fino a che punto sua mamma gli voleva bene”.

Felicita Merati Barzaghi, 40 anni, di Nova Milanese. Nel giro di pochi giorni Felicita scopre di essere incinta del secondo figlio e di avere un cancro al seno. Facendo valere i suoi studi di chimica, rifiuta caparbiamente chemioterapia e “aborto terapeutico” proseguendo la gravidanza. Il male non le da tregua ed in pochi mesi la colpisce in modo devastante, invadendo anche i polmoni. I medici capiscono che non riuscirà a portare a termine la gravidanza così, il 28 agosto 1995, decidono di far nascere il piccolo Riccardo Maria con taglio cesareo, quando la donna è a sei mesi e mezzo di gestazione.

È riuscita a vedere Riccardo tre volte – ricorda il marito – quando il bimbo è nato, prima di entrare in rianimazione e tre ore prima del coma(archiviostorico.corriere.it). Muore l’8 settembre 1995, undici giorni dopo. Così parlerà, il parroco don Rinaldo, durante l’omelia del funerale: “La scelta della nostra sorella Felicita ha lasciato nel dolore quanti la amavano. Una morte accettata in nome della giustizia, perché non c’è amore più grande di chi dà la propria vita per il suo prossimo. Eppure, ogni giorno, assistiamo all’affermarsi di una disdicevole e preoccupante cultura della morte, che si esprime specialmente nella soppressione dei concepiti”.

Claudia Cardinali, 32 anni, di Ancona. Quando si trova alla sedicesima settimana della sua seconda gravidanza, l’ecografia le diagnostica un tumore alla placenta. “C’erano pochi spazi al dubbio – racconta il dottore – era come un grappolo d’uva con i suoi acini che, col passare del tempo, divenivano sempre più grandi. Alla fine le due masse tumorali più grandi misuravano 7 e 13 centimetri, come la testa del feto (archiviostorico.corriere.it). Ma Claudia non ha esitazioni, nonostante il rischio fosse molto alto sia per lei che per il bimbo: “A interrompere la gravidanza non ci ho pensato neppure un momento. Non so perché, ma sentivo dentro di me che sarebbe finita bene”.

La donna affronta tutto con serenità e determinazione combattendo contro una serie di complicazioni successive. Prima l’ipertensione a causa della gestosi, poi varie emorragie dovute alle masse tumorali, a seguire una forte anemia, infine minacce di parto spontaneo prematuro. Il primo ottobre 1999 nasce, con taglio cesareo, Diego, un fagottino di 1 chilo e 160 grammi, ma sano e con tanta voglia di vivere. Anche la mamma sta bene, ma guai a definire la sua scelta un atto di coraggio, Claudia vuole che sia chiamato, semplicemente, “gesto d’amore”.

Con il “gesto d’amore” di Claudia fermiamo un elenco che potrebbe continuare per molte pagine ancora, a testimonianza del fatto, come dicevamo sopra, che una salute precaria non sia una condizione sufficiente per interrompere una gravidanza. I casi difficili esaminati ci mostrano, anche, come non sia nemmeno necessario compiere chissà quale estremo atto di coraggio o sforzo sovrumano per accogliere un figlio in una condizione di gravissima fragilità. Per tutte quelle madri, proseguire la gravidanza, e rinunciare alle cure nocive per il figlio, è stato un fatto naturale, la cosa più giusta e normale da fare. Non vogliono essere chiamare eroine, sono semplicemente donne che amano, donne capaci di amare fino alla fine, di donare se stesse fino al sacrificio di sé.

Un esempio contro corrente il loro, un estremismo provocatorio, quasi una sfida, lanciata a questa società in cui viviamo, ripiegata su se stessa, e sulla pretesa di egoisti e mortiferi diritti individuali. Un atto folle, da matte, direbbe qualcuno, e noi, questa volta, non potremmo dargli torto, poiché l’amore gratuito e vero è sempre sbilanciato, fuoriesce dai confini, è incontenibile, la tiepidezza gli sta stretta, ha un’esagerata passione per la vita… e di fragilità, ancora una volta, neanche a parlarne!

E non se ne parla nemmeno in caso di anomalie del figlio concepito. È la moderna biologia, sostenuta dalla propaganda di un’élite cinica, potente e prepotente, che opera la distinzione tra figlio sano o “guasto”, perfetto o “difettoso”, appetibile o indesiderabile, mossa com’è dalla presunzione di promettere e garantire l’offerta di un “prodotto” senza alcun difetto. L’amore materno, invece, non ha mai sentito la necessità di contare i cromosomi del figlio per esprimersi, ben evidenziato dal noto detto napoletano secondo il quale “ogni scarrafone è bello ‘a mamma soia”.

