Lezioni dal grande specialista britannico di storia medioevale, che con lucida coscienza seppe unire mestiere di storico e passione apologetica. Torna un grande storico dell’“età di mezzo”, colpevolmente dimenticato dall’editoria nostrana. C’è più speranza e futuro in una sua sola paginetta che nei troppi tomi piccolohegeliani che ci circondano |
di Marco Respinti |
Henry Christopher Dawson è certamente annoverabile fra i “grandi convertiti” delle humanae litterae dell’universo anglofono, i quali costituiscono magna pars di quel mondo culturale che proprio per questo – e solo per questo, non per ammiccamento verso l’uso ideologico inveterato, benché talvolta pure contra factum, dell’espressione “Umanesimo” – viene definito “Christian Humanism”, “umanesimo cristiano”, fattispecie dell’“umanesimo religioso”, descritto efficacemente per esempio da Gregory Wolfe attraverso l’antologia di testi The New Religious Humanists: A Reader, un’opera i cui contenuti hanno fondamento logico, oltre che precedente cronologico, in uno studio condotto dal padre gesuita Martin Cyril D’Arcy (1888-1976), Humanism and Christianity. Fra costoro, e scegliendo idealmente il venerabile card. John Henry Newman (1801-1890) come “capostipite”, figurano scrittori e pensatori dell’ecumene anglofono, diversi ma “simili”, per la maggior parte ma non tutti cattolici, quali Gilbert Keith Chesterton (1874-1936), Joseph Hilaire Pierre René Belloc (1870-1953), Robert Hugh Benson (1871-1914), Maurice Baring (1874-1945), Thomas Stearns Eliot (1888-1965), Arthur Evelyn St. John Waugh (1903-1966), Dorothy Leigh Sayers (1893-1957), John Ronald Reuel Tolkien (1892-1973), Charles Walter Stansby Williams (1886-1945), Clive Staples Lewis (1898-1963), Roy Campbell (1901-1957), Thomas Malcolm Muggeridge (1903-1990), il citato padre D’Arcy, Flannery O’Connor (1925-1964), John Orley Allen Tate (1899-1979), Robert Penn Warren (1905-1989) e Walker Percy (1816-1890). Tra scienza e fede In questa “compagnia” Dawson spicca certamente per la sapidità delle indagini storiografiche volte nel corso di un’intera vita di studi, nonché per l’efficacia con cui ha proposto visioni storiche d’insieme senza mai né perdere gusto per il particolare né sacrificare il senso del dettaglio all’ampiezza degli scenari evocati e alle doverose, oltre che utili, ricostruzioni di quadro; ma soprattutto per aver saputo, tanto efficacemente quanto raffinatamente, porre ciò al servizio di un profondo e costante impegno culturale ispirato da una fede cattolica vissuta sempre con pietà e con devozione, una fede che della scienza – delle scienze storiche – ha saputo fare strumento sottile di apologetica accorta, insieme delicato e fermo, caritatevole e intransigente. Dawson, cioè, non ha mai separato l’“uomo di scienza” dall’“uomo di fede” e proprio quest’intima unione fra le due dimensioni della sua persona gli ha permesso – contro quanto invece comunemente si pensa – di coniugare l’onestà intellettuale più profonda, il rigore professionale più cristallino e lo zelo missionario più appassionato senza confondere gli ambiti o “sconfinare”. In Dawson, ancora, lo scienziato e il cristiano sono, come devono essere, una persona sola, e la sua storia personale di studioso e di credente – una vera e propria testimonianza – mostra, e dimostra, come la distinzione fra quelle due dimensioni – che talvolta si opera, e che talaltra viene operata per ragioni puramente strumentali e per motivi squisitamente ideologici – abbia un semplice significato logico e funzionale, non certo un fondamento di realtà né una sostanza, e come, dunque, il rispetto dell’articolazione fra quanto è del “Cesare delle scienze” e quanto è di Dio onnipotente si esprime, in ultima analisi, solo nel saper agire con la dovuta discrezione e con la necessaria eleganza. Vita di un “chierico” Per