DISCERNERE

Uno sguardo profetico sugli eventi

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LE PAROLE DEL PAPA (5 - 6 Ottobre 2019)

ANGELUS DEL 6 OTTOBRE 2019 

Cari fratelli e sorelle, buongiorno!
L’odierna pagina evangelica (cfr Lc 17,5-10) presenta il tema della fede, introdotto dalla domanda dei discepoli: «Accresci in noi la fede!» (v. 6). Una bella preghiera, che noi dovremmo pregare tanto durante la giornata: “Signore, accresci in me la fede!”. Gesù risponde con due immagini: il granellino di senape e il servo disponibile. «Se aveste fede quanto un granello di senape, potreste dire a questo gelso: “Sradicati e vai a piantarti nel mare”, ed esso vi obbedirebbe» (v. 6). Il gelso è un albero robusto, ben radicato nella terra e resistente ai venti. Gesù, dunque, vuole far capire che la fede, anche se piccola, può avere la forza di sradicare persino un gelso. E poi di trapiantarlo nel mare, che è una cosa ancora più improbabile: ma nulla è impossibile a chi ha fede, perché non si affida alle proprie forze, ma a Dio, che può tutto.
La fede paragonabile al granello di senape è una fede che non è superba e sicura di sé; non fa finta di essere quella di un grande credente facendo a volte delle figuracce! È una fede che nella sua umiltà sente un grande bisogno di Dio e nella piccolezza si abbandona con piena fiducia a Lui. È la fede che ci dà la capacità di guardare con speranza le vicende alterne della vita, che ci aiuta ad accettare anche le sconfitte, le sofferenze, nella consapevolezza che il male non ha mai, non avrà mai, l’ultima parola.
Come possiamo capire se abbiamo veramente fede, cioè se la nostra fede, pur minuscola, è genuina, pura, schietta? Ce lo spiega Gesù indicando qual è la misura della fede: il servizio. E lo fa con una parabola che al primo impatto risulta un po’ sconcertante, perché presenta la figura di un padrone prepotente e indifferente. Ma proprio questo modo di fare del padrone fa risaltare quello che è il vero centro della parabola, cioè l’atteggiamento di disponibilità del servo. Gesù vuole dire che così è l’uomo di fede nei confronti di Dio: si rimette completamente alla sua volontà, senza calcoli o pretese.
Questo atteggiamento verso Dio si riflette anche nel modo di comportarsi in comunità: si riflette nella gioia di essere al servizio gli uni degli altri, trovando già in questo la propria ricompensa e non nei riconoscimenti e nei guadagni che ne possono derivare. È ciò che insegna Gesù alla fine di questo racconto: «Quando avrete fatto tutto quello che vi è stato ordinato, dite: “Siamo servi inutili. Abbiamo fatto quanto dovevamo fare”» (v. 10).
Servi inutili, cioè senza pretese di essere ringraziati, senza rivendicazioni. “Siamo servi inutili” è un’espressione di umiltà, disponibilità che tanto fa bene alla Chiesa e richiama l’atteggiamento giusto per operare in essa: il servizio umile, di cui ci ha dato l’esempio Gesù, lavando i piedi ai discepoli (cfr Gv 13,3-17).


