Brunico (Val Pusteria). Estate 2016 |
"....Quell'anticipo di simpatia senza il quale non c'è
nessuna comprensione" (J. Ratzinger)
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L'INIZIAZIONE CRISTIANA CUORE E FONDAMENTO DELLA MISSIONE DI
UN VESCOVO, E, QUINDI, DELLA CHIESA
Tutto quanto è grande ha bisogno di un percorso per potervisi
addentrare. Tanto più la Misericordia divina, che è inesauribile! Una volta
afferrati dalla Misericordia, essa esige un percorso introduttivo, un cammino,
una strada, una iniziazione. Basta guardare la Chiesa, Madre nel generare per
Dio e Maestra nell’iniziare coloro che genera perché comprendano la verità in
pienezza. Basta contemplare la ricchezza dei suoi Sacramenti, sorgente sempre
da rivisitare, anche nella nostra pastorale, che altro non vuol essere che il
compito materno della Chiesa di nutrire coloro che sono nati da Dio e per mezzo
di Lei. La Misericordia di Dio è la sola realtà che consente all’uomo di non
perdersi definitivamente, anche quando sventuratamente egli cerca di sfuggire
al suo fascino. In essa l’uomo può sempre essere certo di non scivolare in quel
baratro in cui si ritrova privo di origine e destino, di senso e
orizzonte. Il volto della Misericordia è Cristo. In Lui essa rimane una
offerta permanente e inesauribile; in Lui essa proclama che nessuno è perduto -
nessuno è perduto! -. Per Lui ognuno è unico! Unica pecora per la quale Egli
rischia nella tempesta; unica moneta comprata con il prezzo del suo sangue;
unico figlio che era morto ed ora è tornato vivo. Vi prego di non avere altra
prospettiva da cui guardare i vostri fedeli che quella della loro unicità, di
non lasciare nulla di intentato pur di raggiungerli, di non risparmiare alcuno
sforzo per recuperarli. Siate Vescovi capaci di iniziare le vostre Chiese
a questo abisso di amore. Oggi si chiede troppo frutto da alberi che non sono
stati abbastanza coltivati. Si è perso il senso dell’iniziazione, e tuttavia
nelle cose veramente essenziali della vita si accede soltanto mediante
l’iniziazione. Pensate all’emergenza educativa, alla trasmissione sia dei
contenuti sia dei valori, pensate all’analfabetismo affettivo, ai percorsi
vocazionali, al discernimento nelle famiglie, alla ricerca della pace: tutto
ciò richiede iniziazione e percorsi guidati, con perseveranza, pazienza e
costanza, che sono i segni che distinguono il buon pastore dal mercenario.
Mi viene in mente Gesù che inizia i suoi discepoli. Prendete
i Vangeli e osservate come il Maestro introduce con pazienza i suoi nel Mistero
della propria persona e alla fine, per imprimere dentro di loro la sua persona,
Egli dona lo Spirito che “insegna tutte le cose”. Sempre mi colpisce una
annotazione di Matteo durante il discorso delle parabole che dice così: «Poi
[Gesù] congedò la folla ed entrò in casa; i suoi discepoli gli si avvicinarono
per dirgli: “Spiegaci…”». Vorrei soffermarmi su questa annotazione
apparentemente irrilevante. Gesù entra in casa, nell’intimità con i suoi,
la folla resta fuori, si accostano i discepoli, domandano spiegazioni. Gesù era
sempre immerso nelle cose del suo Padre con il quale coltivava l’intimità nella
preghiera. Perciò poteva essere presente a sé stesso e agli altri. Usciva verso
la folla, ma aveva la libertà di rientrare. Vi raccomando la cura
dell’intimità con Dio, sorgente del possesso e della consegna di sé, della
libertà di uscire e di tornare. Essere Pastori in grado anche di rientrare in
casa con i vostri, di suscitare quella sana intimità che consente loro di
accostarsi, di creare quella fiducia che permette la domanda: “Spiegaci”. Non
si tratta di una qualsiasi spiegazione, ma del segreto del Regno. È una domanda
rivolta a voi in prima persona. Non si può delegare a qualcun altro la
risposta. Non si può rimandare a dopo perché si vive in giro, in un imprecisato
“altrove”, andando da qualche parte o tornando da qualche luogo, spesso non ben
saldi su sé stessi. Vi prego di curare con speciale premura le strutture
di iniziazione delle vostre Chiese, particolarmente i seminari. Non lasciatevi
tentare dai numeri e dalla quantità delle vocazioni, ma cercate piuttosto la
qualità del discepolato. Né numeri né quantità: soltanto qualità. Non private i
seminaristi della vostra ferma e tenera paternità. Fateli crescere fino al
punto di acquisire la libertà di stare in Dio “tranquilli e sereni come bimbi
svezzati in braccio alla loro madre” (cfr Sal 131,2); non preda dei
propri caprici e succubi delle proprie fragilità, ma liberi di abbracciare
quanto Dio chiede loro, anche quando ciò non sembra dolce come fu all’inizio il
grembo materno. E state attenti quando qualche seminarista si rifugia nelle
rigidità: sotto c’è sempre qualcosa di brutto. (Papa Francesco, Discorso ai
Vescovi di recente nomina)
LA LUCE DEL BATTESIMO
Per prima cosa, ha spiegato il Papa, non bisogna cadere in
un equivoco, perché di solito «noi, nel parlato quotidiano, diciamo: “Ma,
questa è una persona luminosa; questa non è luminosa”». In realtà nel Vangelo
«non si parla di questa luminosità umana. La luce del Signore non è simpatia,
soltanto. C’è un’altra cosa». Infatti «custodire la luce è custodire qualcosa
che ci è stata data come dono e se noi siamo luminosi, siamo luminosi» nel
senso «di aver ricevuto il dono della luce nel giorno del Battesimo». Proprio
per questo, ha aggiunto, «all’inizio, nei primi secoli della Chiesa, anche in
alcune Chiese orientali ancora il battesimo si chiama “l’illuminazione”»; e
ancora oggi, «quando noi battezziamo un bambino, diamo una candela, con la
luce, come segno: perché è la luce che è il dono di Dio». Ora, ha continuato
Francesco, questa luce che dà Gesù nel battesimo «è una luce vera», una luce
«che viene da dentro, perché è una luce dello Spirito Santo. Non è una luce
artificiale, una luce truccata. È una luce mite, serena che non si spegne più».