queste ragioni, e per l’attualità della sua testimonianza in un mondo e in un tempo avviati su chine diverse, lo storico britannico è più che mai uomo di scienza e di fede adatto ai giorni nostri, giorni di conservazione di quanto vale la pena di essere sempre conservato e di ricostruzione di quanto vale la pena di essere sempre ricostruito, ossia tempi in cui il passato che mai può tornare è alle spalle e in cui però il futuro è ancora tutto da fare soprattutto perché da scegliere. Nell’epoca della «modernità liquida» – come si esprime con formula ormai celebre il sociologo polacco Zygmund Bauman –, cioè nella cosiddetta “postmodernità” in cui quanto era non è più e quanto sarà non è ancora, quanto potrebbe essere diviene urgente e quanto vorremmo sia diviene impegno per una civiltà cristiana nel terzo millennio: a questo proposito l’opera di Dawson diventa preziosa al punto di farsi indispensabile in quanto opera di uno storico e di un credente che della Cristianità Nuova, tutta da costruire all’insegna della «nostalgia dell’avvenire», è un vero e proprio “chierico”. Dawson nasce il 12 ottobre 1889 in Gran Bretagna, precisamente ad Hay Castle, nella località di Hay, nella vallata del fiume Wye, al confine fra Herefordshire e Galles. Cresciuto in un ambiente familiare anglicano, intensamente religioso, compie gli studi universitari al prestigioso Trinity College di Oxford, si converte dall’anglicanesimo e, nella stessa città, il 5 gennaio 1914, aderisce pubblicamente alla Chiesa Cattolica. Grande influenza aveva avuto su di lui il Movimento di Oxford, che dall’anno della sua formazione, nel 1833 all’interno dell’università, si era battuto contro le derive progressiste della teologia anglicana e che era culminato con la conversione al cattolicesimo, nel 1845, del venerabile Newman. Dawson intraprende dunque l’attività accademica nel 1925, alternando l’insegnamento di Storia della Civiltà con quello di Filosofia della Religione nelle università britanniche di Exeter, di Liverpool e di Edimburgo, nonché nell’Università di Dublino, in Irlanda. Dal 1920 si dedica anche all’attività pubblicistica e dal 1940 al 1944 dirige The Dublin Review. Nel 1943 è nominato accademico di Gran Bretagna, quindi diviene il primo Chauncey Stillman Professor of Roman Catholic Studies all’Harvard University di Cambridge, nel Massachusetts, negli Stati Uniti d’America, dove vive dal 1958 al 1962. Nello stesso 1962 lascia l’insegnamento e torna in patria. Muore a Budleigh Salterton, nel Devonshire, il 25 maggio 1970. Pure polemista Nel complesso, l’opera di Dawson «[...] si propone [...], dopo aver illustrato il ruolo della religione nella vita delle civiltà, di concentrare l’attenzione su quella fra esse che sola aveva mostrato di possedere un dinamismo storico universale, sia nei suoi aspetti sorgivi che nella sua maturità e nella sua decadenza», ovvero sul cristianesimo, dunque sul cattolicesimo. Se, quindi, difficilmente «[...] sono rintracciabili nelle opere di Dawson spunti di apologetica spicciola contro l’idea dei “secoli buî”», è invece costante e sistematico il suo sforzo, profuso «[...] contro l’idea dell’accidentalità dell’influsso cristiano» nella costruzione della civiltà europea e dunque occidentale, «[...] di porre in evidenza la complessità del processo con cui la Cristianità medioevale si è formata e le molteplici forze che vi hanno contribuito». Talvolta «[...] guardato come un pericoloso reazionario dall’establishment razionalista e socialista della cultura inglese e come un conservatore papista dagli ambienti del progressismo cattolico», vale a dire – insomma – poco amato, Dawson è invece un «vero storico delle civiltà» nella misura in cui nelle proprie opere scientifiche di carattere storico è capace di trascendere, quindi anche di sublimare, i motivi di polemica più