Nei litigiosi comuni medievali sempre in guerra fra loro si parlava moltissimo di pace: ogni podestà entrando in carica, secondo la situazione politica, pronunciava un discorso in cui sottolineava la volontà di mantenere la pace o al contrario di portare guerra ai vicini. Noi siamo abituati a considerare gli splendidi affreschi dipinti fra il 1338-39 da Ambrogio Lorenzetti nel Palazzo Pubblico di Siena come gli affreschi del Buono e Cattivo Governo, ma nel Medioevo erano noti come gli affreschi di Pace e Guerra. Ascoltiamo Bernardino da Siena, che ne diede una perspicace descrizione predicando nella Piazza del Campo nel 1427: «Ella è tanto utile cosa questa pace! Ella è tanto dolce cosa pur questa parola "pace" che dà una dolcezza a le labra! Guarda el suo opposito, a dire "guerra!".
E una cosa ruida tanto, che dà una rustichezza tanto grande, che fa inasprire la bocca. Doh, voi l’avete dipenta di sopra nel vostro palazzo, che a vedere la Pace dipenta è una alegrezza. E così è una scurità a vedere dipenta la Guerra dall’altro lato». E due anni prima, nel 1425 aveva ancora spiegato: «Io ò considerato quando so’ stato fuore di Siena, e ò predicato de la pace e de la guerra che voi avete dipenta, che per certo fu bellissima inventiva. Voltandomi a la pace, vego le mercanzie andare atorno; vego balli, vego racconciare le case; vego lavorare vigne e terre, seminare, andare a’ bagni, a cavallo, vego andare le fanciulle a marito, vego le grege de le pecore etc.
E per queste cose, ognuno sta in santa pace e concordia. Per lo contrario, voltandomi da l’altra parte, non vego mercanzie; non vego balli, anco vego uccidare altrui. O donne! O uomini! L’uomo morto, la donna sforzata, non’ armenti se none in preda; uomini a tradimento uccidare l’uno l’altro; la giustizia stare in terra, rotte le bilance e lei legata, co’ le mani e i piedi legati». Tuttavia, se osserviamo la splendida figura della Pace biancovestita nell’affresco, con la testa cinta d’ulivo e un ramo d’ulivo in mano, vediamo subito che è una ben strana Pace perché riposa sopra un letto di armi e i piedi sono sopra uno scudo.
Nel Medioevo infatti, porgere l’ulivo aveva un altro significato rispetto al nostro, condizionato dalla colomba biblica della fine del Diluvio universale. Nel Medioevo si dava l’ulivo come segno di sconfitta al nemico vinto e basta leggere il cronista fiorentino Giovanni Villani per convincersi, quando narra di una vittoria fiorentina contro i senesi: i fiorentini «a dispetto de’ Senesi, e a ricordanza di vittoria, ripiena di terra, vi piantarono suso uno ulivo, il quale infino a’ nostri di’ ancora v’era», o ancora, quando ricorda Cola di Rienzo ebbro di potere per avere sottomesso i Colonna: «Ne montò in gran pompa e superbia e mandonne lettere e messi con olivo al nostro comune [Firenze] significando la sua gran vittoria e a quello di Perugia e Siena e ad altri comuni vicini suoi confidenti».
Dunque una pace armata, un ulivo simbolo di sconfitta. Francesco d’Assisi, poco più che ventenne, partecipò alla disastrosa battaglia di Collestrada in cui gli assisiani furono pesantemente sconfitti dai perugini e trascorse quasi un anno nelle durissime prigioni di quella città. Ne uscì fortemente segnato. Nei lunghi anni che lo portarono alla conversione e poi durante la sua nuova vita di predicatore, si fece carico della terribile situazione politica del suo tempo e dimostrò ai suoi cittadini, attraverso la condotta sua e dei numerosi compagni che un’altra strada era possibile. La realtà assisiana fu un laboratorio di meditazione per costruire un modello di comportamento che pacificamente si contrapponesse a quello in auge e che pacificamente lo scardinasse.
Una volta il vescovo di Assisi, Guido I, ebbe a dire a Francesco: «La vostra vita mi sembra dura e aspra, poiché non possedete nulla a questo mondo». Rispose il santo: «Messere, se avessimo dei beni, dovremmo disporre anche di armi per difenderci. È dalla ricchezza che provengono questioni e liti, e così viene impedito in molte maniere tanto l’amore di Dio quanto l’amore del prossimo. Per questo non vogliamo possedere alcun bene materiale a questo mondo». Francesco considerava le armi una tale sciagura da sconsigliare addirittura il possesso di ogni bene pur di non incorrere nel rischio di doversi armare. In una bellissima pagina del Sacro patto con Madonna Povertà, alla richiesta della bella dama di avere un coltello per il pranzo i frati rispondono: «Non abbiamo il fabbro che ci faccia spade». Praticando la radicale povertà evangelica non coltivano nemmeno un orticello, perché non vogliono possedere, così come rifiutano anche una piccola lama perché potrebbe trasformarsi in arma.
La pace di Francesco non si basava su un accordo politico, ma su un rivolgimento interiore, nel riconoscere i propri torti, aprirsi verso il prossimo. Quando il santo venne a sapere del grave dissidio fra il vescovo e il podestà aggiunse una strofa al Cantico di frate Sole: «Laudato si, miu Signore, per quilli ke perdonano per lo tuo amore e sostengun enfirmitate e tribulatione. Beati quilgli kel’l sosterrano en pace, ka da te, Altissimo, siranno coronati». Chiese al vescovo e al podestà e ai cittadini di radunarsi nello spiazzo interno del chiostro del palazzo episcopale e vi mandò i suoi frati a cantare il Cantico, completato dalla nuova strofa del perdono.
Al termine il podestà scoppiò in lacrime, poi si gettò ai piedi del vescovo dicendogli: «Per amore del Signore nostro Gesù Cristo e del suo servo Francesco, eccomi pronto a soddisfarvi del tutto, come a voi piacerà». A sua volta il vescovo riconobbe pubblicamente di essere portato all’ira, si accusò di mancanza di umiltà e chiese perdono. «E così i due si abbracciarono e baciarono con molta cordialità ed affetto». Questa era la pace di Francesco.
Chiara Frugoni