Per questo «non va coperta». E «se tu copri questa luce, divieni tiepido o
semplicemente cristiano di nome». Per meglio comprendere la natura di questa
luce che «Gesù ci dice di custodire» e «che ci è stata data in dono a tutti»,
il Pontefice ha richiamato anche il brano evangelico della trasfigurazione:
«pensiamo al Tabor, quando lui fa vedere tutta la luce che lui ha»... «Siate
figli della luce, e non figli delle tenebre; custodite la luce che vi è stata
data in dono il giorno del battesimo». E, concludendo, ha invitato «tutti noi
che abbiamo ricevuto il battesimo» a pregare lo Spirito Santo affinché «ci
aiuti a non cadere in queste abitudini brutte che coprono la luce, e ci aiuti a
portare avanti la luce ricevuta gratuitamente, quella luce di Dio che fa tanto
bene: la luce dell’amicizia, la luce della mitezza, la luce della fede, la luce
della speranza, la luce della pazienza, la luce della bontà». (Papa Francesco, Omelia a Santa Marta, 19 settembre 2016)
IL BENE NON TOLLERA IL FRIGORIFERO
«Non dire al tuo prossimo: “Sì, va, va, va... ripassa e te
lo darò domani”. Se tu possiedi adesso ciò che ti chiede — e questo è un
argomento tanto forte, nella Bibbia — non fare aspettare quello che ha bisogno;
non pagare lo stipendio il giorno dopo». Francesco ha anche fatto un esempio
citando un passo del libro dell’Eso do: «Se tu hai in pegno il suo mantello,
perché gli hai fatto un prestito, daglielo alla sera, perché possa dormire».
Tutto questo per raccomandare: «Mai rimandare il bene». In tal senso il Papa ha
utilizzato un’immagine molto concreta: «Il bene non tollera il frigo», cioè non
va conservato; «il bene è oggi, e se tu non lo fai oggi, domani non ci sarà.
Non nascondere il bene per domani». (Papa Francesco, Omelia a Santa Marta, 19 settembre 2016)
LITIGI
«Non litigare senza motivo con nessuno, se non ti ha fatto
nulla di male». Anche qui si riaffaccia la vita quotidiana. Ha sottolineato
Francesco: «Come ci piace litigare, eh? Sempre. Sempre cerchiamo qualcosina per
litigare. Ma alla fine stanca litigare: non si può vivere» così. «È meglio — ha
aggiunto — lasciar passare, perdonare...», al limite «far finta di non vedere
le cose» pur di «non litigare continuamente». (Papa Francesco, Omelia a Santa Marta, 19 settembre 2016)
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IN PRIMO PIANO
NAZISMO 3.0. IN BELGIO IL PROGRESSO INGOIA I BAMBINI
Il programma di eutanasia infantile della Germania nazista,
guidato dal dottor Karl Brandt, non fu condotto nei campi di Auschwitz e
Treblinka. Prese il via, più sottilmente, nelle corsie di ospedale. L’eutanasia
dei bambini per legge riappare settant’anni più tardi, per gli stessi motivi e
in un paese che condivide una frontiera con la Germania: il Belgio. E’ successo
che a un diciassettenne Fosse impartita la “dolce morte”. Settant’anni fa, fu
soltanto grazie Alla denuncia di un vescovo, August von Galen, se i tedeschi
vennero a conoscenza dell’annientamento dei bambini, dei malati, degli
handicappati. “Il primo convoglio dei condannati a morte senza alcuna colpa è
partito da Marienthal”, disse dal pulpito Von Galen. Questi fece i nomi e
circostanziò le accuse. Oggi l’eutanasia infantile è eseguita con il plauso di
tutti. Quando il Belgio discuteva di questa orrenda legge pilatesca, sulla
prima pagina del Morgen sedici pediatri lanciarono un appello: “Euthanasie voor
kinderen. Nu”. Eutanasia dei bambini, ora. Giovanni Paolo II disse: “Se
l’uomo può decidere, senza Dio, ciò che è buono e ciò che è cattivo, egli può
anche disporre che un gruppo di uomini debba essere annientato”. Anche inermi
bambini, della cui “qualità di vita”, e della sua durata, si vorrebbe decida
una commissione, con l’agghiacciante presenza dei genitori. Anche il dottor
Brandt si giustificò evocando la sofferenza delle sue vittime al processo di
Norimberga: “Volevo abbreviare l’esistenza tormentata di tali creature
infelici”. Oggi, in Belgio, Karl Brandt, anziché in cima alla forca, sarebbe a
capo di una commissione medica per la cura dell’infanzia.