OMELIA NELLA MESSA DI APERTURA DEL SINODO PER L'AMAZZONIA

L’Apostolo Paolo, il più grande missionario della storia della Chiesa, ci aiuta a “fare Sinodo”, a “camminare insieme”: quello che scrive a Timoteo sembra rivolto a noi, Pastori al servizio del Popolo di Dio.
Anzitutto dice: «Ti ricordo di ravvivare il dono di Dio, che è in te mediante l’imposizione delle mie mani» (2 Tm 1,6). Siamo vescovi perché abbiamo ricevuto un dono di Dio. Non abbiamo firmato un accordo, non abbiamo ricevuto un contratto di lavoro in mano, ma mani sul capo, per essere a nostra volta mani alzate che intercedono presso il Signore e mani protese verso i fratelli. Abbiamo ricevuto un dono per essere doni. Un dono non si compra, non si scambia, non si vende: si riceve e si regala. Se ce ne appropriamo, se mettiamo noi al centro e non lasciamo al centro il dono, da Pastori diventiamo funzionari: facciamo del dono una funzione e sparisce la gratuità, e così finiamo per servire noi stessi e servirci della Chiesa. La nostra vita, invece, per il dono ricevuto, è per servire. Lo ricorda il Vangelo, che parla di «servi inutili» (Lc 17,10): un’espressione che può voler dire anche “servi senza utile”. Significa che non ci diamo da fare per raggiungere un utile, un guadagno nostro, ma perché gratuitamente abbiamo ricevuto e gratuitamente diamo (cfr Mt 10,8). La nostra gioia sarà tutta nel servire perché siamo stati serviti da Dio, che si è fatto nostro servo. Cari fratelli, sentiamoci chiamati qui per servire mettendo al centro il dono di Dio.
Per essere fedeli a questa nostra chiamata, alla nostra missione, San Paolo ci ricorda che il dono va ravvivato. Il verbo che utilizza è affascinante: ravvivare letteralmente, nell’originale, è “dare vita a un fuoco” [anazopurein]. Il dono che abbiamo ricevuto è un fuoco, è amore bruciante a Dio e ai fratelli. Il fuoco non si alimenta da solo, muore se non è tenuto in vita, si spegne se la cenere lo copre. Se tutto rimane com’è, se a scandire i nostri giorni è il “si è sempre fatto così”, il dono svanisce, soffocato dalle ceneri dei timori e dalla preoccupazione di difendere lo status quo. Ma «in nessun modo la Chiesa può limitarsi a una pastorale di “mantenimento”, per coloro che già conoscono il Vangelo di Cristo. Lo slancio missionario è un segno chiaro della maturità di una comunità ecclesiale» (Benedetto XVI, Esort. ap. postsin. Verbum Domini, 95). Perché la Chiesa sempre è in cammino, sempre in uscita, mai chiusa in sé stessa. Gesù non è venuto a portare la brezza della sera, ma il fuoco sulla terra.
Il fuoco che ravviva il dono è lo Spirito Santo, datore dei doni. Perciò San Paolo continua: «Custodisci mediante lo Spirito Santo il bene prezioso che ti è stato affidato» (2 Tm 1,14). E ancora: «Dio non ci ha dato uno spirito di timidezza, ma di forza, di carità e di prudenza» (v. 7). Non uno spirito di timidezza, ma di prudenza. Qualcuno pensa che la prudenza è la virtù “dogana”, che ferma tutto per non sbagliare. No, la prudenza è virtù cristiana, è virtù di vita, anzi, la virtù del governo. E Dio ci ha dato questo spirito di prudenza. Paolo mette la prudenza all’opposto della timidezza. Che cos’è allora questa prudenza dello Spirito? Come insegna il Catechismo, la prudenza «non si confonde con la timidezza o la paura», ma «è la virtù che dispone a discernere in ogni circostanza il nostro vero bene e a scegliere i mezzi adeguati» (n. 1806). La prudenza non è indecisione, non è un atteggiamento difensivo. È la virtù del Pastore, che, per servire con saggezza, sa discernere, sensibile alla novità dello Spirito. Allora ravvivare il dono nel fuoco dello Spirito è il contrario di lasciar andare avanti le cose senza far nulla. Ed essere fedeli alla novità dello Spirito è una grazia che dobbiamo chiedere nella preghiera. Egli, che fa nuove tutte le cose, ci doni la sua prudenza audace; ispiri il nostro Sinodo a rinnovare i cammini per la Chiesa in Amazzonia, perché non si spenga il fuoco della missione.
Il fuoco di Dio, come nell’episodio del roveto ardente, brucia ma non consuma (cfr Es 3,2). È fuoco d’amore che illumina, riscalda e dà vita, non fuoco che divampa e divora. Quando senza amore e senza rispetto si divorano popoli e culture, non è il fuoco di Dio, ma del mondo. Eppure quante volte il dono di Dio non è stato offerto ma imposto, quante volte c’è stata colonizzazione anziché evangelizzazione! Dio ci preservi dall’avidità dei nuovi colonialismi. Il fuoco appiccato da interessi che distruggono, come quello che recentemente ha devastato l’Amazzonia, non è quello del Vangelo. Il fuoco di Dio è calore che attira e raccoglie in unità. Si alimenta con la condivisione, non coi guadagni. Il fuoco divoratore, invece, divampa quando si vogliono portare avanti solo le proprie idee, fare il proprio gruppo, bruciare le diversità per omologare tutti e tutto.
Ravvivare il dono; accogliere la prudenza audace dello Spirito, fedeli alla sua novità; San Paolo rivolge un’ultima esortazione: «Non vergognarti di dare testimonianza ma, con la forza di Dio, soffri con me per il Vangelo» (2Tm 1,8). Chiede di testimoniare il Vangelo, di soffrire per il Vangelo, in una parola di vivere per il Vangelo. L’annuncio del Vangelo è il criterio principe per la vita della Chiesa: è la sua missione, la sua identità. Poco dopo Paolo scrive: «Sto per essere versato in offerta» (4,6). Annunciare il Vangelo è vivere l’offerta, è testimoniare fino in fondo, è farsi tutto per tutti (cfr 1Cor 9,22), è amare fino al martirio. Ringrazio Dio perché nel Collegio Cardinalizio ci sono alcuni fratelli Cardinali martiri, che hanno saggiato, nella vita, la croce del martirio. Infatti, sottolinea l’Apostolo, si serve il Vangelo non con la potenza del mondo, ma con la sola forza di Dio: restando sempre nell’amore umile, credendo che l’unico modo per possedere davvero la vita è perderla per amore.
Cari fratelli, guardiamo insieme a Gesù Crocifisso, al suo cuore squarciato per noi. Iniziamo da lì, perché da lì è scaturito il dono che ci ha generato; da lì è stato effuso lo Spirito che rinnova (cfr Gv 19,30). Da lì sentiamoci chiamati, tutti e ciascuno, a dare la vita. Tanti fratelli e sorelle in Amazzonia portano croci pesanti e attendono la consolazione liberante del Vangelo, la carezza d’amore della Chiesa. Tanti fratelli e sorelle in Amazzonia hanno speso la loro vita. Permettetemi di ripetere le parole del nostro amato Cardinale Hummes: quando arriva in quelle piccole città dell’Amazzonia, va nei cimiteri a cercare la tomba dei missionari. Un gesto della Chiesa per coloro che hanno speso la vita in Amazzonia. E poi, con un po’ di furbizia, dice al Papa: “Non si dimentichi di loro. Meritano di essere canonizzati”. Per loro, per questi che stanno dando la vita adesso, per quelli che hanno speso la propria vita, con loro, camminiamo insieme.