Ovviamente nessuna madre si augura che le nasca un figlio malato, ma se ciò dovesse accadere rientra nel senso di accettazione proprio del materno il considerare quel bimbo non uno “scarto” ma sempre un figlio, accogliendolo e amandolo a prescindere dal suo stato di salute. L'attuale società, purtroppo, – scrive il neonatologo Carlo Bellieni - “riversa il ruolo di sceriffi genetici sulle spalle delle donne, che sorvegliano che questi 'clandestini genetici', le persone Down [o affette da qualsiasi altra anomalia o malformazione riscontrata nell'ambito della diagnostica prenatale], non approdino sulle coste della vita postnatale” (il sussidiario.net, 11 aprile 2011). Il nemico da combattere non è più la malattia, ma il malato, la medicina cessa di curare ed è adibita “a far la guardia sulle porte della vita”.

La donna che decide di far nascere lo stesso il figlio malato o imperfetto è guardata come una folle, un'incosciente che non ama abbastanza il suo bambino, un'egoista che lo farà vivere nella sofferenza, una sconsiderata che mette al mondo un individuo che, oltretutto, avrà anche un forte impatto economico sull'intera collettività.

Ogni disabilità è divenuta “evitabile”, ogni disabile che riesce a nascere un “tragico errore” o una “disgrazia”, la gravidanza di un bimbo imperfetto “inutile” e l'aborto, in questi casi, l'unica soluzione da preferire se si vuole essere considerata una brava donna, madre e cittadina.

La testimonianza delle madri ci mostra che la gravidanza non è affatto una malattia, né il rimanere incinta – in un difficile contesto o in una situazione precaria – una condizione che generi automaticamente una così grave fragilità fisica o psichica da indurre ad abortire il proprio figlio. È, semmai, vero il contrario. Proprio lo scoprire di essere in attesa di un figlio ha generato - nelle donne di cui abbiamo parlato - forza e serenità, nonostante che male e sofferenza le avesse poste in un’effettiva condizione di debolezza. La maternità ha sprigionato in loro fermezza e determinazione nello sfidare i pareri medici infausti, lucidità nell'assumersi la responsabilità delle proprie scelte e di viverne le conseguenze fino in fondo, capacità di farsi carico del dolore fisico che ne è seguito, con l'unica preoccupazione dell'integrità del figlio recato in grembo.

La gravidanza, infatti, innesca una particolare energia nella donna, sia di tipo fisico, al fine di proteggere e sostenere madre e figlio sin dai primissimi istanti di vita, attraverso una comunicazione non verbale – altrimenti detta cross-talk - fatta di scambi di cellule, messaggi ormonali e fattori di crescita, sia di tipo psichico - come abbiamo visto -, che presi nel loro insieme formano quella che possiamo chiamare “forza della vita”.

Demetra: la forza delle madri

Una forza che deve aver riempito di stupore, misto, forse, anche a timore, i primi ominidi apparsi sulla terra e che, fino ad almeno il 3.000 a.C., ha visto nelle donne – pur con le sue ambivalenze – una condizione di potenza, una sorta di superiorità, sfociata anche in culto religioso. Lo vediamo, ad esempio, nelle piccole statuette raffiguranti corpulente figure di donna e nei numerosi vasi, ritrovati nell’ambito degli scavi archeologici, che documentano l’adorazione alla Grande Madre nutrice, o Dea Madre. Del resto il meccanismo della fecondazione non era conosciuto e le donne, con quel misterioso flusso di sangue e poi latte nutriente, con quel ventre che ad un certo punto iniziava a crescere, e quel corpo dal quale fuoriusciva un piccolo nuovo uomo, potevano davvero apparire come esseri superiori.




Sarà nell’ambito della mitologia greca che, verso il VI secolo a.C., prenderà forma la figura di Demetra, quale emblema particolare di forza psicologica femminile, fatta di quella tenacia e determinazione che, particolarmente, l’amore materno è in grado di sprigionare.

Scrive, in proposito, lo psicologo Aldo Carotenuto (L'anima delle donne. Per una lettura psicologica al femminile, Tascabili Bompiani, Milano, I ed. feb. 2004, pp. 229-237) che “una delle più straordinarie caratteristiche del femminile è la determinazione”, un aspetto che Demetra ben rappresenta, quale “dea della terra coltivata e fertile, conosciuta anche come dea del grano”.

Demetra è madre di Persefone, una figlia femmina che le viene sottratta da Ade, il dio degli Inferi, dopo aver ottenuto il consenso di Zeus. Alle disperate grida d’aiuto della fanciulla ella subito accorre, ma quando arriva è troppo tardi, la ragazza è sparita. “Il mito narra poi che Demetra cercherà la figlia per nove giorni e nove notti, vagando instancabilmente per tutti i mari e tutta la terra, portando nelle mani due fiaccole accese. Durante il tempo della sua ricerca, Demetra non si fermerà mai, non dedicherà tempo a se stessa: non mangerà, non si laverà, non dormirà. Un giorno le è comunicato ufficialmente che Persefone è stata rapita da Ade e le è consigliato di rassegnarsi. Demetra rifiuta drasticamente questo tipo di soluzione e non esita a prendere dei provvedimenti”.