immediata prediligendo la descrizione, fatta sia di analisi sia di sintesi, di quelle grandi linee di tendenza che illustrano le «dinamiche della storia mondiale», indispensabili «a comprendere e a farsi comprendere». Dawson – autore comunque di diverse altre opere «politiche» coscientemente animate da vis polemica – ha quindi pure il pregio d’indicare un modo specifico – e non ultimo – del «fare apologetica», modo del resto assai confacente alla temperie culturale odierna che richiede più demistificazione di errate idées reçues che elaborazione di tesi innovative: la presentazione, cioè, quasi “nuda e cruda” dei dati di fatto acquisiti dalla ricerca specialistica e la “fredda” esposizione della realtà in opere di “alta divulgazione” quasi senz’altro aggiungere, secondo un metodo che idealmente affianca lo storico britannico alla storica francese Régine Pernoud (1909-1998). Nelle opere dawsoniane di carattere scientifico, infatti, gli elementi di commento e di giudizio, benché mai assenti, vengono sempre lasciati volutamente sullo sfondo e talora sostanzialmente espunti per essere affidati appunto ad altri scritti d’intonazione specificamente “politica”. Dentro la frattura The Dividing of Christendom – un’opera che della “scienza apologetica” e dell’“apologia scientifica” dawsoniane è un esempio eccellente –, appartiene all’ultima fase della produzione dello storico britannico, cioè a quella successiva alla conclusione della sua attività accademica presso l’università Harvard di Cambridge dove tenne – fra controversie e seri problemi di salute – la prima cattedra di Studi Cattolici Romani ivi istituita, intitolata all’uomo d’affari Charles Chauncey Stillman (1877-1926). The Dividing of Christendom è anzi una delle ultime opere pubblicate da Dawson in vita, quelle che per molti aspetti appaiono cioè conclusive, anche se non riassuntive, e in certa misura persino “testamentarie”. Dopo la pubblicazione, nel 1961, di The Crisis of Western Education – una ricognizione e una denuncia del livello di degrado raggiunto dalla cultura e dall’insegnamento occidentali che in Dawson è propedeutica necessaria all’opera di restaurazione di una cultura autenticamente cristiana –, lo storico britannico raccoglie e sistema le “lezioni americane” svolte a Harvard, preparandole per la pubblicazione. Dawson progetta dunque una trilogia: il primo volume è The Dividing of Christendom, pubblicato nel 1965, il secondo è The Formation of Christendom, pubblicato nel 1967 – e preceduto nel 1966 da un “interludio di raccordo”, o meglio da un momento di focalizzazione, Mission to Asia, in cui emblematicamente viene messo a tema lo sforzo evangelizzatore “europeo” verso l’Oriente –, e il terzo è The Return to Unity, che rimane incompleto e che quindi non viene pubblicato. Postumo uscirà poi The Gods of Revolution, frutto peraltro di studi assai precedenti e originariamente inteso come parte di un’opera più ampia mai conclusa, dedicato alla Rivoluzione Francese. L’ “agente” negli usa The Formation of Christendom e The Dividing of Christendom, gli unici due volumi conclusi della trilogia progettata, furono pubblicati prima negli Stati Uniti d’America e solo successivamente in Gran Bretagna, patria del loro autore, con grande disappunto di Dawson. Si tratta di un primo segno tangibile di quanto accadrà poi, sempre più vistosamente dopo la scomparsa dello studioso britannico: la memoria di Dawson, infatti, è rimasta sempre più desta negli Stati Uniti d’America, dove fioriscono edizioni dei suoi testi, studi critici e ambienti umani e culturali che alla sua opera si richiamano organicamente, che non in Gran Bretagna, dove il nome dell’insigne storico è lentamente scivolato in una sorta di oblio. Ciò sembra peraltro confermare indirettamente la giustezza delle intuizioni di Dawson, il quale – compreso il