OMELIA NELLA MESSA DEL CONCISTORO ORDINARIO PUBBLICO PER LA CREAZIONE DI TREDICI CARDINALI

Al centro del racconto evangelico che abbiamo ascoltato (Mc 6,30-37a) c’è la «compassione» di Gesù (cfr v. 34). Compassione, parola-chiave del Vangelo; è scritta nel cuore di Cristo, è scritta da sempre nel cuore di Dio.
Nei Vangeli vediamo molte volte Gesù che sente compassione per le persone sofferenti. E più leggiamo, più contempliamo, e più comprendiamo che la compassione del Signore non è un atteggiamento occasionale, sporadico, ma è costante, anzi, sembra essere l’atteggiamento del suo cuore, nel quale si è incarnata la misericordia di Dio.
Marco, ad esempio, riferisce che quando Gesù incominciò ad andare per la Galilea predicando e scacciando i demoni, «venne da lui un lebbroso, che lo supplicava in ginocchio e gli diceva: “Se vuoi, puoi purificarmi!”. Ne ebbe compassione, tese la mano, lo toccò e gli disse: “Lo voglio, sii purificato!”» (1,40-42). In questo gesto e in queste parole c’è la missione di Gesù Redentore dell’uomo: Redentore nella compassione. Lui incarna la volontà di Dio di purificare l’essere umano malato dalla lebbra del peccato; Lui è “la mano tesa di Dio” che tocca la nostra carne malata e compie quest’opera colmando l’abisso della separazione.
Gesù va a cercare le persone scartate, quelli che ormai sono senza speranza. Come quell’uomo paralitico da trentotto anni, che giace presso la piscina di Betzatà, aspettando invano che qualcuno lo aiuti a scendere nell’acqua (cfr Gv 5,1-9).
Questa compassione non è spuntata a un certo punto della storia della salvezza, no, è sempre stata in Dio, impressa nel suo cuore di Padre. Pensiamo al racconto della vocazione di Mosè, per esempio, quando Dio gli parla dal roveto ardente e gli dice: «Ho osservato la miseria del mio popolo in Egitto e ho udito il suo grido […]: conosco le sue sofferenze» (Es 3,7). Ecco la compassione del Padre!
L’amore di Dio per il suo popolo è tutto impregnato di compassione, al punto che, in questa relazione di alleanza, ciò che è divino è compassionevole, mentre purtroppo sembra che ciò che è umano ne sia tanto privo, tanto lontano. Lo dice Dio stesso: «Come potrei abbandonarti, Efraim, come consegnarti ad altri, Israele? […] Il mio cuore si commuove dentro di me, il mio intimo freme di compassione. […] Perché sono Dio e non uomo, sono il Santo in mezzo a te e non verrò nella mia ira» (Os 11,8-9).
I discepoli di Gesù dimostrano spesso di essere senza compassione, come in questo caso, di fronte al problema delle folle da sfamare. Loro in sostanza dicono: “Che si arrangino…”. È un atteggiamento comune a noi umani, anche quando siamo persone religiose o addirittura addette al culto. Ce ne laviamo le mani. Il ruolo che occupiamo non basta a farci essere compassionevoli, come dimostra il comportamento del sacerdote e del levita che, vedendo un uomo moribondo sul ciglio della strada, passarono oltre dall’altra parte (cfr Lc 10,31-32). Dentro di sé avranno detto: “Non tocca a me”. Sempre c’è qualche pretesto, qualche giustificazione per guardare da un’altra parte. E quando un uomo di Chiesa diventa un funzionario, questo l’esito più amaro. Ci sono sempre delle giustificazioni, a volte sono anche codificate e danno luogo a degli “scarti istituzionali”, come nel caso dei lebbrosi: “Certo, devono stare fuori, è giusto così”. Così si pensava, e così si pensa. Da questo atteggiamento molto, troppo umano derivano anche strutture di non-compassione.
A questo punto possiamo domandarci: siamo coscienti, noi per primi, di essere stati oggetto della compassione di Dio? Mi rivolgo in particolare a voi, fratelli Cardinali e in procinto di diventarlo: è viva in voi questa consapevolezza? Di essere stati e di essere sempre preceduti e accompagnati dalla sua misericordia? Questa coscienza era lo stato permanente del cuore immacolato della Vergine Maria, che loda Dio come il “suo salvatore” che «ha guardato l’umiltà della sua serva» (Lc 1,48).
A me fa tanto bene rispecchiarmi nella pagina di Ezechiele 16: la storia d’amore di Dio con Gerusalemme; in quella conclusione: «Io stabilirò la mia alleanza con te e tu saprai che io sono il Signore, perché te ne ricordi e ti vergogni e, nella tua confusione, tu non apra più bocca, quando ti avrò perdonato quello che hai fatto» (Ez 16,62-63). Oppure in quell’altro oracolo di Osea: «La condurrò nel deserto e parlerò al suo cuore. […] Là mi risponderà come nei giorni della sua giovinezza, come quando uscì dal paese d’Egitto» (2,16-17). Possiamo domandarci: sento su di me la compassione di Dio? Sento su di me la sicurezza di essere figlio di compassione?
È viva in noi la coscienza di questa compassione di Dio per noi? Non si tratta di una cosa facoltativa, e nemmeno, direi, di un “consiglio evangelico”. No. Si tratta di un requisito essenziale. Se io non mi sento oggetto della compassione di Dio, non comprendo il suo amore. Non è una realtà che si possa spiegare. O la sento o non la sento. E se non la sento, come posso comunicarla, testimoniarla, donarla? Anzi, non potrò fare questo. Concretamente: ho compassione per quel fratello, per quel vescovo, quel prete?… Oppure sempre distruggo con il mio atteggiamento di condanna, di indifferenza, di guardare da un’alta parte, in realtà per lavarmene le mani?
Da questa consapevolezza viva dipende per tutti noi anche la capacità di essere leale nel proprio ministero. Anche per voi, fratelli Cardinali. La parola “compassione” mi è venuta nel cuore proprio nel momento di incominciare a scrivere a voi la lettera del 1° settembre. La disponibilità di un Porporato a dare il proprio sangue – significata dal colore rosso dell’abito – è sicura quando è radicata in questa coscienza di aver ricevuto compassione e nella capacità di avere compassione. Diversamente, non si può essere leali. Tanti comportamenti sleali di uomini di Chiesa dipendono dalla mancanza di questo senso della compassione ricevuta, e dall’abitudine di guardare da un’altra parte, dall’abitudine dell’indifferenza.
Chiediamo oggi, per intercessione dell’Apostolo Pietro, la grazia di un cuore compassionevole, per essere testimoni di Colui che ci ha amato e ci ama, che ci ha guardato con misericordia, che ci ha eletti, ci ha consacrati e ci ha inviati a portare a tutti il suo Vangelo di salvezza.



Il segreto di Francesco per superare le difficoltà della vita



“Ognuno di noi ha un tesoro dentro. Non bisogna nasconderlo. A volte si trova subito, altre volte no, proprio come nel gioco del tesoro. Ma una volta trovato bisogna condividerlo con gli altri. Solo se lo dividiamo si moltiplica". Papa Francesco dall’Aula del Sinodo parla ai ragazzi del progetto delle Scholas Occurentes in conclusione del IV Congresso mondiale educativo che si è svolto in Vaticano e spiega loro come si gioca davvero al gioco del tesoro nella vita.
 
"Tutti voi avete come una scatoletta – ha aggiunto Francesco -dovete aprire questa scatola e farne uscire il tesoro che c'è dentro".


 
La rete internazionale di istituti Scholas Occurrentes, nata con pochi giovani in Argentina per volere dell'allora arcivescovo di Buenos Aires, Jorge Mario Bergoglio, conta oggi oltre 400 mila scuole statali o religiose, sparse in tutti i continenti e connesse tra loro attraverso lo sport, l'arte e la tecnologia.
 
Nel corso della cerimonia, il pontefice si è collegato in videoconferenza con sette ragazzi disabili, in diretta da tutti i continenti.




COSA FAI QUANDO HAI UNA DIFFICOLTA'?
 
“Che fai – gli ha chiesto Isaias dagli Stati Uniti, un ragazzo con deficit di sviluppo – quando devi affrontare una difficoltà?”.
 
"Primo - ha risposto il pontefice - non arrabbiarsi, essere tranquilli;quindi cercare il modo di superarla e poi se non ci riesco, sopportare finchè non arriva l'occasione di superarla. Ma mai, mai - ha ripetuto - impaurirsi".

"SONO UN DISASTRO CON IL COMPUTER!"
 

I ragazzi non sembrano intimoriti dal dialogo con il pontefice ed è Francesco che deve confessare: “sono un disastro con il computer” quando Alicia, la sedicenne con sindrome di down che parla dallaSpagna, gli chiede se è capace di postare foto. “Vuoi che ti dica la verità? – risponde Bergoglio -. Non sono capace di usare il computer. Che vergogna!”. Idem per l’I-pad, la “tableta” che invece l’argentino Bautista – “Bauti per gli amici”, spiega al papa senza imbarazzo – usa con molto disinvoltura nella sua scuola di Madrid.
 