Pur di salvare la figlia, abbandona l'Olimpo e scende sulla terra. Poi si rende irriconoscibile assumendo le sembianze di una vecchia ed inizia a vagare per il mondo “dichiarando di essere alla ricerca di qualcuno a cui fare da nutrice”. Dopo averlo percorso invano in lungo e in largo, le viene di nuovo offerta la possibilità di essere madre con l'affido di Demofonte, un bambino che apparteneva ad una famiglia numerosa e che, vista la giovane età, aveva proprio bisogno di una nutrice che si prendesse cura di lui.

Demetra si occupa del bambino come fosse figlio suo ma, anche questa volta le cose vanno male: la vera madre, dopo un po', torna imperiosamente a riprenderlo. “In questo modo a Demetra è di nuovo negato il ruolo di madre, […] il suo destino sembra essere quello di vedersi sottrarre i propri figli: Persefone viene rapita e l'altro bambino le viene tolto con la forza. Alla povera Demetra, quindi, non resta che precipitare nuovamente nel dolore e sprofondare nella solitudine”. Riacquistata la vera identità ordina la costruzione di un tempio in suo onore ove si rinchiude per molto tempo “in compagnia solo del dolore per la perdita della figlia”. Durante questo periodo avrà, tuttavia, la possibilità di pensare, di riflettere sul da farsi, di individuare una soluzione ed elaborare la strategia per poter riabbracciare la figlia… è a questo punto, che decide di passare all’attacco utilizzando l'arma del ricatto.

Visto che “a nulla era servito implorare, supplicare e chiedere con gentilezza […] stanca di non ottenere alcun risultato” lancia la minaccia della sterilità, dichiarando che, se non le fosse stata restituita la figlia, non avrebbe più adempiuto alla sua funzione di dea delle messi e quindi niente sarebbe più nato e cresciuto nei campi, “scatenando una carestia tale da distruggere l'umanità intera”.




Questa promessa fa immediatamente allarmare tutti gli dei dell'Olimpo, poiché se la carestia avesse ucciso tutti gli uomini, nessuno più li avrebbe venerati né offerto loro doni e sacrifici. La situazione allora si ribalta: “se prima era Demetra a vagare per terre, mari e cieli implorando un gesto di clemenza, ora sono le singole divinità a recarsi da lei pregandola di tornare sulla sua decisione. Naturalmente Demetra si mostra ferma e determinata, gridando al mondo intero che i campi sarebbero rimasti sterili a meno che Zeus non le avesse permesso di riabbracciare la sua Persefone”.

Zeus è costretto a capitolare, la fanciulla è liberata e, dopo averla riabbracciata, la madre annulla l'incantesimo restituendo fertilità alla terra…

È ormai tesi comune e ampiamente riconosciuta il fatto che il mito – unitamente a racconti popolari e fiabe per bambini – non sia una semplice storia fantasiosa o un po’ strampalata, ma una forma allegorica che nasconda profonde verità e insegnamenti. Tra i tanti sostenitori di questa idea, spicca in particolare la figura di Jung con la sua teoria degli “archetipi”. Da tempo, infatti, gli studi antropologici avevano rilevato l'esistenza di somiglianze e analogie fra i miti di popoli molto diversi e distanti fra loro, evidenziando come ci fossero forme e rappresentazioni costanti (archetipi, appunto), che si ritrovavano e ripetevano nel tempo.

Il mito illustra, dunque, una “realtà”, nel senso di natura archetipica, ossia comune a tutta l’esperienza umana, che nella figura di Demetra, è quella dell’essere madre, ovvero l’archetipo della figura materna.

L'aspetto materno può presentare dei tratti anche negativi che il mito non nasconde, come, ad esempio, un’eccessiva possessività nei confronti dei figli, considerare la prole come un’esclusiva proprietà, giusto per il fatto d’averla portata in grembo per nove mesi e averla partorita con dolore. L’aver dato la vita genera, in questo caso, un diritto a trattenere i figli con sé per sempre, impedendo loro di crescere e diventare autonomi.

Una limitazione che a Persefone, fortunatamente, sarà risparmiata, poiché, prima di lasciare gli inferi per tornare dalla madre, le saranno offerti da Ade dei semi di melograno che lei mangerà, e che avranno la conseguenza di un suo ritorno obbligato agli Inferi, ogni anno, durante il periodo invernale. Questi saranno i giorni delle tenebre per Demetra, della solitudine del cuore per la lontananza della figlia, simboleggiati dalla sterilità della terra e dallo spogliarsi della natura, tipici di questa stagione. Contrapposti al ritorno della luce e allo sbocciare della vita primaverili, quando la ragazza sarà di nuovo accanto alla madre.

I significati archetipici all’interno del mito di Demetra e Persefone sono diversi, qui ne vedremo solo uno, quello che più interessa la nostra indagine, relativo allo sviluppo psicologico femminile nell’ambito delle tre fasi più importanti della vita di una donna: la giovinezza, rappresentata da Persefone, la maturità, da Demetra e la vecchiaia, dalla sua metamorfosi in donna anziana.