nesso storico fra la Cristianità europea e la Cristianità magnoeuropea, e apprezzata l’importanza del legame causale fra le due – è venuto nel corso della vita guardando con speranza sempre crescente all’America Settentrionale, fra senso della continuità e desiderio di rinnovamento, per essere poi dall’America Settentrionale “ripagato” significativamente. Ne è testimonianza concreta anche lo stesso impegno accademico assunto volentieri da Dawson a Harvard – impegno da cui, ricordo ancora una volta, nascono le ultime sue opere, fra cui The Dividing of Christendom –, un ateneo in origine espressamente fondato come istituzione cristiana – puritana –, poi abbondantemente secolarizzatosi, ma in tesi ancora idealmente faro illuminante e haut lieu della cultura statunitense che diviene il luogo fisico – ma anche simbolico – dell’opera di restaurazione culturale maturata da Dawson nel corso di un’esistenza intera e il cui “proclama” fu lanciato pubblicamente – una volta giunto a maturazione nella coscienza del suo autore – proprio da quel luogo. Negli Stati Uniti d’America, infatti, Dawson pensa organicamente ai motivi della crisi dell’educazione occidentale, chiave di volta del decadimento di una cultura intera, e ai possibili rimedi stilando addirittura un programma concreto di restaurazione educativo-culturale, dopo aver incontrato colui che diverrà il suo massimo e più fedele “agente” americano, John J. Mulloy, ovvero un uomo che si prodigherà per “mettere in atto” ovvero per “politicizzare”, l’opera culturale dawsoniana. Trilogia americana Del resto, come scrive la figlia dello storico britannico, Christina Scott, sua biografa, «nonostante il suo impressionante e inconfondibile carattere inglese», Dawson «[...] nutriva un’ammirazione profonda e illimitata per gli Stati Uniti d’America e per gli statunitensi, e benché fermo sostenitore del movimento europeista era nondimeno un “uomo NATO”». Lo studioso britannico ebbe del resto anche l’occasione di affermare pubblicamente che «l’Europa fu la fonte da cui provennero il credo democratico, l’idealismo statunitense e la filosofia del diritto naturale, e [che] a tutti e tre sono rimasti fino in fondo più fedeli gli Stati Uniti che non l’Europa». Ad anni di distanza, ripercorrendo la biografia di Dawson e volendo in essa cogliere le suggestioni fornite da alcune “istantanee” disseminate lungo il film della sua esistenza e della sua produzione, è forse possibile azzardare un’interpretazione personale di alcuni dati di fatto. Letta dunque così la progettata e incompiuta trilogia di opere dawsoniane “americane” dedicate alla cultura europea e alla sua espansione, di cui The Dividing of Christendom costituisce il primo passo, appare necessario ripercorrere l’itinerario storico al contrario, cioè risalirlo. Infatti, dapprima Dawson pubblica in forma di libro l’insieme delle proprie lezioni che descrivono la progressiva disunione del mondo crisiano europeo iniziata con il tramonto della civiltà cosiddetta medioevale fra la fine del secolo XIII e la metà del secolo XVI, e quindi proseguita lungo i secoli successivi con il trasformarsi di tale disunione in una frantumazione vera e propria esportata nell’intero ecumene occidentale – è il tema di The Dividing of Christendom –, poi raccoglie e pubblica le lezioni che dell’Europa ricostruiscono il tempo dell’unità culturale illustrando di essa i percorsi di maturazione e la stagione della maturità – è il tema di The Formation of Christendom –, infine si riserva di suggerire, con la pubblicazione dell’ultima serie di lezioni, strade di ricupero e di restaurazione dell’“unità perduta” attraverso il progettato e mai pubblicato The Return to Unity. Post factum, Dawson cioè parte dai problemi dell’ora presente e inizia a rispondervi riproponendo un precedente storico “che ha funzionato” affinché, nella