Elvira, undicenne madrilena con sindrome di down, invece, piace cantare. “E’ Violetta la mia canzone preferita”, racconta al papa argentino che a settembre scorso ha incontrato la cantante e protagonista dell’omonima telenovela di Disney più amata dalle bambine di tutto il mondo.

LA PASSIONE PER IL CALCIO
 
Bergoglio cerca un terreno più sicuro sul calcio e chiede a Pedro, da S.Paolo, a cui manca un avambraccio per una malformazione congenita ma gioca al calcio con passione: “cosa senti quando fai goal?”. “Mi sento molto felice”.
Però la maglia 'azul-grana' del Barcellona, fra i sostenitori di Scholas Occurentes, arriva in dono a Bergoglio . Le caratteristiche strisce azzurre e granata del club spagnolo, quasi uguali ai colori della squadra del cuore di Francesco, il San Lorenzo, portano in alto la scritta in catalano di color giallo 'Papa Francesc' e sotto il logo dell'Unicef, sponsor della squadra.



UN PATTO EDUCATIVO DA "INCOLLARE"
 
"Non cambieremo il mondo se non cambiamo l'educazione" ha detto Francesco in conclusione dell’incontro ma oggi "il patto educativo tra le famiglie, la scuola e lo Stato, è rotto, è assai rotto e non si può semplicemente incollare". L’educazione è affidata, ha spiegato Bergoglio che ha ringraziato i docenti per aver preso “la patata bollente in mano”, a persone che “pagate male devono portare sulle loro spalle questa responsabilità". Se si vuole avere una chance di ricucire la rottura, è necessario uno sforzo di "armonizzazione" tra tutti i responsabili, che può passare solo attraverso "l'educazione alla bellezza", attraverso la pittura, la scultura e la letteratura.
 
"Dobbiamo cercare in ogni popolo le proprie tradizioni, quelle cose che sono all'origine della patria, che sono le fondamenta dell'identità nazionale. La cultura italiana, per esempio – ha concluso il papa - non può rinnegare Dante Alighieri come fondamento della cultura, come quella argentina non può rinnegare il 'Martin Fierro'". 
sources: ALETEIA

Il Papa: Tutti noi battezzati, figli della Chiesa, siamo chiamati ad accogliere sempre nuovamente la presenza di Dio in mezzo a noi e ad aiutare gli altri a scoprirla, o a riscoprirla qualora l’avessero dimenticata.



ANGELUS
Piazza San Pietro
III Domenica di Avvento "Gaudete", 14 dicembre 2014


Cari fratelli e sorelle, cari bambini, cari ragazzi, buongiorno!
Già da due settimane il Tempo di Avvento ci ha invitato alla vigilanza spirituale per preparare la strada al Signore che viene. In questa terza domenica la liturgia ci propone un altro atteggiamento interiore con cui vivere questa attesa del Signore, cioè la gioia. La gioia di Gesù, come dice quel cartello: “Con Gesù la gioia è di casa”. Ecco, ci propone la gioia di Gesù!

Il cuore dell’uomo desidera la gioia. Tutti desideriamo la gioia, ogni famiglia, ogni popolo aspira alla felicità. Ma qual è la gioia che il cristiano è chiamato a vivere e a testimoniare? E’ quella che viene dalla vicinanza di Dio, dalla sua presenza nella nostra vita. Da quando Gesù è entrato nella storia, con la sua nascita a Betlemme, l’umanità ha ricevuto il germe del Regno di Dio, come un terreno che riceve il seme, promessa del futuro raccolto. Non occorre più cercare altrove! Gesù è venuto a portare la gioia a tutti e per sempre. Non si tratta di una gioia soltanto sperata o rinviata al paradiso: qui sulla terra siamo tristi ma in paradiso saremo gioiosi. No! Non è questa ma una gioia già reale e sperimentabile ora, perché Gesù stesso è la nostra gioia, e con Gesù la gioia di casa, come dice quel vostro cartello: con Gesù la gioia è di casa. Tutti, diciamolo: “Con Gesù la gioia è di casa”. Un’altra volta: “Con Gesù la gioia è di casa”. E senza Gesù c’è la gioia? No! Bravi! Lui è vivo, è il Risorto, e opera in noi e tra noi specialmente con la Parola e i Sacramenti.

Tutti noi battezzati, figli della Chiesa, siamo chiamati ad accogliere sempre nuovamente la presenza di Dio in mezzo a noi e ad aiutare gli altri a scoprirla, o a riscoprirla qualora l’avessero dimenticata. Si tratta di una missione bellissima, simile a quella di Giovanni Battista: orientare la gente a Cristo – non a noi stessi! – perché è Lui la meta a cui tende il cuore dell’uomo quando cerca la gioia e la felicità.

Ancora san Paolo, nella liturgia di oggi, indica le condizioni per essere “missionari della gioia”: pregare con perseveranza, rendere sempre grazie a Dio, assecondare il suo Spirito, cercare il bene ed evitare il male (cfr 1 Ts 5,17-22). Se questo sarà il nostro stile di vita, allora la Buona Novella potrà entrare in tante case e aiutare le persone e le famiglie a riscoprire che in Gesù c’è la salvezza. In Lui è possibile trovare la pace interiore e la forza per affrontare ogni giorno le diverse situazioni della vita, anche quelle più pesanti e difficili. Non si è mai sentito di un santo triste o di una santa con la faccia funebre. Mai si è sentito questo! Sarebbe un controsenso. Il cristiano è una persona che ha il cuore ricolmo di pace perché sa porre la sua gioia nel Signore anche quando attraversa i momenti difficili della vita. Avere fede non significa non avere momenti difficili ma avere la forza di affrontarli sapendo che non siamo soli. E questa è la pace che Dio dona ai suoi figli.


Con lo sguardo rivolto al Natale ormai vicino, la Chiesa ci invita a testimoniare che Gesù non è un personaggio del passato; Egli è la Parola di Dio che oggi continua ad illuminare il cammino dell’uomo; i suoi gesti – i Sacramenti – sono la manifestazione della tenerezza, della consolazione e dell’amore del Padre verso ogni essere umano. La Vergine Maria, “Causa della nostra gioia”, ci renda sempre lieti nel Signore, che viene a liberarci da tante schiavitù interiori ed esteriori.