CERCARE E TROVARE A TUTTI I COSTI LA FESSURA ATTRAVERSO CUI
POSSA PASSARE IL SOFFIO DEL TEMPO CHE RESTA COME UN'ALTRA POSSIBILITA'
Una vita puoi non riuscire a salvarla, ma di quella vita
devi prenderti cura fino alla fine. E’ il senso di una legge molto importante
che in Italia è stata approvata sei anni fa, la legge numero 38 del 2010: regola
le cure palliative pediatriche e la terapia del dolore, prevede, precisamente,
l’accompagnamento alla fine di un bambino inguaribile, il suo diritto alla
migliore vita possibile, fino a che sarà possibile. Eliminare il dolore,
aiutare i genitori, aiutare anche a far comprendere il significato e
l’opportunità, nei casi estremi, della sedazione continua. E’ un’idea di mondo
totalmente diversa, che va oltre il bisogno sanitario e anche oltre l’idea di
trionfo della medicina, che apre la testa alle necessità della vita. Dove c’è
un bambino che soffre, e che non guarirà, deve esserci un mondo intero di
aiuto, una rete di soccorso, e la consapevolezza che un bambino non è un
piccolo adulto, ma è un universo a parte, con malattie e con reazione alle
malattie molto diverse, e che degli adulti ha bisogno e che agli adulti si
affida. L’umanità del dolore non è un’espressione vaga, riguarda le
persone una per una, riguarda i palloni e le punture, gli orsi di pezza e i
film alla tivù e la mamma che gli tiene la mano tutto il tempo, e non riguarda
nemmeno Dio, ha spiegato la dottoressa Franca Benini, che ha portato le cure
palliative in Italia e che lavora ventiquattr’ore su ventiquattro all’Hospice
Pediatrico di Padova (ma la legge 38 va applicata in ogni regione italiana, e
tutto il mondo la studia): quando la vita diventa estrema e grida bisogni ogni
istante, l’uomo deve dare una risposta. Non significa rimuovere la morte,
metterla in un angolo, non accettarne la possibilità, l’inevitabilità, e
perfino, anche se suona brutale, il sollievo che potrebbe portare con sé. Ma
significa vivere per la vita, per trovare una fessura, da qualche parte, in cui
possa passare il senso del soffio di tempo che resta, non come un conto alla
rovescia ma come un’altra possibilità. Un bambino delle elementari, malato
inguaribile e gravissimo, ha detto che è diverso il dolore fuori dal dolore
dentro. Che cos’è il dolore dentro? E’ quando sei solo. Le legge 38 del
2010 è stata fatta per non lasciarli soli, fino alla fine. (Annalena Benini, Il
Foglio 20 settembre 2016)
"ADESSO TI ADDORMENTI E POI STARAI MEGLIO"
Dicono che la
legge belga che consente l’eutanasia anche ai bambini, senza limiti di
età, sia “rigorosa”. La Prof.ssa Claudia Mancina, docente di etica alla
Sapienza di Roma, si è spinta a dire che se lalegge belga finora non era
stata mai applicata ai minori, allora vuol dire che è “ben fatta”: chissà se si
è resa conto che, continuando il suo ragionamento, visto che invece, in dieci
anni le richieste di eutanasia per i maggiorenni sono continuamente e
considerevolmente aumentate, si dovrebbe dedurre che la legge in generale è
stata un totale disastro, e andrebbe ritirata. Tanto rigore viene spiegato con
i requisiti “stringenti” richiesti: il minore deve avere una malattia
in stato terminale, e soffrire dolori che non si possano alleviare. Ma già qui
non ci siamo, perché è noto che, fortunatamente, a oggi non esistono sofferenze
che non si possano lenire con terapie dedicate, dalle terapie del dolore alla
sedazione palliativa continua profonda (la cosiddetta “sedazione terminale”,
che non ha niente a che vedere con l’eutanasia), sono molti i mezzi con cui
controllare il dolore fisico.Quindi una delle condizioni richieste, in pratica
non si verifica mai, e l’eutanasia, a rigor di legge, dovrebbe essere
dichiarata sconfitta e bandita innanzitutto da chi dice di credere nella
scienza ufficiale, quella certificata, la stessa che ci ha regalato i vaccini e
la chemioterapia, tanto per intenderci, salvando milioni di vite. Il messaggio
dovrebbe essere quindi il contrario: affidiamoci alla scienza, e potremo morire
con dignità, senza dolore, senza farci uccidere dai medici. Ma alcuni sedicenti
paladini del progresso sembrano improvvisamente colpiti da una strana afasia,
quando si parla di fine vita: all’improvviso la scienza non c’entra,
quel che conta è la “libera scelta” di morire. Ma c’è un aspetto ancora più
inquietante – se possibile – della faccenda, su cui è bene soffermarsi: oltre
l’equipe medica che ha in cura il malato che chiede l’eutanasia, ci deve
essere uno psicologo che, nel caso di un minorenne, ne valuti la capacità
di giudizio. Lo psicologo deve accertarsi che il ragazzino abbia ben capito
cosa significa morire, perché la legge belga – che consente
l’eutanasia a tutti, senza limiti di età – prevede che sia il minore
a chiederla, ripetutamente, e che i genitori diano il proprio consenso.
