Tratto da L'Osservatore Romano del 20 ottobre 2009
Il 19 ottobre 1984 padre Jerzy Popie-luszko, un giovane prete di Varsavia della parrocchia di San Stanislao Kostka, fu invitato nella città di Bydgoszcz, per partecipare all'incontro di preghiera del locale circolo della pastorale operaia.
Prima celebrò la santa messa, poi commentò i misteri dolorosi del rosario. Finì con le seguenti parole: "Preghiamo per essere liberi dalla paura e dallo spavento ma, prima di tutto, per essere liberi dal desiderio di vendetta e di violenza". Dopo l'incontro, padre Jerzy decise di ritornare a casa, malgrado l'ora fosse tarda. Viaggiava nella macchina guidata da un certo Waldemard Chrostowski. Nelle vicinanze di un paesino chiamato Górsk la loro automobile fu fermata dalla polizia stradale - ma erano agenti dei servizi di sicurezza polacchi. Questi ultimi dopo aver ammanettato l'autista, stordirono il sacerdote con un colpo alla testa, lo imbavagliarono, lo buttarono nel portabagagli e ripartirono subito. Chrostowski in qualche modo riuscì a scappare dalla macchina in corsa e diede l'allarme del rapimento. La fuga dell'autista del padre Popieluszko non fece cambiare il piano criminale dei servizi di sicurezza: gli agenti massacrarono di botte il prete - il medico che avrebbe poi fatto l'autopsia sul cadavere confessò che non aveva mai visto un uomo con lesioni interne simili - lo incaprettarono e lo buttarono nella Vistola con un sacco pieno di sassi legato a una gamba.
Il telegiornale della sera del 20 ottobre diede breve notizia del rapimento del sacerdote. Subito dopo per il rapito fu celebrata una messa nella chiesa di San Stanislao Kostka e cominciò la veglia perpetua: migliaia di persone pregarono giorno e notte per riavere salvo padre Jerzy. Purtroppo, il 30 ottobre arrivò la drammatica notizia del ritrovamento del corpo del sacerdote e il 3 novembre si svolsero a Varsavia i funerali della vittima. Più di cinquecentomila persone venute da tutta la Polonia parteciparono nel più assoluto silenzio ai funerali di Popieluszko, che per i polacchi divenne il simbolo della lotta per la verità, della lotta disarmata del bene contro il male del sistema totalitario comunista.
Il futuro cappellano di "Solidarnosc" era nato il 14 settembre 1947 nel villaggio Okopy nella Polonia nord-orientale (vicino a Bialystok) in una famiglia profondamente religiosa. Il clima di spiritualità creato dai suoi genitori, Marianna e Wladyslaw, lo aveva plasmato dall'infanzia e questo favorì la maturazione della sua vocazione sacerdotale. Così, dopo la maturità, entrò nel seminario maggiore di Varsavia e iniziò a frequentare i corsi di filosofia e teologia.
A quei tempi le autorità comuniste tentavano di creare ogni sorta di ostacoli alla formazione dei seminaristi e cercavano in tutti i modi di indurli a rinunciare agli studi teologici. Prima di tutto facevano fare loro due anni di un duro servizio militare obbligatorio nelle unità speciali create appositamente per gli alunni dei seminari. Per questo all'inizio del secondo anno di studio Popieluszko fu chiamato alle armi e svolse il servizio di leva negli anni 1966-68 a Bartoszyce. Questo cosiddetto servizio militare consisteva in inutili esercitazioni: gli alunni dovevano scavare le trincee per riempirle di terra subito dopo; dovevano trascinarsi per terra, di preferenza nel fango, ma, prima di tutto, erano obbligati a partecipare ai continui corsi d'indottrinamento politico. Qualcuno non resisteva alle vessazioni e crollava psicologicamente rinunciando al sacerdozio, ma questo non fu il caso di Popieluszko. L'alunno non nascondeva mai le sue convinzioni religiose. Anzi si può dire che in questa difficile situazione divenne una specie di leader spirituale promuovendo iniziative e momenti di preghiera. Ma pagò a caro prezzo questo suo atteggiamento. Spesso veniva punito: una delle punizioni consisteva nel rimanere per ore in piedi con tutto l'equipaggiamento - pesante fino a trenta chili e a piedi scalzi anche d'inverno - un'altra umiliante pena consisteva nel pulire con lo spazzolino da denti i bagni della caserma. Due anni di vessazioni di questo tipo non indebolirono psicologicamente e moralmente Popieluszko, ma ne minarono gravemente la salute.
