Il 20 maggio si è svolto a Roma un incontro dedicato a Flannery O’Connor
in occasione della pubblicazione di una raccolta di suoi testi inediti in italiano.
Il libro — Il volto incompiuto. Saggi e lettere sul mestiere di scrivere
(Milano, Rizzoli, 2011, pagine 180, euro 9,50) — è stato curato da Antonio
Spadaro, le traduzioni da Andrew ed Elena Buia Rutt.
di ANDREA MONDA
Nel recentissimo saggio di teologia
narrativa Nulla è senza voce re a l i z -
zato per la Cittadella editrice dai
due frati francescani conventuali
Emanuele Primoli e Guglielmo
Spirito, si afferma che «la strutturale carenza dell’uomo sia la pietra
angolare su cui si poggia la sua
grandezza» perché, come osserva
Juan Ruiz De La Pena nei suoi
saggi di antropologia teologica,
Dio ha creato l’uomo come «essere
carente a cui non resta che autocompletarsi attraverso la prassi».
È in libreria un saggio di Flannery O’Connor dallo strano titolo
che richiama questo concetto di
«carenza»: Il volto incompiuto. Saggi
e lettere sul mestiere di scrivere, che
raccoglie alcuni testi, tutti inediti
in italiano, della scrittrice scomparsa nel 1964 ma la cui eredità conti
nua ancora a crescere fuori e dentro gli Stati Uniti.
Un’influenza non solo culturale
o, peggio, «letteraria», ma appunto
anche spirituale, come questo volume mette bene in evidenza, raccogliendo testi che, stranamente, erano stati espunti e accantonati dalle
precedenti edizioni dei saggi «sul
mestiere di scrivere» di Flannery
O’Connor. Il volto incompiuto, sembrerebbe un gioco di parole, di fatto però realizza il doveroso compito di colmare un vuoto che da
troppo tempo era rimasto tale: il
volto della scrittrice per il lettore
italiano ora è più chiaro, «compiuto».
Da questo punto di vista è illuminante la lunga prefazione di Antonio Spadaro (realizzatore del recentissimo blog www.flanneryoconnor.it) che in quaranta pagine stila
una vera e propria mappa geografica per orientarsi in un mondo che
è poco vasto, come estensione (due
romanzi, ventisette racconti, alcuni
saggi e molte lettere), ma abissale
per profondità.
Il luogo comune che leggere un
libro può cambiare la vita è vero,
in special modo per un’autrice
spiazzante e vertiginosa come
Flannery O’Connor, morta a soli
39 anni a causa di una dura malat
tia (lupus eritematosus), «madre» di
tanti e diversi figli a cui ha cambiato, folgorandoli, il percorso artistico: da poeti come Elizabeth Bishop e Attilio Bertolucci (è proprio
lui che si definisce «folgorato»),
narratori come Raymond Carver e
Tim Winton, registi come John
Huston e Quentin Tarantino, rockstar come Nick Cave e Bruce
Springsteen.
La cattolica Flannery O’Connor
canta la «carenza», l’incompiutezza
dell’esistenza, però la mappa realizzata da Spadaro è, al contrario,
accurata e completa e si articola at
traverso alcune tappe che toccano i
punti nodali della poetica o’connoriana: la ruvida concretezza delle
vicende narrate; l’apertura al mistero attraverso storie incarnate piene
di materia e di attenzione al dettaglio; la presenza di atmosfere grottesche, violente, imprevedibili; la
narrazione come esposizione del
dramma della libertà; l’imp ortanza
della visione e dell’occhio profetico
necessario allo scrittore (e al lettore). Impossibile qui ripercorrerle
tutte, ma colpisce la cura con cui il
curatore si sia soffermato sul tema
della concretezza intesa come virtù
necessaria per ogni scrittore.
Per Flannery O’Connor scrivere
è un po’ come fare un incontro di
boxe: in una conferenza tenuta alcuni mesi prima della morte afferma che lo scrittore deve lottare
«come Giacobbe con l’angelo (...).
La stesura di un romanzo degno di
questo nome è una sorta di duello
p ersonale». Osserva Spadaro:
«Leggere la O’Connor significa entrare nel ring delle sue pagine. Da
dove nascono le sue storie? Che
cosa le rende così intense? La sua
scrittura è molto legata al reale,
mentre è del tutto disinteressata ai
labirinti della psicologia» e cita
una famosa affermazione della
scrittrice: «La narrativa riguarda
tutto ciò che è umano e noi siamo
polvere, dunque se disdegnate
d’impolverarvi, non dovreste tentar
di scrivere narrativa».
Non è un caso che la O’Connor
apprezzasse un romanziere come
Graham Greene che nei suoi Sagcattolici sostiene che «La letteratura
non ha niente a che fare con l’edificazione spirituale. Con ciò non
voglio affermare che la letteratura
sia amorale, ma che ha una sua
morale propria (...). I romanzieri
cattolici (ma preferirei chiamarli romanzieri che sono anche cattolici)
dovrebbero scegliere a loro patrono
il cardinale Newman. Nessuno intese meglio di lui i loro problemi e
li seppe più abilmente difendere
dagli attacchi dei bigotti. (...) Newman [che così] difende l’insegnamento della letteratura nelle università cattoliche: “Se la poesia deve servire allo studio della natura
umana, non si pretenda una letteratura cristiana. È un controsenso,
infatti, voler ritrarre un’umanità
peccatrice in una letteratura scevra
di peccato. Si può forse mettere insieme qualcosa di molto grande e
sublime, più sublime di quanto sia
mai stata la poesia: ma se la si esamina ben bene ci si accorgerà che
poesia non lo è affatto”».
Tutto questo vale a fortiori p er
Flannery O’Connor. La scandalosa
ruvidezza delle storie, dei colpi di
scena e dei personaggi che la narratrice crea con una scrittura fresca,
colorata, quasi pittorica, è associata
appunto alla concretezza, massima
«virtù» per questa donna del sud
degli Stati Uniti che si definisce
scrittrice non «benché» ma «in
quanto» cattolica. E concretezza
vuol dire essenzialmente niente
idee, astrazioni o sentimentalismo,
non emozione bensì azione.