Cerchiamo quindi di seguire lo svolgersi dei fatti, così come descritto dalla
norma, ma non in modo burocratico: pensiamo per un momento al succedersi reale
degli eventi. Un bambino sofferente chiede di morire. Lo chiede
ai medici, lo chiede a suo padre e a sua madre, più volte. Dice che non ce
la fa più. Allora arriva uno psicologo che si mette a parlare con lui, e
parlano di morte. Lo psicologo gli deve spiegare cosa significa morire, e
probabilmente gli fa anche delle domande, per rendersi conto se il
ragazzino ha capito bene. Ma di che parlano, concretamente? Cosa si dicono? E
lo fanno in presenza dei genitori, o no? E questi, se sono presenti, a loro
volta, che dicono al figlio? E lo psicologo, che cosa gli dirà, della
morte? Non è come quando viene il prete con l’estrema unzione. Quali
domande potrà fare, lo psicologo, per essere certo che il ragazzino ha capito
che sta chiedendo di essere ucciso? E che i suoi genitori sono
d’accordo? Sarà detta la verità, al ragazzino – è il tuo ultimo
giorno qua, è l’ultima volta che vedi i tuoi – o in nome della libera scelta
gli saranno dette mezze verità – adesso ti addormenti e dopo starai meglio? E
se il ragazzino capisce veramente, e chiede cosa succede dopo, domanda cosa lo
aspetta dopo che sarà morto, lo psicologo che cosa potrà rispondere? E tutto
questo c’è qualcuno che ha il coraggio di chiamarlo “diritto”? Piuttosto,
non dovremmo chiamarlo “rovescio”? Rovescio della libertà, rovescio dell’amore,
rovescio della scienza, rovescio dell’arte medica, insomma, il rovescio
dell’umano? (Assuntina Morresi, L'Occidentale)
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FOOD-PORN, PERCHE' IL CIBO E' MEGLIO FOTOGRAFARLO E POSTARLO
CHE MANGIARLO (ALMENO NON INGRASSA). UNA PARABOLA TRAGICA SULLA NOSTRA
(IN)CIVILTA'
Nell'era di internet tutto è diventato più social, le nostre
giornate, le nostre abitudine e anche il cibo che mangiamo: ecco che proprio
così è nato il foodporn. La pratica, agli inizi, non era molto
diffusa in Italia. Il primato spetta agli Usa, ma da qualche anno, in
particolare con la crescente diffusione di Instagram, anche noi ci
siamo adattati al foodporn: non vediamo l'ora di fotografare e condividere sui
social le immagini dei nostri piatti per ricevere un mare di like. Questa
ossessione di immortalare tutto ciò che ci circonda ha invaso anche la tavola e
gli effetti molte volte sono devastanti. Sì, perché spesso siamo più
concentrati a fotografare il nostro piatto che a gustarlo. Quante volte
capita di essere al ristorante, ordinare, aspettare impazienti l'arrivo del
nostro piatto e...tac, quando arriva fare subito una bella fotografia da
mostrare agli amici? Prima non era così. Prima non si vedeva l'ora che
arrivasse il piatto per poterlo divorare. Stando ai dati TradeLab, come
scrive Repubblica, quando si va al ristorante, un intervistato su quattro
pubblica immagini o video della propria esperienza nel locale. Per avere
idea delle dimensioni del fenomeno, è sufficiente fare una ricerca su Instagram
perché proprio questo social è stato scelto come meta preferita del foodporn.
Se cerchiamo la parola chiave #foodporn vengono fuori 70,3 milioni di
risultati. Una vera mania viene da dire. Tra le altre cose, molti chef sono contrari
a questo fenomeno perché lamentano che i loro piatti hanno dei tempi ben
precisi che questa pratica distrugge. "Spesso - dice lo chef Tomei
- il nostro cibo è fatto per essere mangiato in pochi minuti. Con il foodporn
si perde tempo e i nostri piatti perdono quella particolarità che li
caratterizza".
MADRI ANSIOSE E QUEL CORAGGIO CHE PUO' RENDERLE FORTI ANCHE
SE DEBOLI
SILVANA DE MARI
Le madri ansiose sono in costante bilico sulla catastrofe, la
tubercolosi che ci travolgerà se non mettiamo la maglietta di lana, il trauma
cranico che arriverà se ci arrampichiamo su qualche cosa, la congestione che ci
fulminerà se andiamo in acqua con una briciola nello stomaco. Le madri sono
ansiose perché così insegnano la prudenza.
Le madri troppo ansiose tirano su dei figli che diventano a volte adulti fobicii, ma una madre ansiosa ci trasmette il senso del nostro valore.
Però se il compito delle madri è insegnare la prudenza e raccomandare la facilità e la comodità, quello dei padri è insegnare il coraggio, la lealtà, l’etica.
Nei popoli dove c’è uno squilibrio tra maschile e femminile si perde l’equilibrio. I padri si sono diradati. La paternità si è spampanata negli ultimi 60 anni, i valori maschili si sono persi e dispersi e con loro il coraggio.
Siamo un’epoca ansiosa e spaventata anche perché più nessuno insegna il coraggio.
Il coraggio adesso si chiama sindrome dell’eroe.
Un passaggio indispensabile è il coraggio. Senza coraggio non è possibile ottimismo e senza ottimismo non è possibile felicità.
Siamo la prima epoca dall’inizio del mondo che ha beatificato la vigliaccheria e che disprezza il coraggio, si chiama sindrome dell’eroe, stupendosi ancora che, senza coraggio, non sia possibile vivere e costruire.
Il coraggio è la capacità di agire in maniera lucida o in maniera etica anche in presenza della paura. La paura è, insieme al dolore, la custode della vita.
Una persona che si trovi in mezzo a un incendio se resta lucido aumenta le sue capacità di trovare una via di fuga. Il coraggio è un adattamento evoluzionistico. In un incendio il coraggio può spingerci a rischiare di essere uccisi o ustionati per salvare un bambino intrappolato. In entrambi i casi il coraggio mi spinge ad affrontare un dolore o rischio immediato, levarmi da dove sono e fare, in cambio di un bene futuro, la mia sopravvivenza, la sopravvivenza di colui che sto salvando, cioè il percepirmi come persona etica. O se preferite in cambio di un dolore immediato, muovermi, affrontare le fiamme, evito un dolore più grande futuro, la mia morte, o il mio percepirmi come un cialtrone che ha fatto morire un altro in un incendio.
