di Pietro De Marco
A coronamento del suo primo pellegrinaggio a Firenze, il 19 ottobre 1986, Giovanni Paolo II aprì l’omelia della messa celebrata allo Stadio comunale con l’impressionante domanda di Gesù: “Ma il Figlio dell’uomo, quando verrà, troverà la fede sulla terra?” (Luca 18, 8).
Nella mia memoria lo stadio, meno capiente dell’attuale, era pieno, ma nei giorni precedenti l’attraversamento della città fatto dal papa era stato seguito da poche persone. Un amico osservò, con un sottinteso polemico e apocalittico: “Povero papa!”, come a dire: la Chiesa si muove ormai nell’irreversibile indifferenza degli uomini. Evocare invece l’inquietante brano evangelico, nella certezza delle “cose sperate”, ma evocarlo, e farvi fronte, era invece il nuovo stile del vescovo di Roma. Carisma saliente e vittorioso.
L’ufficio delle letture della messa per il nuovo beato riprenderà la sua omelia del 22 ottobre 1978, per l’inizio del pontificato: “Pietro voleva abbandonare Roma. Ma il Signore è intervenuto. Gli è andato incontro. Pietro tornò a Roma ed è rimasto qui fino alla sua crocifissione”. Una crocifissione che, sembra dire il papa, è quella di allora e quella di oggi.
Nella quarta parte del suo testamento, scritta nel febbraio del 1980, accanto alla riflessione sulla morte e sul giudizio particolare, leggiamo un accenno alle cose della storia. I tempi sono “indicibilmente difficili e inquieti”, “difficile e tesa anche la via della Chiesa”. Il riferimento è ad “un periodo di persecuzione” più grave delle persecuzioni dei primi secoli, per “spietatezza e odio”. Rilevante è la “causa” che – scrive il papa – “cerco di servire”, ovvero: “la salvezza degli uomini, la salvaguardia della famiglia umana, e in essa di tutte le nazioni e dei popoli”, con un richiamo anche alla Polonia. È l’accettazione, fino da allora, della personale morte (“la Pasqua”) che accende la speranza di Wojtyla sui suoi stessi frutti: una Pasqua “utile” alla salvezza dei popoli, delle persone particolarmente affidate al papa, alla chiesa, alla gloria di Dio.
L’articolazione del progetto del nuovo papa è chiara: nella dedizione di sé, ciò che si chiede a Dio è d’ottenere, anche nella propria finitezza e morte e quasi in virtù di esse, la “salus” della famiglia umana. Chi non ha vissuto quegli anni non può sapere quanto implausibili suonassero allora queste parole ai cristiani. Wojtyla ci è stato maestro di plausibilità cattolica.
“La forza dei martiri e la paura dei cristiani” è il titolo di un paragrafo del libro, di vasto e giudizioso respiro, dedicato da Andrea Riccardi al papa (”Giovanni Paolo II. La biografia”, 2011). Nell’uomo Wojtyla, e nel santo, il momento martiriale, come testimonianza voluta e come martirio subíto, è dunque essenziale. Obiettivamente travolge, e un po’ ridicolizza, il cristianesimo “borghese” (democrazia, partecipazione, moderazione nella e della Chiesa) caro ai suoi critici. Nella visita ad Ali Agca in carcere il papa non “dialoga”, porta e chiede (chiede!) il perdono.
La forza del suo carisma autentico viene da più lontano e ha più spessore della stessa aura, del nuovo rispetto – finalmente, penoso paradosso, anche tra i cattolici – che l’attentato del 1981 procura alla persona del pontefice. Incastonato nel terzo segreto di Fatima (“Prostrato in ginocchio ai piedi della grande croce venne ucciso…”, trascrive suor Lucia) quel 13 maggio 1981 apre alla teologia della storia del Novecento. Veri segni dei tempi, l’odio della “civitas hominum” (”civitas diaboli”) e la protezione della Mediatrice vengono in collisione. L’azione di Dio conserva e destina una vita, quella di un papa, a un compito storico nuovamente all’altezza del suo ufficio. È molto piccolo borghese la nostra reazione di fastidio alla visione del proiettile incastonato nella corona della Vergine, o all’ampolla col sangue del papa, che si è deciso di conservare ed esporre alla memoria e al culto. Come ogni reliquia ci ricordano, invece, che il Sacro non si cura del nostro gradimento; ci sovrasta; è oltre, è là, come il sangue di Karol, il suo addome devastato, la sua obiettiva vicinanza alla morte.