Papa Francesco. Le omelie dal 2 al 9 dicembre: La consolazione più forte è quella della misericordia e del perdono




La consolazione più forte è quella della misericordia e del perdono
Giovedì, 4 dicembre 2014  


“Aprire le porte alla consolazione del Signore”. Francesco ha preso spunto, nella sua omelia, dalla prima lettura in cui il profeta Isaia parla della fine della tribolazione di Israele dopo l’esilio a Babilonia. “Il popolo – ha commentato - ha bisogno di consolazione. La stessa presenza del Signore consola”. Una consolazione, ha soggiunto, che c’è anche nella tribolazione. E tuttavia, ha ammonito “noi, al solito, fuggiamo dalla consolazione; abbiamo sfiducia; siamo più comodi nelle nostre cose, più comodi anche nelle nostre mancanze, nei nostri peccati. Questa – ha detto - è terra nostra”. Invece, ha affermato, “quando viene lo Spirito e viene la consolazione ci porta ad un altro stato che noi non possiamo controllare: è proprio l’abbandono nella consolazione del Signore”.
Francesco sottolinea che “la consolazione più forte è quella della misericordia e del perdono”. E ha così rivolto il pensiero alla fine del XVI capitolo di Ezechiele, quando dopo “l’elenco di tanti peccati del popolo”, dice: “Ma io non ti abbandono; io ti darò di più; questa sarà la mia vendetta: la consolazione e il perdono”, “così è il nostro Dio”. Per questo, ha ripreso, “è buono ripetere: lasciatevi consolare dal Signore, è l’unico che può consolarci”. Anche se “siamo abituati ad affittare consolazioni piccole, un po’ fatte da noi”, ma che poi “non servono”. Di qui, si è soffermato sul Vangelo odierno, tratto da Matteo, che parla della parabola della pecorella smarrita:
Io mi domando quale sia la consolazione della Chiesa. Così come quando una persona è consolata quando sente la misericordia e il perdono del Signore, la Chiesa fa festa, è felice quando esce da se stessa. Nel Vangelo, quel pastore che esce, va a cercare quella pecora smarrita, poteva fare il conto di un buon commerciante: ma, 99, se ne perde una non c’è problema; il bilancio… Guadagni, perdite… Ma va bene, possiamo andare così. No, ha cuore di pastore, esce a cercarla finché la trova e lì fa festa, è gioioso”.
“La gioia di uscire per cercare i fratelli e le sorelle che sono lontani: questa – ha evidenziato Francesco – è la gioia della Chiesa. Lì la Chiesa diventa madre, diventa feconda”:
Quando la Chiesa non fa questo, quando la Chiesa si ferma in se stessa, si chiude in se stessa, forse si è ben organizzata, un organigramma perfetto, tutto a posto, tutto pulito, ma manca gioia, manca festa, manca pace, e così diventa una Chiesa sfiduciata, ansiosa, triste, una Chiesa che ha più di zitella che di madre, e questa Chiesa non serve, è una Chiesa da museo. La gioia della Chiesa è partorire; la gioia della Chiesa è uscire da se stessa per dare vita; la gioia della Chiesa è andare a cercare quelle pecore che sono smarrite; la gioia della Chiesa è proprio quella tenerezza del pastore, la tenerezza della madre”.
La fine del brano di Isaia, ha spiegato, “riprende questa immagine: come un pastore egli fa pascolare il gregge e con il suo braccio lo raduna”. Questa, ha detto il Papa, “è la gioia della Chiesa: uscire da se stessa e diventare feconda”:
Il Signore ci dia la grazia di lavorare, essere cristiani gioiosi nella fecondità della madre Chiesa e ci guardi dal cadere nell’atteggiamento di questi cristiani tristi, impazienti, sfiduciati, ansiosi, che hanno tutto perfetto nella Chiesa, ma non hanno ‘bambini’. Che il Signore ci consoli con la consolazione di una Chiesa madre che esce da se stessa e ci consoli con la consolazione della tenerezza di Gesù e la sua misericordia nel perdono dei nostri peccati”.   


Senza trucco sulla roccia
Giovedì, 4 dicembre 2014


Dalla «tentazione di tanta brava gente» a essere cristiana «solo di apparenza», con addosso «il trucco» che però si scioglie alla prima pioggia, ha messo in guardia Francesco nella messa celebrata giovedì mattina, 4 dicembre, nella cappella della Casa Santa Marta. E ha rilanciato la testimonianza di tanti «cristiani di sostanza», che costruiscono la loro vita sulla «roccia di Gesù» e vivono la «santità nascosta», giorno per giorno.

Oggi in entrambe le letture — tratte dal libro di Isaia (26. 1-6) e dal Vangelo di Matteo (7, 21.24-27) — la Chiesa, ha fatto subito notare Francesco, «parla della fortezza di un cristiano e della debolezza; di roccia e di sabbia». Infatti «il cristiano è forte quando non solo dice di esserlo, ma quando fa la sua vita come cristiano, quando mette in pratica la dottrina cristiana, le parole di Dio, i comandamenti, le beatitudini». Il punto centrale è, difatti, «mettere in pratica».

Invece, ha rimarcato il Papa, «ci sono i cristiani di apparenza soltanto: persone che si truccano da cristiani e nel momento della prova hanno soltanto il trucco». E «noi sappiamo cosa succede a una donna truccata quando va per la strada e viene la pioggia e non ha l’ombrello: tutto viene giù, le apparenze finiscono per terra». Quella del trucco, del resto, «è una tentazione» ha riconosciuto Francesco. Così non basta dire «io sono cristiano, Signore» per esserlo veramente. È Gesù stesso a dire che non basta ripetere «Signore! Signore!» per entrare nel suo regno. Bisogna fare «la volontà del Padre» e mettere «in pratica la Parola». Ecco, dunque, la differenza tra «il cristiano di vita» e quello solo «di apparenza».

Del resto, ha spiegato il Pontefice, è chiaro come «ci vuole il Signore». Anzitutto, «un cristiano di vita è fondato sulla roccia». Del resto Paolo lo dice chiaramente quando «parla dell’acqua che usciva dalla roccia nel deserto: la roccia era Cristo, la roccia è Cristo». Quindi l’unica cosa che conta è «soltanto essere fondato sulla persona di Gesù, sul seguire Gesù, per la strada di Gesù». Francesco ha confidato di aver incontrato «tante volte gente non cattiva, gente buona, ma che è vittima di questa mania della “cristianità delle apparenze”». Gente che dice di se stessa «io sono di una famiglia molto cattolica; io sono membro di quella associazione e anche benefattore di quell’altra». Ma, secondo il Papa, la vera domanda da porre a queste persone è: «dimmi, la tua vita è fondata su Gesù? La tua speranza dov’è? Su quella roccia o su queste appartenenze?».