Il pavido terrorizzato è una figura perdente perché non è in grado di fare questa scelta. Nelle catastrofi collettive, affondamento del Titanic, tzunami, cinema in fiamme, crollo dello stadio, nella maggioranza dei casi non c’è nulla da fare, ma in una piccola parte di casi c’è una via di uscita e in se c’è una possibilità di fare qualcosa e salvarsi, i coraggiosi ci riescono, perché la paura genera paralisi.
Se torniamo alla definizione di coraggio, la capacità di agire in maniera lucida o in maniera etica anche in presenza della paura, si evince che dove non ci sia paura non può esserci coraggio.
La paura è l’ emozione primaria, quella che compare per prima nella nostra vita, già l’ameba se si avvicina uno spillo cerca di spostarsi perché ne ha paura. Se non avessimo paura, passeremmo il tempo a guidare contromano con i fari spenti di notte per vedere cosa si prova. Gli affetti da analgesia congenita, una rarissima malattia che impedisce di provare dolore, tendono a ferirsi, ustionarsi e ammazzarsi con sconvolgente facilità.
La paura è disinserita nell’ubriacatura, da alcool, da allucinogeni, da anfetamina, metanfetamina, cocaina, da fanatismo e molto diminuita in molte psicosi. Le persone molto coraggiose, ma veramente tanto, che rischiano continuamente la vita in sporto estremi, ma veramente tanto estremi, spesso hanno forme di disequilibrio. Dove non c’è paura, non può esserci coraggio. La mancanza di paura e il coraggio quindi non sono sinonimi, anzi sono antitetici.
Noi amiamo la morte e voi amate la vita , ed è per questo che voi perderete è la frase classica dell’orco. Chi ama la morte e lo dichiara, sempre , è un individuo schiacciato dalle frustrazioni e in particolare quella sessuale. Chi ama la morte non è coraggioso. Non è coraggio, ma psicosi, e le spicosi, questa è un’informazione tecnica, non una metafora, sono contagiose. La radio di Goebbles, la maledetta radio hutu in Rwanda, internet ora, possono veicolare il virus del vittimismo omicida.
Ma, attenzione, anche il coraggio è contagioso. Il capo carismatico è colui che riesce a infondere il coraggio. E può anche essere un personaggio non fisicamente presente, perché è un personaggio storico o perché non è mai esistito. Noi amiamo il Fantasy perché i grandi eroi e quelli piccoli (Sam e Frodo) contagiano il coraggio.
E tra tutti gli uomini eroici, come ci ha ricordato Chesterton, grandissimo è anche l’uomo che ha affrontato l’avventura incredibile di essere padre, la donna che ha accolto l'avventura di essere madre. Eroi quotidiani la mamma e il papà che tengono tutti i giorni a galla la barchetta con dentro i bambini.
Un saluto anche ai pompieri di Amatrice.
Le madri troppo ansiose tirano su dei figli che diventano a volte adulti fobicii, ma una madre ansiosa ci trasmette il senso del nostro valore.
Però se il compito delle madri è insegnare la prudenza e raccomandare la facilità e la comodità, quello dei padri è insegnare il coraggio, la lealtà, l’etica.
Nei popoli dove c’è uno squilibrio tra maschile e femminile si perde l’equilibrio. I padri si sono diradati. La paternità si è spampanata negli ultimi 60 anni, i valori maschili si sono persi e dispersi e con loro il coraggio.
Siamo un’epoca ansiosa e spaventata anche perché più nessuno insegna il coraggio.
Il coraggio adesso si chiama sindrome dell’eroe.
Un passaggio indispensabile è il coraggio. Senza coraggio non è possibile ottimismo e senza ottimismo non è possibile felicità.
Siamo la prima epoca dall’inizio del mondo che ha beatificato la vigliaccheria e che disprezza il coraggio, si chiama sindrome dell’eroe, stupendosi ancora che, senza coraggio, non sia possibile vivere e costruire.
Il coraggio è la capacità di agire in maniera lucida o in maniera etica anche in presenza della paura. La paura è, insieme al dolore, la custode della vita.
Una persona che si trovi in mezzo a un incendio se resta lucido aumenta le sue capacità di trovare una via di fuga. Il coraggio è un adattamento evoluzionistico. In un incendio il coraggio può spingerci a rischiare di essere uccisi o ustionati per salvare un bambino intrappolato. In entrambi i casi il coraggio mi spinge ad affrontare un dolore o rischio immediato, levarmi da dove sono e fare, in cambio di un bene futuro, la mia sopravvivenza, la sopravvivenza di colui che sto salvando, cioè il percepirmi come persona etica. O se preferite in cambio di un dolore immediato, muovermi, affrontare le fiamme, evito un dolore più grande futuro, la mia morte, o il mio percepirmi come un cialtrone che ha fatto morire un altro in un incendio.
Il pavido terrorizzato è una figura perdente perché non è in grado di fare questa scelta. Nelle catastrofi collettive, affondamento del Titanic, tzunami, cinema in fiamme, crollo dello stadio, nella maggioranza dei casi non c’è nulla da fare, ma in una piccola parte di casi c’è una via di uscita e in se c’è una possibilità di fare qualcosa e salvarsi, i coraggiosi ci riescono, perché la paura genera paralisi.
Se torniamo alla definizione di coraggio, la capacità di agire in maniera lucida o in maniera etica anche in presenza della paura, si evince che dove non ci sia paura non può esserci coraggio.
La paura è l’ emozione primaria, quella che compare per prima nella nostra vita, già l’ameba se si avvicina uno spillo cerca di spostarsi perché ne ha paura. Se non avessimo paura, passeremmo il tempo a guidare contromano con i fari spenti di notte per vedere cosa si prova. Gli affetti da analgesia congenita, una rarissima malattia che impedisce di provare dolore, tendono a ferirsi, ustionarsi e ammazzarsi con sconvolgente facilità.
