è un silenzio strano nel nostro Paese. Un silenzio che diventa sempre più rumoroso man mano che passano le settimane e si infiamma il dibattito sull’introduzione da noi della Ru486. Nemmeno una femminista italiana ha fatto sentire la sua voce per muovere qualche osservazione sull’arrivo della pillola abortiva. La legalizzazione dell’aborto in Occidente viene universalmente ricordata come una grande conquista civile e legale, una conquista alla quale ha concorso fortemente l’impegno tenace e caparbio delle femministe che rivendicavano a gran voce il diritto della donna di decidere del proprio corpo e della propria gravidanza. Quella battaglia era dovuta anche alla volontà di sconfiggere la piaga degli aborti clandestini. Quei tantissimi aborti che uccidevano o menomavano più o meno gravemente tante donne disperate, incappate negli arnesi di mammane e procacciatori di aborti senza scrupolo. L’impegno delle femministe fu duplice: salvando la vita e tutelando la salute delle donne e il loro diritto di scelta, si voleva anche rendere gravidanza, maternità e aborto questioni pubbliche, destinate a contare sul piano politico. Due aspetti che la Ru486 viola in pieno. Se anche è vero che in Italia c’è (per ora) il paletto della legge 194 che impone di abortire in ospedale, il meccanismo della pillola Ru486 introduce un’altra modalità abortiva. Come noto, infatti, le pillole in realtà sono due. Una uccide l’embrione in grembo, atrofizzandolo e togliendogli il nutrimento. L’altra – da prendere 48 ore dopo – lo espelle: è un momento doloroso (servono gli antidolorifici) e spesso impressionante (giacché va controllata l’emorragia, le donne vedono l’embrione abortito). Non solo, dunque, il dolore fisico non diminuisce – anzi! –, ma aumenta notevolmente il carico psicologico. Mentre nell’aborto classico la donna si reca in ospedale (anche solo in day hospital) e il medico interviene, nell’altro è lei stessa a esserne anche l’artefice materiale. Sembra un dettaglio formale, ma chi c’è passato racconta che non è proprio così. L’aborto è mio, e lo faccio io: sono anni che Emma Bonino va ripetendo «chi lo dice che noi donne dobbiamo sempre soffrire? Sarei contenta di trovare un modo per abortire facile». La Ru486 di facile e di meno sofferto non ha proprio nulla. Eppure, ben poche femministe italiane si sono sentite su questo punto.In secondo luogo, con la Ru486 l’aborto diventa – anzi, ridiventa – un affare esclusivamente privato. Con essa, la maternità viene subdolamente ricollocata tra le mura domestiche. Anche qui, tantissimo silenzio. Eppure poco più di 30 anni fa le nostre femministe si sono battute perché l’aborto uscisse dalla clandestinità, non fosse più una pratica privata, invisibile e solitaria, non fosse più una vergogna da nascondere, ma diventasse una scelta che, seppur dolorosa, riguardasse, coinvolgesse e chiamasse in causa tutti. Sul piano fattuale e morale in primis. Già oggi la maternità nel nostro Paese non ha l’attenzione pubblica e politica che si meriterebbe – la pillola abortiva è un passo in più verso la sua completa espulsione. Già così attorno all’aborto c’è disinteresse, un enorme non-detto che fa comodo a tutti. Una delle frasi peggiori che spesso, molto spesso si sentono sulla bocca degli uomini è: «Io, personalmente, non vorrei l’aborto, ma lei lo vuole e debbo rispettare la sua decisione». Dichiarandosi personalmente contrario, ma di fatto – in nome della libera scelta – obbligato ad accettarlo, il padre mancato (scampato?) si sente libero dal peso morale, e si avverte come politicamente ineccepibile. Criticando l’ideologia del gender, molte femministe anglosassoni e francesi si sono trovate (loro malgrado, occorre aggiungere) alleate della Chiesa cattolica. Sul dibattito attorno alla legge 40, anche in Italia abbiamo avuto un esempio di questo interessante binomio (due «femministe libertarie di sinistra», Alessandra Di Pietro e Paola Tavella, ebbero il coraggio di sfidare le convenzioni politicamente corrette su maternità e fecondazione assistita pubblicando il saggio Madri selvagge, un «manifesto radicale di amore per la vita»). Eppure, l’aborto in Italia rimane un’altra cosa (sebbene siano quasi vent’anni che anche sulla pillola abortiva le femministe americane, abituate a denunciare liberamente e senza paura le manipolazioni su corpo e fertilità femminile, discutono, criticano e condannano). Da noi, è ancora tabù: trovarsi vicino alla posizioni della Chiesa in tema è e resta inammissibile. Sollevare qualche obiezione sulla banalizzazione culturale dell’aborto a cui la Ru486 induce, sul dolore che chiama in causa, o sul suo ricacciare l’aborto tra le questioni private femminili (il che significa invisibili e insignificanti), potrebbe essere un gesto molto femminista. Terribilmente femminista. Anche se ciò comporta il terribile rischio di venirsi a trovare sul palco accanto alla terribile Chiesa. (Da femminista, e da cattolica, rivorrei tanto le streghe).
Giulia Galeotti
Copyright 2009 © Avvenire
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