Ecco l’importanza di «essere fondato sulla roccia». Del resto «abbiamo visto tanti cristiani delle apparenze che crollano alle prime tentazioni, cioè alla pioggia». E infatti «quando i fiumi straripano, quando i venti soffiano — le tentazioni e le prove della vita — un cristiano dell’apparenza cade, perché non c’è sostanza lì, non c’è roccia, non c’è Cristo». Dall’altra parte, invece, ci sono i «tanti santi che abbiamo nel popolo di Dio — non necessariamente canonizzati, ma santi! — tanti uomini e donne che portano la loro vita in Cristo, che mettono in pratica i comandamenti, mettono in pratica l’amore di Gesù. Tanti!».

E il Papa ha voluto ricordare la loro testimonianza. «Pensiamo — ha detto — ai più piccoli; agli ammalati che offrono le loro sofferenze per la Chiesa, per gli altri». E, ancora, «pensiamo a tanti anziani soli che pregano e offrono. Pensiamo a tante mamme e padri di famiglia che portano avanti con tanta fatica la loro famiglia, l’educazione dei figli, il lavoro quotidiano, i problemi, ma sempre con la speranza in Gesù» e «che non si pavoneggiano, ma fanno quello che possono».

Davvero, ha ribadito Francesco, «ci sono santi della vita quotidiana». E ha invitato a pensare anche «a tanti preti che non si fanno vedere, ma che lavorano nelle loro parrocchie con tanto amore: la catechesi ai bambini, la cura degli anziani, degli ammalati, la preparazione ai novelli sposi. E tutti i giorni lo stesso, lo stesso, lo stesso. Non si annoiano perché nel loro fondamento c’è la roccia». Sono persone che vivono in «Gesù: è questo che dà santità alla Chiesa; è questo che dà speranza». 

Ecco perché, ha proseguito il Papa, «dobbiamo pensarci tanto alla santità nascosta che c’è nella Chiesa, quella dei cristiani non di apparenza ma fondati sulla roccia, su Gesù». Guardare a quei «cristiani che seguono il consiglio di Gesù nell’Ultima Cena: “Rimanete in me”». Sì, «cristiani che rimangono in Gesù». Certo, «peccatori, tutti lo siamo». Così quando «qualcuno di questi cristiani fa qualche peccato grave» poi si pente, chiede perdono: e «questo è grande». Significa avere «la capacità di chiedere perdono; di non confondere peccato con virtù; di sapere bene dove è la virtù e dove è il peccato». Anche da questo si comprende che sono cristiani «fondati sulla roccia e la roccia è Cristo: seguono il cammino di Gesù, seguono Lui».

Nella prima lettura, ha spiegato il Pontefice, Isaia «parla di una città forte che ha salvezza, che segue Dio, che è giusta: un popolo forte. La città è un popolo. Un popolo forte. La sua volontà è salda e Dio gli assicura la pace: pace per chi confida in Lui». E poi aggiunge: «Confidate nel Signore sempre, perché il Signore è una roccia eterna, perché egli ha abbattuto coloro che abitavano in alto». E cioè, ha commentato Francesco, «i superbi, i vanitosi, i cristiani di apparenza saranno abbattuti, umiliati». Dice ancora Isaia: «Ha rovesciato la città eccelsa, l’ha rovesciata fino a terra, l’ha rasa al suolo». Proprio «così finiscono i cristiani di apparenza» ha rimarcato il Papa riproponendo, dunque, l’immagine di Isaia: da una parte «le rovine di una città» e poi «l’altra città, l’altra casa, salda, robusta perché è fondata sulla pietra».

Il passo di Isaia ha suggerito a Francesco un’altra riflessione. «Mi hanno fatto pensare — ha detto — gli ultimi due versetti della prima lettura». Il riferimento è «a questa città che è caduta, questa città vanitosa, questa città che non era fondata sulla roccia di Cristo». Si legge infatti: «I piedi la calpestano: sono i piedi degli oppressi, i passi dei poveri». È un’espressione, ha affermato, che «ha odore di vendetta». Sì, «sembra una vendetta», ma «non è vendetta».

Anche «la Madonna, nel suo canto, lo aveva detto: Lui ha rovesciato i potenti dai troni, ha umiliato i superbi». E «i poveri saranno quelli che trionferanno, i poveri di spirito, quelli che davanti a Dio si sentono niente, gli umili» che «portano avanti la salvezza mettendo in pratica la parola del Signore». Invece, ha ripetuto Francesco, «tutto il resto è apparenza: oggi ci siamo, domani non ci saremo». E ha citato san Bernardo: «pensa, uomo, cosa sarà di te, pasto dei vermi». Perché «ci mangeranno i vermi a tutti» e «se non abbiamo questa roccia, finiremo calpestati».

Proprio «in questo tempo di preparazione al Natale chiediamo al Signore di essere fondati saldi nella roccia che è Lui, la nostra speranza è Lui» ha concluso il Papa. È vero, «noi siamo tutti peccatori, siamo deboli, ma se mettiamo la speranza in Lui potremo andare avanti». E «questa è la gioia di un cristiano: sapere che in Lui c’è la speranza, c’è il perdono, c’è la pace, c’è la gioia». Perciò non ha senso «mettere la nostra speranza in cose che oggi sono e domani non saranno».




Solo l’umile comprende
Martedì, 2 dicembre 2014


La grandezza del mistero di Gesù si può conoscere solo umiliandosi e abbassandosi come ha fatto lui, che è arrivato al punto di essere «emarginato» e non si è certo presentato come un «generale o un governatore». Gli stessi teologi, se non fanno «teologia in ginocchio», rischiano di dire «tante cose» ma di non capire «niente». Essere umili e miti, dunque, è il suggerimento proposto da Francesco, martedì mattina, 2 dicembre, nella messa celebrata nella cappella della Casa Santa Marta.

«I testi liturgici che ci offre oggi la Chiesa — ha fatto subito notare il Pontefice — ci avvicinano al mistero di Gesù, al mistero della sua persona». E infatti, ha spiegato, il passo liturgico del Vangelo di Luca (10, 21-24) «dice che Gesù esultò di gioia nello Spirito Santo e lodò il Padre». Del resto, «questa è la vita interiore di Gesù: il suo rapporto col Padre, rapporto di lode, nello Spirito, proprio lo Spirito Santo che unisce quel rapporto». E questo è «il mistero dell’interiorità di Gesù, quello che lui sentiva».

Gesù infatti — ha proseguito Francesco — «dichiara che chi vede lui, vede il Padre». Dice precisamente: «Sì, o Padre, perché così hai deciso nella tua benevolenza». E «nessuno sa chi è il Figlio, se non il Padre. E nessuno sa chi è il Padre, se non il Figlio, e colui al quale il Figlio vorrà rivelarlo».

