DISCERNERE

Uno sguardo profetico sugli eventi

Dolori di successo. Dopo zombie e vampiri i romanzi per adolescenti scoprono la malattia Il nuovo filone si chiama “sick-lit” e divide i critici




ELENA STANCANELLI

La Repubblica 3 marzo 2013

Sembra che le malattie siano diventate
uno degli argomenti
preferiti dagli adolescenti. E il
cinico mercato editoriale fiuta
l’affare. Never Eighteen di Megan
Bostic, So much to live fordi
Lurlene McDaniel, Red Tearsdi
Joanna Kenrick, The probability
of miracles di Wendy Wunder,
Voglio vivere prima di morire
di Jenny Downham (pubblicato
in Italia da Bompiani)...
per citare solo alcuni bestseller.
Bastano i titoli per capire di
cosa si tratta: ragazzini pallidi,
che imbastiscono amori e amicizie
tra corsie di reparti oncologici
e gruppi di appoggio,
mentre nei loro corpi variamente
mutilati scorre il veleno
della chiemioterapia, entra ed
esce l’ossigeno pompato dalle
bombole. Gli ultimi mesi, spesi
tra desideri da realizzare e lunghe
chiacchierate per sviscerare
il mistero dell’esistenza. Gli
americani, tassonomisti indefessi
e geni della titolazione del
mondo, hanno battezzato
Sick-lit questo sottoinsieme
della letteratura YA (young
adult).
Dopo zombi e vampiri the

next big thingsarebbe dunque
il cancro. Ma vanno forte anche
l’anoressia, (tra questi Zoe
letting Go di Nora Price e Wintergirls
di Laurie Halse Anderson,
pubblicato in Italia nella

collana Y, di Giunti, l’unica vera
collana di narrativa young
adult che sia stata tentata da
noi) la depressione, l’autolesionismo.
Persino Quel che ora
sappiamo – l’ultimo libro di
Catherine Dunne, l’autrice del
tristemente noto La metà di
niente – ha per protagonista un
ragazzino che si uccide, dopo
aver cercato di arginare l’angoscia
ferendosi braccia e gambe.
Dell’ossessione adolescenziale
per il suicidio racconta anche
Julie Anne Peters in By the time
youread this I’ll be dead. Il fascino
per i corpi manomessi, le
menti mangiate dal rovello, la
consunzione della carne che
sveglia il desiderio sessuale:
vecchie storie, nostri eterni topoi
letterari. Ma la questione,
quella che ha posto il Daily Mail
qualche giorno fa, è che questa
letteratura in particolare è immaginata
esplicitamente per
degli adolescenti. Quanto è pericoloso
– si chiede Amanda
Craig, tra le massime esperte di
letteratura per ragazzi, intervistata
dal Daily Mail– consegnare
a ragazzi molto giovani storie
nelle quali la malattia e la mortificazione
del corpo, sono presentati
come luoghi della conoscenza