In seminario trattò con grande serietà la sua preparazione al sacerdozio e coltivò la vita di preghiera. Bisogna peraltro dire che nello studio all'inizio faceva fatica e solo negli ultimi due anni di studi migliorò nettamente, particolarmente in campo biblico e dogmatico.
Popieluszko fu ordinato sacerdote nel 1972 e subito cominciò il ministero pastorale in alcune parrocchie nei pressi di Varsavia; negli anni 1979 e 1980 si occupò della pastorale per gli studenti nella chiesa universitaria di Sant'Anna. Purtroppo, le sue condizioni di salute erano sempre precarie e nel 1980 fu accettato come residente nella parrocchia di San Stanislao Kostka della capitale da padre Teofil Bogucki, un parroco molto dinamico e conosciuto. Erano i tempi dei grandi cambiamenti politici e sociali, i tempi del sindacato "Solidarnosc". Siccome la parrocchia si trovava non lontano dalle grandi acciaierie, Popieluszko cominciò - dietro mandato del suo vescovo - a prestare assistenza pastorale agli operai. Era un'esperienza nuova che all'inzio lo rendeva perplesso perché non conosceva il mondo operaio. Ma gli operai accettarono benissimo quel piccolo e malaticcio sacerdote dalla debole voce che li confessava, celebrava per loro l'Eucaristia e, talvolta, battezzava qualcuno di loro che si fosse convertito.
Quando il 13 dicembre del 1981 fu dichiarata in Polonia la legge marziale, padre Jerzy organizzò nella parrocchia le celebrazioni eucaristiche chiamate "Messe per la Patria". Già qualche anno prima il parroco Bogucki aveva introdotto nella parrocchia la tradizione della celebrazione della messa serale dell'ultima domenica del mese per le intenzioni della patria. Padre Popieluszko continuò questa tradizione anche nello "stato di guerra". Alle sue messe il sacerdote attirava masse di persone attratte dalla sua bontà, dal suo atteggiamento aperto agli altri, dal suo modo di parlare. Le sue messe per la patria divennero conosciute non soltanto a Varsavia ma in tutta la Polonia - a esse partecipavano anche 15-20 mila persone - e perciò padre Jerzy divenne un personaggio conosciuto, e per questo scomodo, per le autorità comuniste.
Egli però non era un attivista sociale o politico, ma un sacerdote cattolico fedele al Vangelo. Quanto proclamava era contenuto nella dottrina sociale della Chiesa, negli insegnamenti di Giovanni Paolo II e del defunto primate polacco cardinale Stefan Wyszynski. Ma poiché ogni sistema totalitario si regge sulla paura e sull'intimidazione, e invece padre Jerzy liberava la gente dalla paura del sistema, era considerato dai comunisti un nemico mortale.
Il caso del cappellano di Solidarnosc è un esempio eloquente di come la lotta con la religione prevedesse anche l'eliminazione fisica dei "nemici".