Il rapimento della giovane conferma come la necessità di crescere per divenire una persona autonoma e matura, comporti necessariamente uno strattone, un distacco dal protettivo nido familiare. Una frattura anche per la madre la cui vita, sino a quel momento, aveva vissuto solo in funzione della figlia, col rischio che l’amore divenisse soffocante e possessivo. Alla fine, ciò non accadrà e quello che ne uscirà sarà un rinnovato e sano equilibrio. Persefone manterrà la sua autonomia senza bisogno di cancellare o “uccidere” il proprio genitore e la madre accetterà, giocoforza, il nuovo stato delle cose.

Demetra subirà una successiva metamorfosi nel periodo durante il quale sarà alla ricerca della figlia, quella in donna anziana. La vecchiaia è comunemente considerata come l’età dell’esperienza e della saggezza accumulate nel corso degli anni. Per questa ragione, in passato, erano gli anziani a detenere il potere e, per le donne, l'essere anziane, era motivo di grande considerazione e rispetto. “Il dramma di perdere la figlia ha per Demetra una funzione rigeneratrice e di trasformazione. […] L'esistenza [infatti] è costituita da fasi, tappe diversificate di un cammino che conduce verso la maturazione psicologica” (Ibid, p. 235). La mutazione in donna anziana evidenzia, quindi, il percorso di maturazione psichica di Demetra, iniziato a partire da una circostanza terribile, la tragedia per la perdita della figlia. Durante questa difficile prova, Demetra giungerà a toccare il fondo di sé, sino a sperimentare l'abisso della depressione (“...non dedicherà tempo a se stessa: non mangerà, non si laverà, non dormirà”; …ordina la costruzione di un tempio in suo onore dove si rinchiude per molto tempo). Ma da questa condizione, alla fine, emergerà rinnovata e rigenerata, riuscendo a trovare la soluzione che sbloccherà la situazione, vincendo l'indifferenza degli dei al suo dramma, ribaltando i loro atteggiamenti e, finalmente, riavrà con sé l'amata figlia.

Questo è il femminile del quale la figura della dea rappresenta l'aspetto materno. Demetra è l'archetipo della madre, colei, cioè, che mostra le qualità tipiche dell’essere madre. Caratteristiche che sono l’esatto opposto di ciò che si suole generalmente definire debole o psichicamente fragile, qualificate da incredibile energia e determinazione, forza nell’affrontare le difficoltà e i drammi della vita, capacità di sostare nel dolore, di addentrarvisi senza soccombere, e poi, da lì, da quel nucleo di sofferenza, riemergere con un vigore nuovo, dopo aver trovato in sé, nella propria natura di donna e madre, le risorse necessarie per affrontare gli ostacoli e vincere.

In definitiva, anche il mito greco antico aveva capito che femminile, precipuamente per l’aspetto materno, non significa affatto fragilità. Del resto non può essere altrimenti, poiché la vita in sé è per l’appunto una forza poderosa. Lo vediamo intorno a noi, nella natura, nel mondo, nonostante tutto, questa si è sviluppata e imposta; da quando ha fatto la sua comparsa sulla terra, niente l'ha arrestata. Non il gelo, né il caldo; non le inondazioni, né la siccità, né alcun altro fattore ambientale ostile; non le epidemie né le malattie,... e nemmeno gli errori dell'umanità..., la vita è continuata, l'uomo non si è estinto e, più di un milione di anni dopo, qui, oggi, ci siamo noi.

Tocca alla donna, molto più che all'uomo, fare esperienza di questa forza, con la possibilità a lei destinata di generare una nuova vita, accogliendola nel proprio corpo, facendola crescere dentro di sé, proteggendola, nutrendola con le proprie cellule, scambiando tacitamente con lei messaggi ormonali e fattori di crescita e, alla fine, mettendola al mondo. Dare la vita è, nell'ambito dell'umano, il più grande degli atti creativi e, come tutti gli atti creativi, richiede spirito di sacrificio e coraggio. Sacrificio nel mettere totalmente a disposizione di un altro il proprio corpo, permettendo che ne disponga trasformandolo, ingrossandolo, appesantendolo; e coraggio nell'accettare le doglie e il dolore del parto. Spirito di sacrificio e coraggio, due qualità che non vengono dal niente, che non nascono per caso, ma che sono sempre all'origine di una grande forza interiore, che le donne, in quanto donne, hanno sempre avuto.




In definitiva la natura (il Creatore, per il credente), non ha fatto la donna fragile, ma l'ha dotata dell'energia e delle forze psico-fisiche necessarie per essere in grado di accogliere e dare la vita. Se così non fosse stato, forse, noi, oggi, non saremmo qui.

Una forza che appartiene al femminile di ogni genere, come mostrano le “femmine” del mondo animale, e che gli studi di etologia confermano, insegnando come siano “le femmine – e non i maschi – le creature più combattive e coraggiose, disposte a tutto pur di difendere la prole, pronte a morire per la vita dei figli, pronte a combattere selvaggiamente per proteggere ciò che per loro ha valore” (Ibid, p. 151).

