di Marina Corradi
Nell’udienza di ieri Benedetto XVI ha annunciato che il tema della sua nuova catechesi sarà la preghiera. Semplicemente la preghiera. Bisogna imparare a pregare, ha detto. E il fatto che il Papa ponga al centro la preghiera colpisce più che se additasse all’attenzione dei fedeli una complessa questione teologica. È come se un professore entrasse in classe e dicesse agli studenti: ragazzi, oggi ripassiamo l’alfabeto. È un tornare ai fondamenti, a quel primo passo di per sé già decisivo: pregare, dunque domandare a Dio. Dunque già confessarsi figli; dire che esiste un Padre, ammettere che non siamo "nostri", che non siamo di noi stessi i padroni.
Una volta, era più facile. Una volta tra i cristiani era abitudine, era normale che questo gesto anche corporeo dell’inginocchiarsi fosse tramandato dai padri ai figli, e anzi in particolare dalle madri; era il Padre Nostro insegnato in casa, all’ora di andare a dormire. Parole intrise di sonno e non ben comprese, magari, però chiare in quell’incipit: Padre. Che già imprimeva nei bambini le coordinate fondamentali: tu sei figlio di Dio, e non di un caso, e a quel Dio rispondi. E tutto il resto, i comandamenti, il discernimento del bene e del male, discendevano da lì: dal dirsi figli, creature. Che è una di quelle cose semplici, se le si impara da bambini, come la lingua materna; difficili, da grandi. Più difficili ancora oggi, quando un’altra visione del mondo si è attestata tra noi, e fin da piccoli ci insegnano che la nostra vita appartiene solo a noi, e non dobbiamo risponderne a nessuno.
Bisogna imparare a pregare, dice il Papa, e aggiunge: e imparare di nuovo, quando ci si crede spiritualmente avanzati. Perché il rischio dei maestri e dei virtuosi è di pensarsi a posto; e invece pregare è sempre tendere la mano vuota e impotente, come bambini appena nati, inermi. Come bambini che aprono gli occhi sul mondo e incontrano la faccia della madre; e in quella faccia imparano a parlare e a sorridere. Come sarebbe bello, da adulti, poter pregare Dio con la stessa limpida confidenza di un bambino con sua madre e suo padre. E noi invece, orgogliosi o distratti, non sappiamo fare ciò che sa fare un bambino.
Bisogna imparare e reimparare a pregare. Il maestro si è accorto che gli studenti hanno l’ortografia malferma, e con pazienza, senza scoraggiarsi, ricomincia da capo. Ma come impareranno quegli uomini cui nessuno ha insegnato, quei figli messi a letto da babysitter frettolose, o che si addormentano davanti alla tv? E quei genitori attenti al corso di inglese e di danza e di nuoto, che però non hanno mai detto ai figli: preghiamo? (Come in una collettiva avversione all’inginocchiarsi).
Rievangelizzare è anche questo, è anche ricominciare, umilmente, dall’alfabeto. Tornare al momento in cui la grazia interpella la nostra libertà: e felicemente, più liberi ora che prima, ci si proclama figli. Lo insegnavano le madri, una volta, e era lingua materna, naturale. Ma ora cosa può spingere tanti adulti a questo passo – che non sia il dolore, oppure la paura, quando si invecchia? Una bellezza, forse, una bellezza concreta, sotto agli occhi. Come la storia dell’uomo beatificato domenica scorsa, così dura eppure luminosa; come quel popolo che a Roma abbiamo visto dormire sui marciapiedi, quasi mendicanti – mendicanti, però, felici. Mendicanti di Cristo: nel gesto che anche stanotte si compirà di nuovo in milioni di case nel mondo – più facilmente dove si è poveri o minacciati e profughi, e il bisogno rende evidente la nostra realtà di creature. Padre Nostro, diranno, e lo insegneranno ai loro bambini. E in quel dialogo saranno uomini davvero; non un caso, non un povero nulla speso in un effimero volgere di stagioni.