Il Padre, ha ribadito il Papa, «soltanto il Figlio lo conosce: Gesù conosce il Padre». E così «quando Filippo è andato da Gesù e ha detto: “mostraci il Padre”», il Signore gli risponde: «Filippo, chi vede me, vede il Padre». Difatti «è tanta l’unione fra loro: lui è l’imago del Padre; è la vicinanza della tenerezza del Padre a noi». E «il Padre si avvicina a noi in Gesù».

Francesco ha quindi ricordato che «in quel discorso di congedo, dopo la Cena», Gesù ripete tante volte: «Padre, che questi siano uno, come te e me». E «promette lo Spirito Santo, perché è proprio lo Spirito Santo che fa questa unità, come la fa tra il Padre e il Figlio». E «Gesù esulta di gioia nello Spirito Santo».

«Questo è un po’ per avvicinarsi a questo mistero di Gesù» ha spiegato il Pontefice. Ma «questo mistero non è rimasto soltanto fra loro, è stato rivelato a noi». Il Padre, dunque, «è stato rivelato da Gesù: lui ci fa conoscere il Padre; ci fa conoscere questa vita interiore che lui ha». E «a chi rivela questo, il Padre, a chi dà questa grazia?» si è chiesto il Papa. La risposta la dà Gesù stesso, come riporta Luca nel suo Vangelo: «Ti rendo lode, o Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai nascosto queste cose ai sapienti e ai dotti e le hai rivelate ai piccoli».

Perciò «soltanto quelli che hanno il cuore come i piccoli sono capaci di ricevere questa rivelazione». Soltanto «il cuore umile, mite, che sente il bisogno di pregare, di aprirsi a Dio, si sente povero». In una parola, «soltanto quello che va avanti con la prima beatitudine: i poveri di spirito».

Certo, ha riconosciuto il Papa, «tanti possono conoscere la scienza, la teologia pure». Ma «se non fanno questa teologia in ginocchio, cioè umilmente, come i piccoli, non capiranno nulla». Magari «ci diranno tante cose, ma non capiranno nulla». Poiché «soltanto questa povertà è capace di ricevere la rivelazione che il Padre dà tramite Gesù, attraverso Gesù». E «Gesù viene non come un capitano, un generale di esercito, un governante potente», ma «viene come un germoglio», secondo l’immagine della prima lettura, tratta dal libro del profeta Isaia (11, 1-10): «In quel giorno, un germoglio spunterà dal tronco di Iesse». Dunque, «lui è un germoglio, è umile, è mite, ed è venuto per gli umili, per i miti, a portare la salvezza agli ammalati, ai poveri, agli oppressi, come lui stesso dice nel quarto capitolo di Luca, quando è alla sinagoga di Nazareth». E Gesù è venuto proprio «per gli emarginati: lui si emargina, non ritiene un valore innegoziabile essere uguale a Dio». Infatti, ha ricordato il Pontefice, «umiliò se stesso, si annientò». Egli «si è emarginato, si è umiliato» per «darci il mistero del Padre e il suo proprio».

Il Papa ha rimarcato che «non si può ricevere questa rivelazione fuori, al di fuori, del modo in cui Gesù la porta: in umiltà, abbassando se stesso». Non si può mai dimenticare che «il Verbo si è fatto carne, si è emarginato per portare la salvezza agli emarginati». E «quando il grande Giovanni Battista, in carcere, non capiva tanto come erano le cose lì, con Gesù, perché era un po’ perplesso, invia i suoi discepoli a fare la domanda: “Giovanni ti domanda: sei tu o dobbiamo aspettare un altro?”».

Alla richiesta di Giovanni, Gesù non risponde: «Sono io il Figlio». Dice invece: «Guardate, vedete tutto questo, e poi dite a Giovanni cosa avete visto»: ossia che «i lebbrosi sono sanati, i poveri sono evangelizzati, gli emarginati sono trovati».

Risulta evidente, secondo Francesco, che «la grandezza del mistero di Dio si conosce soltanto nel mistero di Gesù, e il mistero di Gesù è proprio un mistero di abbassarsi, di annientarsi, di umiliarsi, e porta la salvezza ai poveri, a quelli che sono annientati da tante malattie, peccati e situazioni difficili».
«Fuori da questa cornice — ha ribadito il Papa — non si può capire il mistero di Gesù, non si può capire questa unzione dello Spirito Santo che lo fa gioire, come avevamo sentito nel Vangelo, nella lode del Padre, e che lo porta ad evangelizzare i poveri, gli emarginati».

In questa prospettiva, nel tempo di Avvento, Francesco ha invitato a pregare per chiedere la grazia «al Signore di avvicinarci più, più, più al suo mistero, e di farlo sulla strada che lui vuole che noi facciamo: la strada dell’umiltà, la strada della mitezza, la strada della povertà, la strada di sentirci peccatori» Perché è così, ha concluso, che «lui viene a salvarci, a liberarci».




Il Papa: Bisogna annunciare la Buona Novella, non piegarsi alle fantasie degli uomini. Molte volte ci stanchiamo di rispondere, senza renderci conto che i nostri interlocutori non cercano risposte. Bisogna annunciare, andare avanti, porre interrogativi


DISCORSO DEL SANTO PADRE FRANCESCO
AGLI 
ECC.MI PRESULI DELLA CONFERENZA EPISCOPALE DELLA SVIZZERA,
IN VISITA "AD LIMINA APOSTOLORUM"
Lunedì, 1° dicembre 2014


La missione dei laici nella Chiesa ha, di fatto, una notevole importanza, poiché essi contribuiscono alla vita delle parrocchie e delle istituzioni ecclesiali, sia come collaboratori sia come volontari. È bene riconoscere e sostenere il loro impegno, pur mantenendo la chiara distinzione tra il sacerdozio comune dei fedeli e il sacerdozio del servizio. Su questo punto, vi incoraggio a proseguire la formazione dei battezzati rispetto alle verità di fede e al loro significato per la vita liturgica, parrocchiale, familiare e sociale e a scegliere i collaboratori con cura. In tal modo permetterete ai laici di inserirsi veramente nella Chiesa, di occuparvi il posto che spetta loro e di rendere feconda la grazia battesimale ricevuta, per andare incontro insieme alla santità e operare per il bene di tutti.