Insomma, non solo il femminile reca in sé le necessarie risorse fisiche e psichiche per generare la vita e far fronte a una gravidanza, ma, nel momento in cui la vita sboccia, queste si attivano amplificandosi in una straordinaria forza d'animo, determinazione e abnegazione. Se incombe un pericolo di vita, propria o del figlio, le donne lottano e sfoderano lucidità e serenità, dimostrando di avere, altresì, una particolare dimestichezza con la sofferenza, un'incredibile capacità di sostare nel e col dolore, guardandolo in faccia senza farsene sopraffare, e dal dolore, poi, riuscire a rinascere con un vigore e una saggezza nuovi. Ma se per caso rinascita non ci dovesse essere, se la vita dovesse finire lì (non così per il credente), non avrà importanza, andrà bene lo stesso, per l'amore grande di un figlio così si fa, per la vita di un figlio così ci si dà... come anche per la salvezza del mondo.

Ha scelto una donna e le ha chiesto il permesso





Non dimentichiamo, infatti, che è a una donna che Dio si è rivolto per venire tra gli uomini, per presentare all’umanità il suo progetto di salvezza. Il Signore non è venuto con il rombo del tuono scendendo da una nube, né giungendo dal cielo con un veicolo spaziale, né con un seguito di un'imponente Legione di Angeli. Ha scelto per sé il grembo materno, e senza imposizione alcuna. Alla giovane di Nazaret ha chiesto prima il permesso, e Maria, nella sua libertà, ha risposto . Sì al progetto di Dio, sì a permettere che il seme divino fiorisse in lei, affinché gli uomini e il mondo intero fosse salvo. Un sì pieno, senza paure: “avvenga di me quello che hai detto” - risponde Maria all'Angelo – nonostante che la società di allora punisse le “ragazze madri” con il ripudio o, peggio ancora, con la morte per lapidazione.

La gravidanza di Maria non sarà una passeggiata. Prima i legittimi dubbi di Giuseppe, le probabili mormorazioni e il giudizio dei vicini, poi il lungo viaggio a Betlemme per partecipare al censimento. Qui il parto, lontano da casa, e in un luogo non proprio consono a tale evento. Infine, subito dopo il parto, la fuga in Egitto, per sfuggire alle grinfie di Erode che voleva uccidere il bambino per il timore - del tutto travisato - che gli usurpasse il trono e il titolo di re.

Maria riuscirà, sostenuta anche dalla fede (e poi con l’aiuto di Giuseppe), ad affrontare le difficoltà e i pericoli serbando, nel segreto del suo grembo, il figlio di Dio, futuro salvatore del mondo. Un compito così tanto più grande di lei, così immenso e inimmaginabile, da rischiare di perdercisi, di soccombere al timore di non farcela, troppo grande la responsabilità da portare. Ma la giovane di Nazaret non è crollata, ha portando naturalmente a termine il compito per il quale si era impegnata, quello di essere, nientemeno, la madre di Dio.

Un impegno che la condurrà a fare i conti anche col dolore, dal quale non si sottrarrà. Insieme alle altre donne, e con l'apostolo Giovanni, sarà lì ai piedi della Croce del figlio, dove, poco prima di morire, Gesù le chiederà di continuare ad essere madre. Questa volta si tratterà di una maternità universale, quella della Chiesa, che di lì a poco avrebbe messo le sue prime, piccole, radici.

Se per mostrarsi agli uomini, Dio ha scelto una donna e il grembo materno, avrà certamente avuto i suoi buoni motivi. Chiaramente ha ritenuto che quello sarebbe stato il metodo migliore, il più adatto, il più sicuro, il più affidabile, il più efficace per realizzare il suo piano di salvezza. Dio, insomma, non è uno sprovveduto, e nel momento in cui decide di mostrare il suo volto all'uomo, per una volta, e quella sola, nella storia dell'umanità, discernerà bene le scelte, scongiurerà il rischio che qualcosa possa andare storto. Certamente sceglierà l'opzione più adeguata, quella che, tra le svariate possibilità, sarà in assoluto la migliore. E la migliore – che piaccia o no – è ricaduta su una donna. Allora le donne non sono affatto persone fragili, o psichicamente deboli, se Dio in persona ha ritenuto sicuro affidare a una di loro la vita del suo unico Figlio, colui che avrebbe redento l'umanità intera!