La paura è disinserita nell’ubriacatura, da alcool, da allucinogeni, da anfetamina, metanfetamina, cocaina, da fanatismo e molto diminuita in molte psicosi. Le persone molto coraggiose, ma veramente tanto, che rischiano continuamente la vita in sporto estremi, ma veramente tanto estremi, spesso hanno forme di disequilibrio. Dove non c’è paura, non può esserci coraggio. La mancanza di paura e il coraggio quindi non sono sinonimi, anzi sono antitetici.
Noi amiamo la morte e voi amate la vita , ed è per questo che voi perderete è la frase classica dell’orco. Chi ama la morte e lo dichiara, sempre , è un individuo schiacciato dalle frustrazioni e in particolare quella sessuale. Chi ama la morte non è coraggioso. Non è coraggio, ma psicosi, e le spicosi, questa è un’informazione tecnica, non una metafora, sono contagiose. La radio di Goebbles, la maledetta radio hutu in Rwanda, internet ora, possono veicolare il virus del vittimismo omicida.
Ma, attenzione, anche il coraggio è contagioso. Il capo carismatico è colui che riesce a infondere il coraggio. E può anche essere un personaggio non fisicamente presente, perché è un personaggio storico o perché non è mai esistito. Noi amiamo il Fantasy perché i grandi eroi e quelli piccoli (Sam e Frodo) contagiano il coraggio.
E tra tutti gli uomini eroici, come ci ha ricordato Chesterton, grandissimo è anche l’uomo che ha affrontato l’avventura incredibile di essere padre, la donna che ha accolto l'avventura di essere madre. Eroi quotidiani la mamma e il papà che tengono tutti i giorni a galla la barchetta con dentro i bambini.
Un saluto anche ai pompieri di Amatrice.
SINDROME DI CALIMERO. QUANDO IL VITTIMISMO SEDUCE, INGANNA E
SCHIAVIZZA L'ALTRO
Capita a tutti, almeno una volta nella vita di sentirsi
vittime di circostanze negative, di sentirsi per una volta come Calimero, il
pulcino protagonista di un cartone animato degli anni settanta che alla fine di
ogni puntata si ritrova solo e sconsolato. Quando la sensazione di essere
costantemente vittime di soprusi e ingiustizie e di sfiducia negli altri e
nella vita perdura nel tempo, diventando un’abitudine, se non uno stile di
vita, possiamo parlare di sindrome di Calimero o vittimismo
patologico. Le cause possono originare da diverse situazioni tra cui:
modalità apprese in famiglia, continue svalutazioni, violenza fisica o
psicologica subita da piccoli. Esiste una chiara differenza tra
vittima e vittimista. Entrambe possono aver subito (per il vittimista non è
detto), ingiustizie e disgrazie, ma la prima non usa ciò che è successo
per manipolare gli altri, anzi, tenta di risolverlo in silenzio. Al vittimista
invece non interessa risolvere tanto l’ingiustizia, quanto usarla per manipolare
in modo immaturo e tirannico le relazioni. Sono queste persone eternamente
insoddisfatte che non fanno altro che ripetere: "Capitano tutte a me. Pago
sempre io per gli altri. Sapevo che sarebbe andata a finire così. Sono sempre
sfortunato." E’ così che la realtà viene vissuta in maniera distorta, per
non sentire il dolore, la frustrazione o il senso di impotenza. Ciò che
non vedono i vittimisti cronici è che sono proprio loro a fungere in un certo
senso da catalizzatori delle avversità con il proprio atteggiamento. Sono
anche individui permalosi che alla minima critica, frase non gradita o battuta
ironica accentuano e manifestano anche con scene teatrali la loro posizione
vittimistica. Questo atteggiamento si innesca quando, più o meno inconsciamente,
si ritiene di non essere alla pari degli altri e ci si pone in modo immaturo
nei loro confronti. Ma qual è il vantaggio del vittimismo
patologico? Con questo modo di porsi, in modo più o meno subdolo si può
diventare tiranni relazionali. Cioè, tenere in pugno le persone che
per senso di colpa o compatimento tendono ad assecondare la "vittima"
in tutte le sue richieste. E’ proprio questo infatti il vantaggio: ottenere in
modo tirannico ascolto, protezione e indulgenza altrui. Il vittimismo
patologico ricorda alcuni aspetti del narcisismo patologico. E’ infatti uno dei
meccanismi che serve ad attirare e tenere legate a se le vittime. Il
vittimista patologico tende a vedere sempre il bicchiere mezzo vuoto, mai
quello pieno. Mostra una tendenza a non volersi liberare veramente dalla
sofferenza, facendo di essa uno schema difensivo patologico utile a tenere su
di se l’attenzione altrui che viene pretesa in modo più o meno esplicito. E
quando dall’altra parte non arriva la “giusta” attenzione, allora il vittimista
diventa aggressivo, colpevolizzando gli altri in modo efferato, aumentando la
percezione di tradimento subita per l’ennesima volta. Non riconosce infatti le
sue responsabilità e farglielo notare fomenta a sua volta la posizione da
vittima. (Caterina Steri, http://m.tiscali.it/content/lifestyle/socialnews/Steri/17007/Sindrome-di-Calimero-quando-il-vittimismo-viene-usato-per-manipolare-gli-altri.html)
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APPROFONDIRE
MITI DEMITIZZATI: LA SVEZIA, UN CONFORTEVOLE INFERNO
Rodolfo Casadei, Tempi 20
settembre 2016
Di un film particolarmente
riuscito si suole dire che dovrebbe essere fatto vedere nelle scuole, ma prima
che fra i banchi l’ultima produzione di Erik Gandini meriterebbe di essere
proiettata a Camere riunite, come monito a deputati e senatori in procinto di
approvare le proposte di legge che vogliono trasformare l’Italia in un paradiso
dei diritti individuali sul modello dei paesi scandinavi. E benché si tratti di
pellicola laica laicissima, potrebbe benissimo per una volta sostituire la
catechesi di parrocchie e movimenti ecclesiali: chiarirebbe loro le idee
intorno alla condizione umana odierna, mostrerebbe loro dove è diretta quella
modernità con cui vogliono dialogare. Infine, per assottigliare i flussi di migranti
e richiedenti asilo che stanno mettendo in crisi mezza Europa, andrebbe
mostrato a chi sta per imbarcarsi sui gommoni a rischio della vita: vedrebbero
che l’agognato paradiso del benessere e della sicurezza consiste nella realtà
in un confortevole inferno antropologico.
