di Claudio RiséTratto
da Il Mattino di Napoli del 19 ottobre 2009
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Cos’è che fa crescere l’odio in una comunità, in una nazione?
È forse il caso di chiederselo in un paese come il nostro dove in pochi mesi si è passati dall’ossessivo martellamento sulle ragazze frequentate dal Premier Berlusconi, a inviti sul web di sparare allo stesso, e infine a minacce di morte inviate tramite stampa da una «organizzazione combattente». L’odio nell’Italia di oggi non è diretto solo contro Berlusconi, ma appare anche all’interno dell’opposizione e nella vita civile.
Il terreno di crescita dell’odio è infatti diffuso nella società, fuori dalla politica: è riconoscibile dalla frequente assenza di uno sguardo umano verso gli altri, e dalla violenza come stile di azione e di relazione.
Qualche giorno fa due diciottenni in motorino hanno strattonato una donna di novant’anni per scipparle la borsa, provocandone la caduta e la morte. È qui che l’odio si sviluppa: quando l’essere umano non è più riconosciuto come persona, ma solo come strumento per realizzare i propri desideri e le proprie passioni. Qualcuno cui strappare dei soldi, un possibile oggetto sessuale da stuprare, un avversario politico da abbattere.
In ognuna di queste azioni, che i media ci raccontano quotidianamente, non c’è rispetto od empatia per la persona umana. I soldi, il sesso, il potere, lo status: queste sono le uniche passioni dei portatori d’odio, che diventano tali proprio per la loro povertà affettiva. L’altro, l’essere umano che vorrebbero abbattere per ottenere ciò che vogliono, è solo uno strumento; non è «persona», non è oggetto di alcun sentimento.
Questa caratteristica dell’odio collettivo, diffuso nei diversi strati sociali, ci aiuta a capirne un tratto che lo distingue profondamente dalle avversioni personali, presenti ad esempio nelle vicende familiari, a volte con esplosioni anche violente. L’odio personale (famigliare ad esempio), è negativo, ma è pur sempre un sentimento, appartenente ad una dinamica psichica normale.
Le forme di odio impersonale, come queste, diffuse nella collettività, denunciano invece una netta rottura ed allontanamento da ogni sentire, e un avvicinamento alla zona ben più pericolosa della follia, della psicosi, caratterizzata appunto da un estraniamento dall’affetto, dal comune sentire umano.
È proprio il loro carattere psicotico ad assicurare a queste forme la loro forza, i loro aspetti irrazionali, e la loro pericolosità; ad esempio l’assenza del senso del limite, che nasce sempre da una forma di compassione, per sé e per gli altri. In questi disturbi psichici invece non c’è compassione, né pietà, perché non c’è la capacità di sentimento. È sempre la forza irrazionale della psicosi a far sì che queste forme possano trasmettersi attraverso una sorta di contagio diffuso nell’inconscio collettivo, al di fuori da motivazioni e stili di comunicazione razionali.
Nel secolo scorso le grandi avventure totalitarie, comunismo e nazismo, si svilupparono proprio attraverso la riduzione dell’altro a «cosa» (che quindi poteva essere abbattuta o rimossa non appena diventava di ostacolo), e l’adozione della violenza come stile d’azione. L’ideologia servì ad amalgamare pulsioni diverse, unite nell’odio per l’avversario e la brama di potere.
Oggi Berlusconi è diventato oggetto prediletto di questo odio, specie da quando si rese noto che oltre al potere, allo status, e al denaro (consolidati oggetti dei più ricorrenti deliri psicotici), egli disponeva anche del sesso, ben collaudata miccia di molteplici follie collettive, tra cui il nazismo.
Forse i sondaggi appoggiano il premier. Ma la psicosi non li legge.