Non so se tutto ciò sia una “perla” di Wojtyla. L’idea di Alberto Melloni di cogliere addirittura “cinque perle” nel pontificato (vedi il suo recente “Le cinque perle di Giovanni Paolo II”, 2011), idea generosa da parte di un critico tagliente di Giovanni Paolo II (”Chiesa madre, chiesa matrigna” di Melloni è appena del 2004), resta, a mio avviso, al di sotto della realtà, e non tanto per il tono concessivo o la selezione partigiana. Piuttosto, perché premia atti del pontificato che, isolati, possono invece apparire, come apparvero alle sinistre non meno che alle destre, incompleti, secondari, erronei.
Se esaminiamo le “perle” una per una, torna subito alla mente che a sinistra l’assise straordinaria dei vescovi del 1985, la prima perla, fu giudicata una decisione tardiva e innocua. L’incontro di Assisi, altra perla, fu giudicato dai progressisti (ne ho precisa memoria) uno scivolone sincretistico, sorprendente in un papa conservatore, o forse sintomatico della sua confusione teologica. Le richieste giubilari di perdono furono deprezzate come una manovra, nel suo fondo arrogante o ipocrita. La visita alla Sinagoga creò pochi entusiasmi (l’intelligencija non ama l’ebraismo istituzionale). L’opposizione alla guerra irakena, nel 2003, fu forse l’unica “margarita” che nella cosiddetta “opinione pubblica della Chiesa” non abbia corso il rischio paventato in Matteo 7, 6.
Le “cinque perle” papali non mi sembrano tali, nel senso che non sono singolarità. Sono atti tra altri non meno potenti ma anche molto diversi; uniti nell’unità della “complexio” degli opposti cattolica, e meglio comprensibili, tutt’altro che appiattiti, nell’intero progetto del pontificato di Giovanni Paolo II. Il cardinale Tarcisio Bertone (”Un cuore grande. Omaggio a Giovanni Paolo II”, 2011) attesta la fermezza del papa nel rendere pubblica, accentuando la propria piena condivisione, la dichiarazione dogmatica “Dominus Iesus” del 2000, preparata da Joseph Ratzinger. Vi è “perla” più preziosa, nel successore di Pietro, che saper affermare, alla svolta di millennio, in un isolamento di Roma impressionante, l’unicità e universalità salvifica di Cristo, senza negare l’evento interreligioso di Assisi? Wojtyla fu questa “complexio”; e questo fu il Concilio che egli interpretò e proseguì.
Così, atti di governo, politiche, stili pastorali o ascetici, aperture e chiusure dottrinali e disciplinari, assunti o favoriti da Giovanni Paolo II, sono stati “martirio” anch’essi. Il sangue invisibile di quel martirio è conservato oggi nella teca del ministero petrino, che il successore di Wojtyla può mostrare integra, dopo la durezza del “certamen”, al mondo.
di Pietro De Marco
I cristiani d'Occidente, e non solo i cristiani, debbono a Giovanni Paolo II la ripresa del coraggio, e della capacità di parlare nell'arena pubblica con il linguaggio che appartiene al genio del cristianesimo.
Questa riconquista, ossia la ripresa di questa forza sotto la sua guida, ha richiesto lunghi anni. Era necessario, ad esempio, ritornare a parlare quel linguaggio dapprima entro il "noi" ecclesiale e cattolico, a cominciare con se stessi: la discussione, la ruminazione delle convinzioni e della rappresentazione delle cose, sono anzitutto, e conclusivamente, atti interni. È nel processo interiore che si giocano i linguaggi e la loro plausibilità.
Karol Wojtyla è stato prima di tutto maestro di plausibilità cattolica: “Permettete a Cristo di parlare all'uomo!”. E ancora: “Cristo sa cosa è dentro l'uomo. Solo Lui lo sa” (1978).
Ed è stato maestro su due frontiere. Quella del confronto di civiltà e quella dei saperi cristiani positivi.