La teoria svedese dell’amore, che debutta nelle sale
italiane il 22 settembre, ha un messaggio molto chiaro da comunicare: una
società di individui perfettamente liberi perché perfettamente indipendenti è
una società di esseri umani infelici, solitari e annoiati. E siccome ogni
critica vale per le soluzioni che offre al problema che evidenzia, Gandini non
si tira indietro e con l’ausilio del papa laico della sociologia, il 90enne
Zygmunt Bauman, propone l’alternativa: scambiare l’indipendenza e la sicurezza
materiale con quella speciale versione della dipendenza che è
l’interdipendenza, e con un mondo di rischi sia materiali che psicologici.
Che cos’è allora la teoria
svedese dell’amore? È l’idea, contenuta nel programma del partito socialdemocratico
svedese al tempo del primo governo di Olof Palme (1969-1976), di trasformare la
società svedese in una società di individui indipendenti. Rendere i figli
indipendenti dai genitori, le donne dagli uomini, gli anziani dai figli.
Abolire la dipendenza materiale e psicologica degli uni dagli altri, perché
solo in una società di persone tutte ugualmente indipendenti i rapporti fra di
esse sarebbero diventati rapporti veramente liberi e autentici, e non
condizionati dal bisogno.
Per quarant’anni di seguito i
governi, non solo socialdemocratici, si sono applicati a tradurre in realtà
tale programma, e il risultato è stato molto lontano da quello atteso: la
Svezia non è diventata il paese dei rapporti autentici fra le persone, ma della
assenza di rapporti umani. Oggi quasi la metà degli svedesi vivono da soli, uno
su quattro muore da solo, e persino i rapporti sessuali, stando ad alcune
inchieste, sono diminuiti del 25 per cento nell’arco dell’ultimo ventennio.
Niente meglio di un documentario
di Gandini ci rende partecipi di queste realtà. Il suo tocco magico è
indubitabile. Il suo stile asciutto solleva onde emotive nello spettatore. Si
vede la giovane Maria Elena, madre di due figli concepiti con la fecondazione
assistita da donatore anonimo, mentre fa jogging solitario. «Volevo un figlio,
non volevo una relazione. Mi piace la compagnia, ma solo temporanea. Sì, a
volte mi manca la presenza di qualcuno che mi porti la colazione la mattina,
qualcuno con cui discutere le notizie del telegiornale».
Quindi brevi interviste ad
alcuni donatori della banca del seme alla quale la donna ha fatto ricorso: un
centro danese dove sono contenuti 170 litri di sperma umano, probabilmente il
più grande del mondo. I ragazzi mettono a disposizione video e file sonori in cui
si presentano. Tutti affermano convintamente di fare quello che fanno per
altruismo: «Voglio aiutare gli altri. È incredibile come facendo così poco fai
così tanto per gli altri». Non sanno nulla della donna che riceverà il loro
seme, nulla mai sapranno dei figli che verranno al mondo e che sono
biologicamente loro, ma si sentono buoni perché si masturbano a vantaggio di
altri. Metà dei clienti è costituito da donne single, moltissime svedesi. Il
kit per l’inseminazione può essere richiesto a domicilio. Arriva col corriere,
come i libri di Amazon. Si deve scaldare la busta fra le mani, caricare la
siringa, sdraiarsi sul letto a gambe insù, immettere il liquido nella vagina,
restare in posizione mezz’ora. E il risultato è garantito.
Compila il modulo, ci pensa lo
Stato
Che uno svedese su quattro muore da solo significa anche che il decesso di molti viene scoperto solo parecchio tempo dopo che è avvenuto. La Svezia ha dovuto creare un’apposita agenzia che si occupa di questi casi. I suoi impiegati sono impegnati a cercare parenti introvabili per regolare questioni di successione, e accedono agli appartamenti dei defunti in cerca di indizi. Risalta lo squallore di pareti vuote. Un suicida ha lasciato una busta piena di denaro. È destinato a saldare i suoi debiti con l’Agenzia delle entrate. Altri messaggi non ne ha lasciati. «L’ambizione per l’indipendenza ci ha accecati», commenta tristemente l’impiegata che ne ha già viste troppe.
Sia come sia, la Svezia (insieme
alla Germania) è la mèta agognata di centinaia di migliaia di richiedenti
asilo. Non appena arrivano, però, vengono messi in guardia. Neeba, profuga
siriana e mediatrice culturale, cerca di spiegare ai nuovi arrivati che gli
svedesi sono bravi ma poco socievoli: «Non amano le conversazioni, alle domande
rispondete “sì” o “no”. A loro piacciono le risposte brevi». Un suo assistito
le dice: «Perché dovrei imparare a parlare la lingua? Svedesi non ne incontro
mai». Neeba riflette: «Gli svedesi non sono razzisti, si battono per i diritti
umani di tutti. Ma desiderano mantenere le distanze. Vivono da soli, il centro
di tutto è l’individuo. Se hai bisogno di qualcosa, compili un modulo. E lo
Stato ti fornirà ciò di cui hai bisogno».