Il 24 settembre 1984 i capi dei servizi segreti polacchi presero la decisione di chiudere definitivamente il "caso Popieluszko". Furono preparate più varianti: il primo attentato compiuto il 13 ottobre durante il viaggio da Danzica a Varsavia non riuscì, il secondo sì. E il 19 ottobre il prete fu rapito, torturato e buttato nella Vistola. Gli assassini - Piotrowski, Chmielewski, Pêkala - facevano parte dei reparti speciali del Ministero degli Interni. I membri dei reparti speciali - persone profondamente indottrinate, convinte di agire per il bene del sistema comunista e della patria - erano destinate per le azioni particolarmente "sporche" e "delicate". Per essi assassinare un prete, nemico ideologico, era una cosa normale, e - più ancora - lodevole. Così lo fecero con inaudita brutalità anche in odio alla fede che il prete rappresentava. Dobbiamo aggiungere che i veri mandanti del delitto, raccontato con macabri dettagli dagli assassini nel corso di un drammatico processo, non furono mai giudicati. Gli imputati furono condannati, ma con la pena ridotta. Ora sono già usciti dal carcere.
A partire dal giorno del ritrovamento del corpo prese a diffondersi la fama di santità del martire. Cominciarono a succedersi notizie su numerose grazie attribuite alla sua intercessione e con esse anche le richieste di aprire la causa canonica di beatificazione. Tale processo indetto dal cardinale Józef Glemp, primate e arcivescovo di Varsavia, cominciò l'8 febbraio del 1997. La fase diocesana dell'inchiesta durò quattro anni poi la documentazione fu mandata in Vaticano presso la Congregazione della Cause dei Santi e aperta il 3 maggio 2001. Nel mese di ottobre 2008 l'arcivescovo di Varsavia Kazimierz Nycz ha portato al Santo Padre una copia della Positio con una lettera postulatoria di tutto l'episcopato polacco.
Così i comunisti uccisero Popieluszko
[1]Presentato il film sulla storia del sacerdote sequestrato dagli uomini dei servizi segreti polacchi Fu torturato, picchiato a morte e gettato nella Vistola perché amico degli operai di Solidarnosc
di Renato Farina
Tratto da Il Giornale [2] del 20 ottobre 2009
È un buon momento per ricordare don Jerzy Popieluszko. Il film proiettato a Roma alla presenza di Lech Walesa non è stato solo cinema, ma la comunicazione di una verità umana e storica. Anzi due. 1) Il comunismo fa schifo, ammazza i più buoni e li calunnia. 2) Il desiderio di libertà e di giustizia però è più forte. Queste due cose non bisogna mai smettere di ricordarle. Specialmente ora che i fantasmi del comunismo e dei suoi metodi di sangue e di para-giustizia riaffiorano e fanno proseliti, e trovano chi è pronto a giurare sulla sincerità dei loro propugnatori. Guai.
La memoria va, per me, a venticinque anni fa. Giusto 25 anni fa. Sono le nozze d'argento con il suo martirio. Arrivarono le foto. Uno strazio. Non era lui, non poteva essere don Jerzy, ce lo ricordavamo biondo, era così bello. Invece le foto di questo annegato pescato dal lago artificiale ce lo restituivano come un sacco d'ossa spezzate. Il corpo gonfio, il volto devastato, gli occhi tumefatti. Arrivarono quelle immagini in Italia, uno scoop, a noi giornalisti di neanche trent'anni. Mi ricordo c'era scritto sulla busta, e ce la facemmo tradurre: è il nostro martire.