addirittura condizioni
di privilegio emotivo? La letteratura
per ragazzi pretende una
enorme responsabilità sociale
e morale. Scrittori, ma soprattutto
editori, hanno il dovere di
tener conto che in quella fase
della vita siamo particolarmente
fragili, oltre che incredibilmente
portati all’imitazione,
dice. E cita un precedente molto
noto, un libro destinato agli
adulti ma diventato, quasi suo
malgrado, un cult per gli adolescenti.
«Mi chiamo Salmon, come
il pesce. Avevo quattordici
anni quando fui uccisa, il 6 dicembre
del 1973». Amabili resti,
di Alice Sebold. Una storia terribile
narrata dalla voce leggera
della ragazzina morta. L’impatto
del lutto sulla sua famiglia,
le indagini che portano all’arresto
del serial killer, il mondo
di chi resta, visto attraverso
gli occhi di chi non c’è più.
Amabili resti non è certo un libro
malizioso, non indulge e
non specula. Ma sveglia un appetito,
crea un desiderio, secondo
Craig. Mette a punto
quella dinamica tra tema tragico
e tono brillante, sceglie la
morte, la sua seduzione/repulsione,
come motore della
storia. Manca solo l’amore, ma
a questo penseranno i vampiri.
Saranno le creature esangui,
celebrate dalla saga di Twilight,
a portare nella YA il pathos
sentimentale e il sesso. La formula
è completa, il successo
matematico. Curioso come sia
stata proprio Kristen Stewart,
eroina cinematografica della
saga di Stephenie Meyer, a impersonare
la protagonista di
Speak, una ragazzina che subisce
uno stupro durante un
party e viene perseguitata dai
compagni quando si decide a
denunciarlo, storia scritta dalla
già citata Laurie Halse Anderson,
tra gli autori considerati
da salvare, in una perfetta e
moralmente sostenibile biblioteca
Sick-lit. Tout se tien....
Ma il vero caso letterario che
ha dato origine alla polemica è
il romanzo di John Green, Colpa
delle Stelle, pubblicato qualche
mese fa anche in Italia da
Rizzoli. Che la giornalista Michelle
Pauli, rispondendo dal
Guardian all’articolo del Daily
Mail, difende invece con tenacia.
È un libro che consiglio, che
offre spunti di riflessione su
amore, amicizia, famiglia, scrive
la giornalista. Non capisco
per quale motivo dovremmo
bandire dalla letteratura per ragazzi
proprio i temi attraverso i
quali si svolge la loro crescita,
compresa la depressione, la
sessualità, e in certi casi la malattia.
La protagonista del romanzo
di Green, Hazel Grace,
ha sedici anni, è vergine, «diagnosi
di cancro alla tiroide in fase
IV a tredici anni... tre mesi
dopo la prima mestruazione.
Tipo: congratulazioni! Sei una
donna. Adesso muori». Augustus
Waters invece è reduce da
un osteosarcoma che gli ha
mangiato una gamba, ma
adesso sta bene. È bello, atletico,
intelligente, sexy. E si innamora
di Hazel durante un incontro
al gruppo di appoggio.
Hazel e Augustus non piangono
mai, quasi mai..., leggono
ossessivamente il romanzo di
uno scrittore olandese che parla
di una ragazzina che muore
di cancro e si intitola Un’imperiale
afflizione, e perdono insieme
la verginità in Olanda.
Ma dal momento che «il mondo
non è un ufficio esaudimento
desideri» non ci sarà un lieto
fine, anche se sarà comunque
una fine diversa da quella che ci
si aspetta.
Colpa delle stelle è un libro
ben scritto, mai patetico, forte e
non retorico. I nostri ragazzi,
scrive Michelle Pauli sul Guardian,
hanno bisogno di leggere
libri che parlino della vita, non
solo di gnomi, maghi, vampiri,
libri che esplorino esperienze
che li riguardano o potrebbero
riguardarli. E la sofferenza è
certamente tra queste, come
sapeva anche la mia generazione
che è cresciuta guardando
Heidi e piangendo calde lacrime
sulle sue disgrazie. E io mi
fido degli scrittori che si rivolgono
agli YA, perché sono tra i
più seri, scrive la giornalista, e
consapevoli della loro grandissima
responsabilità. John
Green è certamente tra questi.
Dunque la questione della Sicklit,
secondo il Guardian e secondo
molti blog e siti americani
che si occupano di YA, non riguarderebbe
gli scrittori ma
editori senza scrupoli, che cavalcano
il fenomeno buttando
in pasto agli adolescenti robaccia
arrabattata, morbosa e volgare.
La morte sì, ma con stile.