Il viaggio della speranza. In
Africa
Fuori dal sistema sorgono piccoli santuari di calore e comunità. Giovani si incontrano nei boschi alla ricerca di rapporti umani più profondi. I loro sguardi sono mesti: «La nostra società ha per obiettivo la sicurezza, ma la sicurezza non ti rende felice: al contrario, è causa di infelicità. Viviamo soli, siamo gestiti dalla società, e dimentichiamo di prenderci cura l’uno dell’altro personalmente».
Quindi la telecamera fa un volo
di parecchie migliaia di chilometri e inquadra la selva subtropicale del
Wollega, in Etiopia. Il paese che nel grafico dei valori (sopravvivenza contro
autorealizzazione, tradizionalismo contro razionalità) si trova all’estremo
opposto rispetto alla Svezia. Lì si è trasferito il dottor Eriksen, per 30 anni
chirurgo a Stoccolma. In un modestissimo ospedale totalmente privo di mezzi
economici si arrangia per trasformare le cose più strane in presidi sanitari:
viti comuni, raggi di ruota di bicicletta, fascette da idraulico, lenze da
pesca, fermagli per capelli diventano fissatori, vasocostrittori, viti
chirurgiche, eccetera. «Vivere in Etiopia mi ha dato tanto, in Svezia vivevo
una vita noiosa», dice. «Qui si vive nella povertà materiale, ma la povertà
spirituale della Svezia è di gran lunga superiore. Penso che qualcosa è andato
storto nel sistema di ingegneria sociale svedese. La gente si sente troppo
sola. Qui la gente non è mai sola: se ti ammali ti vengono a visitare, quando
muori piangono la tua morte».
All’ospedale un giorno è
arrivata una bambina con un enorme tumore alla lingua. Per salvarla Eriksen ha
dovuto asportare l’organo e rimuovere pure la mascella. La ragazzina guarita
visita l’ospedale e l’incontro col medico è commovente. C’è più comunicazione
fra lei muta e il chirurgo svedese, che fra il medico e i suoi connazionali
dotati di parola quando lui torna in Svezia: «Non c’è niente di cui parlare con
la gente, sono tutti occupati con le loro cose, sono tutti focalizzati su se
stessi».
Tutti connessi ma scollegati
E si arriva così al contributo di Zygmunt Bauman. «Felicità», dice, «non significa una vita priva di problemi. Una vita felice si ottiene superando le difficoltà, fronteggiando i problemi, risolvendoli. La via dell’indipendenza non porta alla felicità, ma a una vita vuota, all’insignificanza della vita e a una noia assoluta e inimmaginabile». I problemi affrontando e risolvendo i quali si fa esperienza di felicità sono sia quelli materiali sia quelli relazionali. E qui Bauman dice alcune cose geniali sulla tribolata questione del dialogo. Rifiutato a priori da alcuni, praticato solo a parole o selettivamente da chi ne fa una bandiera, il dialogo è la prima vittima della società centrata sull’indipendenza degli individui. «Le persone che sono state educate all’indipendenza, stanno perdendo la capacità di negoziare la convivenza con gli altri, perché sono private della capacità di socializzare. Socializzare è faticoso, richiede tanti sforzi, richiede un processo di negoziazione e ri-negoziazione, occorre mettersi in discussione, mediare e ricreare. L’indipendenza ti priva della capacità di fare questo».
Bauman vede la morte del dialogo
proprio negli strumenti tecnologici che dovrebbero renderlo più ampiamente
praticabile: le tecnologie elettroniche e audiovisive. «La nostra vita è divisa
fra due mondi diversi: online e offline, connessi e disconnessi. La vita
connessa è in gran parte priva dei normali rischi della vita. Se non ti piace
l’attitudine di altri, smetti di comunicare con loro, li disconnetti. Quando
sei offline, e incontri per forza le persone reali, devi affrontare il fatto
che la gente è diversa, che ci sono molti modi di essere umani. Devi affrontare
la necessità del dialogo, devi impegnarti in una conversazione con loro.
L’indipendenza ti priva delle abilità necessarie a fare questo. Più sei
indipendente, e più sei incapace di fermare questa indipendenza e rimpiazzarla
con una piacevole interdipendenza».
Chi propugna il dialogo, ma non
accetta di fare l’esperienza della dipendenza dagli altri con cui instaura la
conversazione, di fare l’esperienza della dipendenza reciproca, produce inevitabilmente
una società malata. O la società in cui tutti si ritirano nel proprio guscio
per mantenere intatte le proprie personali convinzioni, o una società alienata
dove il gruppo dirigente impone la sua linea al popolo sottomesso. Il dialogo
implica la mediazione, il negoziato, cioè la disponibilità a rinunciare alle
proprie ragioni e inclinazioni per fare spazio alle ragioni e inclinazioni
degli altri. Non ci aiutano i social media, i file audio, i collegamenti video,
perché troppo cedevoli alla tentazione di escludere l’interlocutore scomodo, di
selezionare solo interlocutori di comodo, coi quali non si vuole veramente
dialogare, cioè negoziare, ma solo fare bella figura in pubblico, dando
un’impressione di “apertura” al diverso da sé.
Per uscirne, bisogna riscoprire
e fare esperienza della dipendenza. Reciproca. Nessuno escluso.
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