Una pessima figura

Le riflessioni che abbiamo fatto, - riflessioni non solo teoriche, ma accompagnate da diversi esempi concreti -, ci hanno mostrato come la supposta fragilità femminile sia un'autentica stupidaggine, un luogo comune che non fa onore all'essere donna, né rende omaggio alla sua dignità. E allora diciamolo chiaramente, il legislatore della legge 194, quale che sia il punto di vista dal quale si osserva, ha fatto una pessima figura. O è un bugiardo, uno che sa di mentire, il quale, per legalizzare un delitto, ha giustificato una fragilità che in realtà non esiste; o è ignorante in fatto di donne, uno che non sa nulla dell'universo femminile, uno che dell'altra metà del cielo non capisce un tubo. Caduto vittima, anch'esso, di certo pensiero maschilista che vede la donna come un essere fragile, indifeso e debole, succube delle sue instabilità emotive ed ormonali, quale conseguenza dei suoi cicli fisiologici. La donna come persona sentimentale, emotiva e irrazionale, un individuo inferiore, una potenziale minaccia al pensiero razionale.

Viene anche da chiedersi che fine abbiano fatto tutte le femministe, com'è che nessuna si sia mai pronunciata nei confronti di una legge, la cui attuazione lede palesemente la dignità della donna, e com'è che negli ultimi trent'anni, non sia mai stata organizzata alcuna manifestazione di piazza per protestare contro la falsità del suo articolo 4, reiterata nel successivo articolo 6. Sorge giusto il sospetto che quella dignità femminile la cui lesa maestà è, altrove, urlata con indignazione, sia stata qui sacrificata sull'altare dell'ideologia, sia stata soffocata sotto le grida di un falso diritto. Un “diritto” che dopo trent'anni mostra ormai tutte le sue crepe e magagne, che si è via via sgretolato sotto il peso del dolore delle donne, dei sensi di colpa e di una libertà fasulla, perché non ha liberato proprio niente. Un diritto che oggi possiamo definire come la più clamorosa sconfitta del genio femminile dell'epoca moderna.

Probabilmente Dio non l'ha scelta a caso, l’epoca storica per venire tra gli uomini. Ci viene da pensare che se avesse optato per la seconda metà del Novecento le cose sarebbero potute andare in modo diverso. La donna emancipata avrebbe trovato mille validi motivi per dire “no”: “No, Signore, mi dispiace, la gravidanza mi rovina la silhouette e tra un mese ho il provino per fare la velina”, “Sono ancora giovane e prima di metter su famiglia mi voglio divertire. Magari quando avrò cinquanta\sessant'anni ci penserò... e comunque, grazie, ma l'intervento divino neanche allora mi servirà, c'è la fecondazione in vitro!”, “L'utero è mio e non lo metto a disposizione di nessuno, men che meno di un ipotetico salvatore”. Oppure, al momento, avrebbe anche potuto accettare, rispondendo di , per poi ripensarci e cambiare idea. Usufruendo di una legge ad hoc, avrebbe quindi rispedito il Salvatore al mittente, insieme a quel miliardo di figli rigettati: “Ma chi me lo ha fatto fare di prendermi questa responsabilità, io non ci sto più, che si scelga qualcun'altra per il suo progetto!”.

In fondo, a che serve la salvezza, l'Inferno è giusto una favoletta propinata dalla Chiesa per spaventare gli uomini, e il Diavolo è come Babbo Natale, lo sanno tutti che non esiste. L'uomo moderno fa da sé, non ha bisogno di Dio, è lui stesso dio! Del suo volto in Gesù Cristo non sa che farsene, gli è sufficiente ammirarsi allo specchio.

La “cura” che fa ammalare

Siamo partiti con delle cifre, con dei dati inauditi che sembravano essere la conseguenza di un'epidemia globale, una patologia nuova: la fragilità psico-fisica femminile in caso di gravidanza, ma le analisi sociali e storiche, la testimonianza delle donne, le osservazioni sia laiche che religiose che abbiamo fatto – seppur in modo parziale e non approfondito -, ci hanno mostrato che, in realtà, non esiste alcuna debolezza femminile tale da giustificare quei numeri da mega genocidio, in grado cioè di provocare più di un miliardo di figli uccisi in soli trent'anni.

Tuttavia il numero rimane. E allora è lecito chiedersi: se non è stata la debolezza delle donne, cos'è che ha causato la morte di tutti quei piccoli? Molte voci sono concordi nel sostenere che – dati alla mano – sia stata proprio la legalizzazione dell'aborto, cui è seguita una progressiva perdita di sensibilità antropologica. Perché è di certo vero che gli aborti si facevano anche prima della legge, ma il fenomeno era sporadico, circoscritto, isolato, e per la donna che vi ricorreva era pur sempre un dramma, sapeva che quella non era la cura di una patologia che avrebbe messo in pericolo la sua salute, era conscia che quello che stava eliminando era un figlio e non un grumo di cellule.

Niente a che vedere con quello che è accaduto dopo l'approvazione della legge, dove l'interruzione di gravidanza è divenuta ben strutturata, organizzata, seriale, endemica e finanziata col denaro pubblico. Sostenuta da un potente apparato ideologico e mediatico che ha trasformato il figlio in un grumo insignificante; ha svuotato l'aborto dell'aspetto drammatico trasformando l'uccisione di un figlio in un diritto fondamentale dell'uomo; ha contribuito a forgiare una società ostile alla maternità e alla formazione di una famiglia; a strappare la procreazione dal grembo – a quanto pare inaffidabile - delle donne, trasferendola dentro una provetta in laboratorio; a diffondere il mito del figlio perfetto, riversando “il ruolo di sceriffi genetici sulle spalle delle donne”; a bombardare le donne di ormoni e di veleni, imbottendole di pillole per ogni occasione e per ogni età della vita.