La missione ricevuta dal Signore ci invita inoltre ad andare incontro a coloro con i quali entriamo in contatto, anche se nella loro cultura, nella loro confessione religiosa o nella loro fede si distinguono da noi. Se crediamo all’azione libera e generosa dello Spirito, possiamo comprenderci bene gli uni gli altri e collaborare per servire meglio la società e contribuire in modo deciso alla pace. L’ecumenismo è un contributo non soltanto all’unità della Chiesa, ma anche all’unità della famiglia umana (cfr. Evangelii gaudium, n. 245). Favorisce una convivenza feconda, pacifica e fraterna. Nella preghiera e nell’annuncio comune del Signore Gesù dobbiamo però fare attenzione a permettere ai fedeli di tutte le confessioni cristiane di vivere la loro fede in maniera inequivocabile e libera da confusione, e senza ritoccare cancellando le differenze a scapito della verità. Quando, per esempio, con il pretesto di un certo andarsi incontro dobbiamo nascondere la nostra fede eucaristica, non prendiamo sufficientemente sul serio né il nostro patrimonio, né quello del nostro interlocutore. Allo stesso modo, nelle scuole l’insegnamento della religione deve tener conto delle particolarità di ogni confessione.

Il Vangelo possiede una propria forza originaria di fare proposte. Spetta a noi presentarlo in tutta la sua ampiezza, renderlo accessibile senza offuscarne la bellezza né affievolirne il fascino, affinché raggiunga le persone che si devono confrontare con le difficoltà della vita quotidiana, che cercano il senso della propria vita o che si sono allontanate dalla Chiesa. Deluse o abbandonate a se stesse, si lasciano tentare da modi di pensare che negano consapevolmente la dimensione trascendente dell’uomo, della vita e dei rapporti umani, specialmente dinanzi alla sofferenza e alla morte. La testimonianza dei cristiani e delle comunità parrocchiali può davvero illuminare il loro cammino e sostenere la loro ricerca di felicità. E così la Chiesa in Svizzera può essere più chiaramente se stessa, Corpo di Cristo e popolo di Dio, e non solo una bella organizzazione, un’altra ong.

Cari Fratelli, la Chiesa proviene dalla Pentecoste. Al momento della Pentecoste, gli apostoli uscirono e si misero a parlare tutte le lingue, potendo così manifestare a tutti gli uomini, attraverso la forza dello Spirito Santo, la loro fede viva in Cristo risorto. Il Redentore ci invita sempre nuovamente a predicare il Vangelo a tutti. Bisogna annunciare la Buona Novella, non piegarsi alle fantasie degli uomini. Molte volte ci stanchiamo di rispondere, senza renderci conto che i nostri interlocutori non cercano risposte. Bisogna annunciare, andare avanti, porre interrogativi con la visione apostolica mai superata: «Questo Gesù Dio l’ha risuscitato e noi tutti ne siamo testimoni» (At 2, 32).



Il Papa: Insieme a tutto il popolo cristiano, il teologo apre gli occhi e gli orecchi ai “segni dei tempi”



DISCORSO DEL SANTO PADRE FRANCESCO
AI MEMBRI DELLA COMMISSIONE TEOLOGICA INTERNAZIONALE
Sala del Concistoro
Venerdì, 5 dicembre 2014

La vostra missione è di servire la Chiesa, il che presuppone non solo competenze intellettuali, ma anche disposizioni spirituali. Tra queste ultime, vorrei attirare la vostra attenzione sull’importanza dell’ascolto. «Figlio dell’uomo – disse il Signore al profeta Ezechiele – tutte le parole che ti dico ascoltale con gli orecchi e accoglile nel cuore» (Ez 3,10). Il teologo è innanzitutto un credente che ascolta la Parola del Dio vivente e l’accoglie nel cuore e nella mente. Ma il teologo deve mettersi anche umilmente in ascolto di «ciò che lo Spirito dice alle Chiese» (Ap 2,7), attraverso le diverse manifestazioni della fede vissuta del popolo di Dio. Lo ha ricordato il recente documento della Commissione su “Il sensus fidei nella vita della Chiesa”. È bello, Mi è piaciuto tanto quel documento, complimenti! Infatti, insieme a tutto il popolo cristiano, il teologo apre gli occhi e gli orecchi ai “segni dei tempi”. È chiamato ad «ascoltare attentamente, discernere e interpretare i vari linguaggi del nostro tempo, e saperli giudicare alla luce della parola di Dio - è quella che giudica, la parola di Dio - perché la verità rivelata sia capita sempre più a fondo, sia meglio compresa e possa venir presentata in forma più adatta» (Conc. Ecum. Vat. II, Cost. Gaudium e spes, 44).

...vorrei notare la maggiore presenza delle donne - ancora non tanta… Sono le fragole della torta, ma ci vuole di più! - presenza che diventa invito a riflettere sul ruolo che le donne possono e devono avere nel campo della teologia. Infatti, «la Chiesa riconosce l’indispensabile apporto della donna nella società, con una sensibilità, un’intuizione e certe capacità peculiari che sono solitamente più proprie delle donne che degli uomini … Vedo con piacere come molte donne … offrono nuovi apporti alla riflessione teologica» (Esort. ap. Evangelii gaudium, 103). Così, in virtù del loro genio femminile, le teologhe possono rilevare, per il beneficio di tutti, certi aspetti inesplorati dell’insondabile mistero di Cristo «nel quale sono nascosti tutti i tesori della sapienza e della conoscenza» (Col 2,3). Vi invito dunque a trarre il migliore profitto da questo apporto specifico delle donne all’intelligenza della fede.

 La diversità dei punti di vista deve arricchire la cattolicità senza nuocere all’unità. L’unità dei teologi cattolici nasce dal loro comune riferimento ad una sola fede in Cristo e si nutre della diversità dei doni dello Spirito Santo. A partire da questo fondamento e in un sano pluralismo, vari approcci teologici, sviluppatisi in contesti culturali differenti e con diversi metodi utilizzati, non possono ignorarsi a vicenda, ma nel dialogo teologico dovrebbero arricchirsi e correggersi reciprocamente. Il lavoro della vostra Commissione può essere una testimonianza di tale crescita, e anche una testimonianza dello Spirito Santo, perché è Lui a seminare queste varietà carismatiche nella Chiesa, diversi punti di vista, e sarà Lui a fare l’unità. Lui è il protagonista, sempre.

Maria è così l’icona della Chiesa la quale, nell’impaziente attesa del suo Signore, progredisce, giorno dopo giorno, nell’intelligenza della fede, grazie anche al lavoro paziente dei teologi e delle teologhe. La Madonna, maestra dell’autentica teologia, ci ottenga, con la sua materna preghiera, che la nostra carità «cresca sempre più in conoscenza e in pieno discernimento» (Fil 1,9-10).