di Andrea Monda
Il 25 febbraio 1968 il gesuita Maurice Giuliani, direttore della rivista “Christus”, scrive al padre provinciale J. Lesage: «Da molto tempo, il p. De Certeau è un soggetto di inquietudine veritiera. La sua perpetua tensione verso degli oggetti nuovi di ricerca, l’interesse appassionato (alla maniera di un adolescente molto dotato) che egli porta a tutte le cose, la sua quasi impossibilità di scegliere e fissarsi hanno fatto che, dopo un anno di esperienza (nel 1955-1956 credo), io mi sono sempre opposto a che ritornasse a “Christus”».
Nella prefazione italiana al saggio di Michel de Certeau Lo straniero o l’unione nella differenza (forse il testo migliore per accedere al variegato e complesso mondo del pensatore francese), il teologo Pierangelo Sequeri lo presenta così: «Un uomo fondamentalmente semplice, che tale è rimasto sino alla fine, alle prese – suo malgrado, si direbbe – con le infinite sollecitazioni di una ricerca difficile».
Di questa difficoltà De Certeau si fa carico già nel 1953, in una lettera al domenicano Claude Geffré, in cui sottolinea la «necessità della riflessione e della filosofia in teologia: fuori di là, tutto si ferma ad una nomenclatura storica». È da questa consapevolezza agostiniana, per cui la fede deve essere pensata, che scaturisce una singolare figura di teologo che apparentemente poco si occupa di teologia ma di tante altre cose (storiografia, mistica, psicoanalisi, ermeneutica, etnologia, linguistica, antropologia, fenomenologia del Sessantotto) diventando in ogni campo da lui attraversato un rifondatore o quanto meno un pensatore che costringe i contemporanei e i successori a un confronto serrato con la sua riflessione.
Autori come Foucault, Derrida, Lévinas, Ricoeur, Lacan non possono essere affrontati senza passare per la severa lente dell’intelligenza di De Certeau. Il 13 gennaio 1986, al suo funerale parteciparono quasi quattrocento personalità del mondo accademico e intellettuale tra cui, oltre quelli citati, F. Furet, J. Kristeva, J. Le Goff, A. Touraine, J. Green, M. Detienne… Come disse Serge Leclaire: «Guarda! Chi a Parigi può riunire in una stessa sala persone così diverse e che si detestano tutte?». Il suo segreto era nel fatto che, come ricordò il suo antico superiore Odilon de Varine, «era così fraterno, avvincente per la sua ricerca di Dio e, nello stesso tempo, così diverso, strano [étranger] come forse la verità».
A venticinque anni dalla morte, si assiste oggi a un rinato interesse rispetto alla sua opera, nascono siti internet e gruppi di studio dedicati alla sua figura e aumenta il numero delle tesi di laurea sul suo pensiero in Francia, Italia e Germania mentre, a livello editoriale, c’è una riscoperta dei suoi libri e solo nel 2010 sono stati pubblicati in Italia tre suoi testi fondamentali: Lo straniero o l’unione nella differenza (Vita e Pensiero), Sulla mistica (Morcelliana) e Il cristianesimo in frantumi (Effatà).
Perché oggi rispunta fuori De Certeau? E, prima ancora, quali sono i nodi centrali della sua riflessione? Difficile rispondere anche perché, già a livello linguistico, egli appare un autore ostico e impegnativo.
Si potrebbe applicare al suo stile quello che lui scrive dello stile di Jean de Labadie, uno dei mistici del Seicento oggetto della sua indagine storiografica: «Strana retorica dei suoi testi. Il suo stile combina l’arte di far credere al bisogno di aggredire. Seduce e irrita. C’è molto di edificante nei suoi discorsi, e spesso monotono. Ma, sotto il mantello anonimo, brilla il coltello con cui colpisce il pubblico e i dogmi tranquillamente installati nel consenso. Taglia».
Anche De Certeau taglia, come dimostra un brano proprio dell’Étranger: «Noi aggiustiamo le parole della rivelazione alla nostra mentalità, che partecipa necessariamente del nostro tempo. Così nascondiamo i miracoli: ci fermiamo di preferenza alle pagine dottrinali; in quelle insistiamo su quanto ci chiama alla giustizia, alla fraternità, alla comunione ecclesiale, ma siamo molto discreti sull’inferno e su Satana, sulla rottura col mondo».
È proprio questo uno dei suoi temi fondamentali, la rottura intesa come cifra della storia, come ciò che rende possibili i passaggi e con essi la vita. Per il gesuita francese la vita della Chiesa procede per discontinuità e fratture; compito dello storiografo è quindi quello di leggere le crepe, gli iati, gli abissi che si aprono nella storia. La Chiesa, per De Certeau, si fonda tra le sponde di questi luoghi di cesura come dimostra il triduo pasquale segnato dai passaggi tra la morte e la resurrezione e tra la resurrezione e la nascita della Chiesa.
Il sabato della storia è il titolo di un famoso saggio di Joseph Ratzinger dedicato al Sabato Santo, ma anche un’efficace espressione applicabile all’indagine realizzata dal De Certeau storiografo. L’immagine del sabato, della cesura tra la morte e il ritorno di Cristo permette di collegare il tema della rottura con un altro nodo centrale nella riflessione di De Certeau: l’assenza.