A scindere il sesso dall'amore introducendo i più svariati sistemi contraccettivi – alcuni propriamente abortivi - la maggioranza dei quali ricade sul corpo e la responsabilità della donna; a trasformare il corpo delle donne in mero oggetto di piacere; a propalare l'idea che fosse desiderabile per la donna essere come l’uomo – anziché lavorare per valorizzare se stessa in vista di una complementarità collaborativa con il sesso opposto –, affermando, in tal modo, la tacita idea di una superiorità maschile;... Se questa è l'auspicata liberazione, se questo è quello che si voleva intendere con lo slogan “lo facciamo per aiutare le donne, per il loro bene”, vi ringrazio, ma del vostro “bene” per me, non so che farmene, e il vostro “aiuto” non lo voglio.

L'unica liberazione efficace che si è ottenuta, è stata quella di cancellare via dal mondo un miliardo di figli, per il resto si è trattato solamente della nascita di nuove schiavitù. Analizzarle adesso non è il caso, il discorso si allungherebbe troppo e ci porterebbe fuori tema, ci accontentiamo quindi di guardare le facce delle donne intorno a noi, sulle quali non ci sembra di scorgere alcuna particolare esultanza, né di vedere i tratti di quella gioia che appare sul volto dello schiavo, o del prigioniero condannato ingiustamente, quando finalmente ha riacquistato la libertà. Quelle delle femministe storiche, poi, sono veramente eloquenti, insomma, dopo la grande liberazione, iniziata quarant’anni fa, ci si sarebbe aspettato un po' più di entusiasmo, almeno una commemorazione, una marcia trionfale; invece nulla, nessuna euforia, né particolare contentezza… evidentemente qualcosa dev’essere andato storto.

In effetti c'è poco da ridere e festeggiare quando ci si accorge che, proprio l'aborto, che doveva “curare” la donna dalla malattia della gravidanza indesiderata, l'ha fatta invece ammalare; proprio l'aborto, giustificato con una fragilità psico-fisica femminile inesistente, ha reso la donna fragile per davvero. In definitiva, non solo l'aborto è una grande sconfitta per il genio femminile e per la società tutta, ma il provvedimento che l'ha legalizzato è una legge beffarda, una colossale presa in giro nei confronti della donna.

L'interruzione volontaria di gravidanza, infatti, è un evento che sul momento può apparire anche liberatorio, ma presto o tardi presenta il conto, e sarà un conto molto salato per la donna. Spiega infatti lo psicologo della personalità Aldo Carotenuto, con un'analisi tutt'altro che religiosa o morale (Ibid, p. 232), che “l’aborto dovrebbe essere evitato in tutti i modi e questo non per particolari valori o principi, ma semplicemente per il fatto che la ferita che un aborto lascia aperta nell’anima della donna non si rimargina mai. Il ricordo, le emozioni, il pensiero per il figlio che sarebbe potuto nascere ma che è stato strappato non si affievoliscono e continuano a tormentare la persona giorno dopo giorno. Per questa ragione non è raro sentire persone di quaranta o cinquanta anni pronunciare con rammarico frasi del tipo: 'oggi mio figlio avrebbe vent'anni...'. Abortire equivale a distruggere un’opera d’arte, è come se un grande pittore, creato un bellissimo quadro, lo distruggesse all’improvviso. Eliminare un’opera immortale, non è un’azione sulla quale si può passare sopra, rappresenta un grande problema che mai potrà essere del tutto superato. La perdita di un figlio, quindi, è un aspetto delicatissimo e difficile nell’esistenza di una donna, un aspetto con il quale occorre fare i conti”.

Uno di questi conti si chiama “Sindrome post-aborto. Dopo l'evento abortivo sono diversi gli stati d'animo che possono attraversare la donna. Può comparire un senso di colpa, oppure una forte rabbia e aggressività, sia verso se stessa che verso il partner, ma anche nei confronti della società in generale che non ha saputo aiutarla.

Riguardo alla patologia vera e propria è ormai disponibile un'ampia letteratura medica, elaborata da psicologi, psicoterapeuti e psicoanalisti che hanno preso in carico la sofferenza di queste donne, che conferma come l'aborto sia un evento traumatico tale da creare diversi disturbi psichici.