Tutte le metafore
di un malessere
molto più profondo

UMBERTO GALIMBERTI



reud ci ha insegnato che accanto alla pulsione di
vita c’è in noi anche la pulsione di morte che si
esprime in tutte quelle forme di autodistruttività
da cui i giovani non sono assolutamente immuni.
Anzi, proprio nella giovinezza, in cui si sperimenta il massimo
della forza biologica, c’è quel gusto del rischio e dell’eccesso
che rasenta spesso l’invalidità quando non addirittura
la morte.
C’è allora bisogno di quella letteratura che intrattiene
i giovani sui temi delle malattie irreversibili, o di quelle
che senza speranze conducono alla morte? Oppure su
quelle pratiche di autolesionismo a cui molti giovani si
dedicano nel segreto dei loro vissuti autodistruttivi, quasi
volessero punirsi da sé per colpe, spesso a loro stessi
sconosciute, da cui il dolore autoinflitto dovrebbe redimere?
O infine quella sfida con la morte che si chiama
anoressia, dove il piacere del controllo totale, giocato sul
registro di quel bisogno primario che è la fame, offre, al
prezzo della propria consunzione, l’ebbrezza di una
quotidiana vittoria su quanto la vita esige per poter vivere?
Io direi proprio di no, anche se Montaigne scrive: «Se
fossi un facitore di libri, farei un registro commentato
delle diverse morti, perché chi insegna agli uomini a morire,
insegna loro a vivere».
Sarà. Ma se adottassimo come chiave interpretativa
il titolo di quel libro fortunato di Susan Sontag, La malattia
come metafora, non potremmo leggere il cancro,
l’autolesionismo l’anoressia e in generale tutte quelle
forme di sofferenza che oggi sembrano avere tanto successo
nella letteratura per giovani, come una metafora
di quella vera e più profonda malattia che talvolta porta
i giovani al suicidio o al tentato suicidio, per una totale
mancanza di prospettive e di progetti, quando non
di sensi e di legami affettivi, per cui, come ultimo rimedio,
non resta che la malattia, per riscuotere un minimo
di attenzione, di cura, di compassione e in ultima
istanza di amore?
Se questa ipotesi ha una sua plausibilità non è un caso
che questo tipo di letteratura sia nata proprio oggi
quando i giovani toccano con mano che nessuno sembra
aver bisogno di loro, nessuno li chiama per nome,
nessuno offre loro uno straccio di prospettiva per il loro
avvenire, per cui preferiscono vivere di notte, rifiutando
la vita che si svolge di giorno per non assaporare la loro
esclusione, oppure consegnandosi alla droga, o per sentirsi
vivi nonostante tutto, o per anestetizzarsi e diventare
insensibili al dolore che scaturisce dal toccare con mano
quotidianamente la loro insignificanza sociale.
Questa malattia, di cui le malattie cliniche sono solo
metafore, non è di origine psicologica, ma culturale. Appartiene
cioè alla cultura del nostro tempo che Nietzsche,
centocinquant’anni fa, in un lampo profetico, aveva
chiamato “nichilismo” e così descritto: «Manca lo
scopo, manca la risposta al perché. Tutti valori si svalutano
». Che i valori si svalutino non è un problema. Ogni
generazione ha svalutato valori logori e dato vita a nuovi
valori. Ma là dove manca lo scopo, dove non c’è una risposta
al perché della propria esistenza, che ai giovani
d’oggi appare inessenziale perché il futuro, da promessa,
è divenuto per loro una minaccia, come si fa a inventare
nuovi valori in questo scenario chiuso non solo alla
promessa, ma addirittura alla speranza?
La letteratura Sick-lit, come viene battezzata questa
offerta letteraria di malattie cliniche nei romanzi per giovani,
magari con intenti educativi per affinare la loro
sensibilità, in realtà non intercetta la vera malattia che
oggi angoscia la condizione giovanile perché, nell’atmosfera
nichilista che li avvolge, i giovani possono
senz’altro appassionarsi alla sofferenza propria o altrui,
come l’umanità ha sempre fatto, ma così facendo li si inganna,
perché, come ci ricorda Günther Anders: la loro
vita «non appare priva di senso perché costellata dalla
sofferenza, ma al contrario appare insopportabile, perché
priva di senso».
Se questo è vero, come io credo, una letteratura sulla
sofferenza che intreccia l’amore e il sesso alla sofferenza
e alla malattia, se non è inutile, è senz’altro ingannevole,
perché non è all’altezza del dolore giovanile che oggi soffre,
per un deserto troppo arido, troppo avaro di senso.