La prima. Appena fatto papa, indossate le armi spirituali del proprio ruolo universale senza smettere quelle della propria appartenenza nazionale, Karol Wojtyla va al cuore del "Dio che è fallito". È il suo primo viaggio in Polonia. La sfida evangelizzante, alta e pubblica, mistica e politica, è dunque plausibile. Non lo sarà subito. Anzi, non lo sarà ancora per svariati anni.
Nel decennio Settanta la cultura cattolica europea è nel pieno della sua deriva invisibilista, a causa dell'immersione laica e secolarizzante nelle "realtà terrene" e nel "mondo adulto". È una deriva maturata, sia pure con le migliori intenzioni, sul terreno di una vera e drammatica separatezza dal mondo. Divenuto come incapace di soggettività e di azioni se non imitative (mobilitazione, utopia, rivoluzione), l'intelletto cattolico era come dimentico, e quasi improvvisamente incapace di essere matrice di civiltà, sistema di saperi insostituibili, Weltanschauung con capacità affermative ed antagonistiche necessarie all'equilibrio della storia del mondo.
Certo, molto di questa soggettività cattolica, ricostruita laboriosamente tra il XIX e il XX secolo, era stato speso in una conflittualità antimoderna che le "libertà" cristiane degli anni Sessanta giudicavano severamente. Comunque, il collasso postconciliare circa l'attitudine affermativa cattolica (ovvero la rinuncia volontaria ad essa) resta di difficile comprensione. Nonostante la capacità di resistenza, che costituisce l'effettiva grandezza del pontificato di Paolo VI, quando Karol Wojtyla accede al pontificato tutto questo era ai livelli di gravità massima, mascherato talora nell'intelletto cattolico dalla certezza di una rigenerazione cristiana in corso. I cattolici militanti parlavano con linguaggi altrui, con riferimenti e valori legittimati al di fuori o dal di fuori di ciò che era la loro ricchezza e la loro misura delle cose.
L'altra frontiera su cui Giovanni Paolo II è stato maestro è, dunque, necessariamente interna, e strettamente connessa. Per Karol Wojtyla, l'ordinamento fondamentale dei saperi come delle virtù cristiane, dei compiti come degli uffici ecclesiali, è irrinunciabile: nei suoi contenuti, nella loro architettura gerarchica, nel loro senso tradito, nella loro intima verità.
Quello che i critici gli rimprovereranno di aver impedito, andava impedito; di non aver perseguito, non andava perseguito; di aver combattuto, andava combattuto. Un incredibile coraggio, il suo, in quegli anni, quale poteva possedere solo chi avesse sperimentato l'invisibilizzazione coatta dei credenti nella sfera pubblica neutralizzata dei paesi comunisti. E chi, in rapporto a questo, avesse vissuto il valore decisivo di saperi e istituti, di fedeltà e decisioni, e della loro determinatezza: i “dogmi” cattolici.
Solo quando l'egemonia che persegue la distruzione (o l'addomesticamento e l'umiliazione) della tua presenza ha preso corpo attorno a te, hai gli strumenti per cogliere altrove le egemonie striscianti e sorridenti, fatte di elogi della tua indecisione e inerzia cristiana (celebrata come problematicità), e della tua emarginazione dalle architetture dei valori comuni, lodata sotto il segno della superiore alterità dello "spirituale".
Il papa polacco sapeva. Karol Wojtyla, con la sapienza di un pastore educato al confronto con le sfide della storia e la forza di un "classico" (i suoi stessi maestri teologici), ha rovesciato pro nobis la tendenza alla santità dell'indeterminato, ha vanificato l'illusione del non-apparire virtuoso.
Ha insegnato e praticato “sacra doctrina” e, assieme, “militia sacra”. Ha ricordato che la Chiesa cristiana è anche, inseparabilmente, forma storica e pubblica, “civitas Dei” a suo modo responsabile degli uomini storici che sono anche i suoi propri cittadini.
Ovunque nel mondo, papa Wojtyla ha essenzialmente esercitato una milizia ri-evangelizzatrice e ri-civilizzatrice. Ha trovato, in Occidente, molti cristiani smarriti in una lettura dei "segni dei tempi" di cui altri dettavano le regole.
Ora li lascia dotati almeno un po' della sua forza – "non abbiate paura" –, moltissimo della sua speranza e di quello statuto di roccia che egli ha innanzitutto restituito alla coscienza della Santa Chiesa.