misura del possibile, se ne imiti lo spirito nella costruzione del futuro. In questo modo il modello esemplare della Cristianità europea medioevale, e The Formation of Christendom ne ripercorre la storia della nascita, risulta essere il perno che regge lo studio su The Dividing of Christendom e l’incompiuto programma di ricostruzione del futuro in una Cristianità Nuova, «nostalgia dell’avvenire». Il pericolo Stato The Dividing of Christendom è – finalmente – l’opera, unica nella produzione dawsoniana abbondantemente incentrata sulla descrizione della nascita, dello sviluppo e dell’ampliamento dell’Europa cristiana, in cui lo storico britannico ripercorre l’itinerario di dissoluzione della Cristianità medioevale lungo un arco di tempo davvero vasto e forse definibile in termini di “gestazione della Modernità”. Si tratta cioè dei secoli in cui, fra continuità e innovazione, l’originaria unità culturale cristiana del Vecchio Mondo si sfrangia progressivamente, si frantuma e in parte si perde, incubando lentamente ma inesorabilmente quel fenomeno socio-ideologico noto come Modernità che è talora difficile da descrivere con precisione in itinere, ma che certamente è lucidamente rilevabile a conclusione del lungo “antico regime” che la connota, ovvero a far data dalla Rivoluzione Francese del 1789, evento che tale itinerario di gestazione chiude partorendo lo strumento precipuo di azione e di pressione della Modernità stessa, ovvero lo Stato moderno. Non a caso Dawson ha dedicato allo Stato moderno un’opera importante incentrata sui rapporti che lo Stato nell’epoca moderna mantiene nei confronti della religione, in particolare del cristianesimo, ovvero con l’unica vera alternativa di cultura anche politica alla chiusura prima dispotica poi totalitaria dello stesso. E sempre non a caso l’ultimo libro di Dawson, pubblicato postumo, si occupa della Rivoluzione Francese e del suo “neopaganesimo” statolatrico anticristiano. Un nuovo ponte Ripercorrendo in The Dividing of Christendom sia le tappe d’incubazione del mondo compiutamente moderno nel senso filosofico e ideologico dell’espressione sia la storia dell’epoca moderna nel senso cronologico dell’espressione, Dawson offre un contributo di assoluta rilevanza alla doverosa opera di apprezzamento dell’importante differenza esistente fra le due realtà, una differenza sostanziale, che invece troppo spesso viene svilita se non addirittura ignorata. Descrivendo l’itinerario di disunione progressiva della cultura cristiana europea e il contagio che di tale disunione progressiva si diffonde nel mondo occidentale, Dawson offre quindi strumenti interpretativi indispensabili per comprendere il complesso fenomeno della secolarizzazione della società e il ruolo svolto dal protestantesimo in questo quadro, ma anche la persistenza, e non solo la sopravvivenza, in Occidente di elementi culturali ancora profondamente religiosi e persino di reazioni antimoderne quali per esempio sono stati la Cristianità barocca e l’“uomo barocco” nel secolo XVII. Del resto, The Dividing of Christendom è certamente, oltre che testo in cui si descrive la perdita di un bene grande, anche orientamento nella costruzione di un ponte nuovo che permetta di raggiungere chi, dopo il crollo delle antiche vie di comunicazione, è sopravvissuto e ancora vive, e con il quale, dalle macerie, occorre riprendere organicamente il contatto per riallacciare un vecchio legame, assottigliatosi ma mai venuto del tutto meno, iniziando l’opera di costruzione da entrambe le sponde del crollo, contemporaneamente e con unità ideale d’intenti allo scopo di edificare la meta comune, anzi unica. Per queste ragioni The Dividing of Christendom annuncia oggi l’incipit di una grande missione, compito primario del secolo che viviamo. |
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