Rientrano tra questi, forme depressive di diversa entità che possono insorgere subito dopo l'aborto e durare per molti mesi, oppure può trattarsi di un forte stress post-aborto che compare un po' di mesi dopo l'interruzione di gravidanza, infine possono sorgere dei veri e propri traumi che possono esplodere all'improvviso anche alcuni anni dopo, o scatenarsi in concomitanza di eventi particolari o dolorosi, come una nuova gravidanza, un successivo aborto spontaneo, la perdita di una persona cara. Si parla, in questo caso, di disturbi della comunicazione, del pensiero (pensieri ossessivi), dell'alimentazione, della sfera sessuale, del sonno (incubi, insonnia), stati di ansia, fobie,... e, nei casi più gravi, anche di tentativo di suicidio.




Eloquenti sono pure le parole usate dalle donne che hanno abortito per descrivere il proprio stato d’animo e le sensazioni provate (www.postaborto.it): “... Ma il dolore che porterò dentro per tutta la vita è qualcosa di inspiegabile. Quando vedo delle donne con il pancione mi viene un magone allo stomaco. Io adesso dopo 6 mesi mi rendo conto di aver fatto uno sbaglio, lascia un vuoto dentro.” (Flora);

L'esperienza è stata abbastanza traumatica, ma non per colpa dell'azienda ospedaliera, perché 'io' mi sentivo un'assassina... mi hanno trattata in maniera dolcissima, e senza farmi sentire in colpa, questo mi ha aiutato tantissimo a superare il tutto. Adesso che ho 26 anni, ho un bimbo di 2, sono cresciuta, il mio senso di colpa si è moltiplicato... non rifarei mai più una cosa del genere.” (Valentina);

“... ho abortito e quel giorno sono morta un po' anch'io, non sono più la stessa persona.” (Bella);

Non so se mi perdonerò... non è il senso di colpa – non sono cattolica – è che per non avere avuto coraggio e fiducia mi sono privata di una cosa importantissima... penso che mi pentirò per sempre... questa è stata la prima decisione in vita mia che rimpiango fortemente, non lo rifarei mai.” (Roberta);

... Oggi piango tanto, sono sola, mio marito dal primo giorno non mi ha mai detto una parola, anche dopo l'intervento ha fatto finta che nulla fosse accaduto. L'intervento è andato bene e in ospedale sono stati tutti molto cordiali. Il giorno dopo ho sentito un grande vuoto, mi manca e mi odio per il mio egoismo e per non aver avuto un marito capace di ascoltarmi e di prendere con me la decisione più giusta. Spero un giorno di pensare a tutto questo con meno dolore.” (Maria);

... A distanza di mesi tutto è riaffiorato inesorabilmente... è come un male che si sta impossessando di me. Non riesco a darmi pace per quello che ho fatto. Non riesco più a guardare un bambino senza pensare a quello che avrei potuto avere... Adesso penso che sono stata pienamente un'egoista. Non avevo cercato e probabilmente non ero pronta per un figlio, ma comunque era una vita... […] Desidero avere una famiglia con lui [il suo ragazzo], ma spesso mi chiedo se riuscirò mai a guardare i nostri figli senza provare il rimpianto di non avere con me anche quello che ho lasciato andare via...” (Michela);

Da quel giorno è iniziato il periodo più terribile della mia vita: sono tornata insieme con il padre del bambino ma solo per pochi mesi, la nostra relazione non funzionava, continuavamo a litigare. In marzo mi ha lasciata, aveva già un'altra, per me è stato uno shock, mi sono resa conto che dovevo elaborare un doppio lutto, una doppia perdita: la sua e quella del bambino. Da sola ho cominciato a sentire tutta la pesantezza del mio gesto. […] Dall'ivg è trascorso quasi un anno ma non passa un giorno che io non ci pensi... forse era un errore... forse adesso sarei felice?” (Anna).

Sembrano più libere queste donne, dopo l'aborto? C'è qualcuno che vede in loro allegria e serenità dopo la liberazione dal figlio in grembo? È libertà portarsi nel cuore quel lutto per tutta la vita? Recare per sempre con sé il rimorso, una ferita, che influenzerà il proprio vivere da quel momento in poi; un dolore che, anche se si riuscisse a cancellare, a rimuovere, potrebbe sempre riaffiorare, all'improvviso, devastante, in eventuali future gravidanze, lutti o qualsiasi altra circostanza? E per finire, la domanda che più ci interessa: è riuscita la cura dell'aborto a scongiurare la malattia psico-fisica che la gravidanza avrebbe provocato alla donna se non fosse stata interrotta?

Ebbene, non solo la “cura” ha clamorosamente fallito visto che le donne non sono guarite, ma è stata proprio la “cura” che ha causato la malattia! E se di fragilità femminile dobbiamo parlare, lo dobbiamo fare dopo l'aborto e non prima. Così le donne sono doppiamente ingannate, con una legge truffa che prima ne fa delle poverette che non sanno più far fronte a una gravidanza non programmata senza ammalarsi e poi, grazie alla “soluzione” offerta, ottiene che si ammalino per davvero, il tutto in nome di un “aiuto” ipocrita, o di un “bene” falsamente altruistico.

Evidentemente, una legge nata da più premesse menzognere può solo reggersi continuando a giustificare una menzogna.



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