Studiando la mistica del Cinquecento e Seicento, constata che i mistici cristiani sono testimoni del Dio mancato, dell’Assente. L’assenza per De Certeau diventerà il tema fondamentale della metodologia storiografica, dell’ecclesiologia e della mistica. Per il teologo francese la Chiesa c’è perché manca Gesù, se lui ci fosse ancora sulla terra non esisterebbe. Anche la storiografia c’è perché il passato manca, l’evento non è più. Gli storici e i cristiani sono entrambi rabdomanti di tracce di un’assenza, di un Dio e di un evento passato. Il compito quindi della storiografia, dell’ecclesiologia e della mistica consiste nel decifrare, nel ricordare un’assenza. In questo lavoro di decifrazione c’è il passaggio del riconoscimento dell’altro, dell’Altro che è passato, che è e resta l’Inafferrabile (in questo senso è significativo il titolo del libro ancora oggi più famoso in Italia di De Certeau: Mai senza l’altro): senza l’altro, senza la differenza, l’uomo non può capire né capirsi.
Momento cruciale della biografia di De Certeau è il Sessantotto, una stagione che vivrà sul serio, come rivoluzione culturale, sulla sua pelle. Da subito, prima degli altri, egli si rende conto che con quella stagione il cristianesimo deflagra (Le Christianisme éclaté, il volumetto appena pubblicato col titolo Il cristianesimo in frantumi) e nel ’69 pubblica La presa della parola, il cui titolo fa il verso alla “presa della Bastiglia”. De Certeau intuisce e predica un cristianesimo realizzato, esposto, minoritario, debole (“debole” nel senso forte della parola, molto prima dei vari Vattimo scrive Debolezza del credere. Fratture e transiti del cristianesimo, pubblicato postumo nell’87) in cui intravede qualcosa che poi sarà elaborato, in diverso modo, da Martini e da Ratzinger sulla Chiesa come minoranza creativa.
La passione con cui si getta in questa stagione gli costerà non poche incomprensioni e ostilità, fuori e dentro la Compagnia di Gesù (e anche il progressivo allontanamento dal suo maestro, Henri de Lubac), ma sarebbe errato ridurre De Certeau a uno scapigliato ribelle che si scaglia contro l’istituzione e l’autorità. L’istituzione per lui è anzi essenziale, rappresentando proprio quell’alterità che permette il movimento della fede, l’unione della differenza. È tranchant quando afferma, nel Cristianesimo in frantumi, che «lo spontaneismo resta ideologico. Ignora semplicemente le determinazioni antecedenti che organizzano sempre le nuove creazioni».
Su questo è molto chiaro Sequeri: «La liquidazione dell’istituzione della fede neutralizza semplicemente la circolazione della parola e l’obiettivo della comunione [...] La differenza fra la lettera che uccide e lo spirito che vivifica non va cercata in questo modo. È lavoro assai più fine». Il richiamo alla finezza introduce l’ultimo tassello di questo mosaico, inevitabilmente riduttivo, su De Certeau: lo stile.
Su questo punto ha qualcosa da dire il teologo benedettino Elmar Salmann che da anni porta avanti una riflessione sul cristianesimo come stile: «L’approccio di De Certeau con la modernità non è il solito piagnisteo ecclesiastico sulla secolarizzazione; al contrario, egli assume la sfida posta dalla contemporaneità. In quanto intellettuale francese, egli può senz’altro essere snervante, ma è anche vero che egli coglie qualcosa di cruciale anche oggi: in un’epoca di agnosticismo è vitale il suo sottolineare l’aspetto xenologico, il vedersi con gli occhi dell’altro. È lo stesso approccio assunto dal Concilio Vaticano II, la cui novità essenziale risiede nello stile piuttosto che nel contenuto dei documenti: uno stile empatico, in vista dell’altro e partendo dall’altro. Di questo stile, che nel Concilio era semiconscio, De Certeau, con sorprendente rapidità, ne fa uno statuto, grazie alla sovrapposizione feconda della storiografia mistica con la stagione del Concilio e del Sessantotto. La domanda su come vivere da cristiani nella contemporaneità De Certeau la pone con rude franchezza già mentre avviene la deflagrazione del cristianesimo e la separazione tra società e Chiesa».
Ovviamente, avverte Salmann, l’insidia maggiore oggi è quella di fare di De Certeau un feticcio, categorizzando e ideologizzando i singoli aspetti (la rottura, l’alterità, il corpo) e dimenticando che la sua grandezza sta nel suo metodo, nell’essere un uomo-laboratorio: «In De Certeau vita e studio sono uniti indissolubilmente. Sono evidenti nella sua opera l’influenza di Ricoeur e della simbologia, Derrida e lo strutturalismo, di Foucault, Lévinas, di Lacan e della psicoanalisi. Ma egli non dipende da questi autori, non è un mero interprete quanto piuttosto rinviene delle orme nella sua prassi che si fa laboratorio ed esplorazione. Questo è ciò che fanno solo i grandi, come Kant, come Freud. Gli altri mi appaiono piuttosto come degli ‘amministratori’ della storia dello spirito».
Ha ragione quindi Sequeri nel parlare di “uomo semplice”. Spiega Salmann: «In De Certeau c’è una elementarità una unione tra vita e studio per cui la vita è, in modo fluido e naturale, un laboratorio. Ora, siccome la Chiesa è molto complessa, l’elementarità è vista come un elemento di disturbo. Anche la scelta di far sentire al suo funerale la canzone di Edith Piaf, Non, je ne regrette rien, non è l’atto di un insurrezionalista ma la testimonianza di chi vuole dire, in modo elementare, che ha sempre ricominciato da zero, vivendo in pieno la sua vita, mosso da quella “inquietudine veritiera” e da quella “incapacità a fissarsi” già intuita nel Sessantotto dal suo direttore Maurice Giuliani».
“Il Foglio”, 5 marzo 2011