Uno scoop? Ma alla stampa e all’intellighenzia filocomuniste imperanti allora come oggi sarebbe parso una sciocchezza reazionaria. Avevamo un canale privilegiato con la Polonia. Il settimanale Il Sabato aveva il miglior inviato laggiù, Luigi Geninazzi, e il primo lettore polacco a Roma, Karol Wojtyla. Solidarnosc e i suoi dirigenti sapevano di questo privilegio e lo usavano. Interviste, documenti originali, notizie esclusive arrivavano tramite Geninazzi, detto Gez. Il quale si prendeva i suoi rischi, era uno di loro, andava ad esempio alle messe per la Patria celebrate da padre Jerzy Popieluszko, obiettivo privilegiato di retate. Le aveva raccontate. Ci aveva parlato di questo sacerdote coraggioso, fermato dalla polizia e dai servizi segreti, amatissimo dagli operai. Una spina nel piede del leone comunista. Poi quelle foto tremende. Era sparito nella notte, abbrancato da dei figuri violenti. Il suo autista, un gigante dall'aria del Garrone di Cuore, era riuscito a sfuggire all'agguato. Stavano dalle parti di Torun, girava sempre questo sacerdote, dove ci fosse bisogno. Era il 19 ottobre 1984: la loro auto fu bloccata. Si seppe poi che erano stati tre agenti dei servizi segreti a rapire il prete. Fu ritrovato dopo qualche giorno. Lo avevano massacrato di botte e poi gettato nella Vistola. Per fortuna l'autista Waldemar Chrostowski si era messo in salvo. Per fortuna: non solo perché così ebbe salva la vita, ma poté anche raccontare la verità. Il popolo si sollevò. Un prete non si tocca in Polonia, specie uno così, uno di noi, un ragazzo quasi. Aveva 37 anni.
Il regime cercò prima di negare, poi consegnò i tre uomini dei servizi nelle mani della Giustizia. Giustizia si fa per dire. Un capitano confessò con goduria: «L'ho ucciso io, con le mie mani». Il prete disse solo due frasi mentre lo torturavano alla morte: «Perché mi fate questo? Abbiate pietà». Dopo qualche giorno alla fine il cadavere fu pescato. Il Papa era in dubbio se fosse opportuno pubblicare quelle foto - così ci era stato detto - perché temeva una ribellione e il successivo massacro. Non ricordo se le pubblicammo, so che le vidi. L'unica foto ammessa fu quella di padre Jerzy nella bara per i funerali. Con la casula di sacerdote rossa del martire, un crocifisso sul petto. Invano la sua faccia era stata trattata da mani delicate per renderla presentabile; risultava deformata, viola, come di uno di cui era stato spezzato ogni osso con sistematicità. È il comunismo ragazzi. Ma il peggio doveva ancora arrivare. E si chiamava processo. Un processo non dei tempi di Stalin ma di quelli di Andropov e Jaruzelski, che tutti elogiano come difensore della Patria.
Per sopravvivere alla ribellione aveva consegnato i tre agenti ai magistrati, ma il Pm imbastì un processo non contro gli assassini ma contro Popieluszko, la Chiesa e Solidarnosc, dicendo esplicitamente che se l'era cercata. Era la prima volta che uno stato comunista portava alla sbarra dei suoi agenti per un lavoro fatto per il regime. Il pm Pietrasinski nella sua requisitoria difende i tre assassini, dice che hanno eliminato un prete perché la Chiesa non aveva saputo fermarlo, certo avevano esagerato, andavano puniti, «sono andati oltre la legge», ma il prete era un poco di buono, un estremista.
Il ministro dei rapporti tra Stato e Chiesa, Adam Lopatka, aggiunse la sua voce: «È morto perché siamo stati troppo buoni e non l'abbiamo sbattuto in carcere a suo tempo».
Gli atti del processo ci restituiscono l'immagine di due mondi. Uno nascente, pieno di fervore e di desiderio di libertà, capace di pregare, voler bene e lottare. Un altro mondo accanto ma lontanissimo, bravo solo nell'odio, e perciò morente e killer nello stesso tempo. I verbali ci restituiscono gente che in nome dell'umanesimo marxista si siede a tavolino per discutere se buttare un prete dal treno sia meglio che rapirlo, che nasconde 40 chili di grosse pietre nell'armadio per schiacciarvi sotto la testa del prete, che lo picchia selvaggiamente fino a ucciderlo e poi cerca di farne sparire il corpo, che dalla Vistola finì nel lago ghiacciato vicino a Varsavia, ed è così certa della sua impunità da non preoccuparsi di lasciare le proprie tracce.
Be’, noi le abbiamo trovate, e sappiamo ancora riconoscerle.