DISCERNERE

Uno sguardo profetico sugli eventi

Francesca Romana e le canonizzazioni in epoca medievale. Sui santi non si sbaglia

Pubblichiamo la sintesi di una delle relazioni tenute nel corso del convegno internazionale "La canonizzazione di santa Francesca Romana. Santità, cultura e istituzioni a Roma tra medioevo ed età moderna" che si è svolto dal 19 al 21 novembre a Roma.

di Agostino Paravicini Bagliani

Come e quando è nata la liturgia di canonizzazione? Queste domande se le era già poste più di mezzo secolo fa Theodor Klauser, l'autore del più importante studio sull'argomento, apparso nell'ormai lontano 1938 ("Die Liturgie der Heiligsprechung"), il che ci ricorda che la storia della liturgia di canonizzazione non ha forse richiamato sufficientemente l'attenzione degli studiosi. Eppure è un ambito liturgico di grande interesse per la storia della santità e per la storia del papato, al quale giustamente il convegno internazionale sulla canonizzazione di santa Francesca Romana, che si è appena tenuto a Roma, ha dedicato un'apposita sezione con particolare attenzione al medioevo e all'epoca moderna (Danilo Zardin, Martine Boiteux).
Theodor Klauser, che era allora il massimo studioso di liturgia dei primi secoli del cristianesimo, si era interessato alla questione indotto da un amico studioso che viveva a Roma - siamo nella seconda metà degli anni Trenta del Novecento - il quale, assistendo a una canonizzazione nella basilica di San Pietro (non sappiamo di quale si trattasse), aveva visto che nel corso della processione solenne si presentavano al Papa seduto sul trono "colombe viventi e altri uccelli in gabbia". Lo studioso tedesco aveva chiesto a Theodor Klauser quale fosse il significato del rito grazie al quale "il Papa accoglieva le gabbie con gli uccelli che garrivano e li dava ai prelati che gli stavano accanto". Il Klauser, che pure aveva assistito a San Pietro ad altri riti di canonizzazione, ammise di non avere mai sentito parlare prima di allora degli uccelli che venivano offerti al Papa nel corso della cerimonia di canonizzazione e non di essersene purtroppo accorto, perché era immerso nella folla e non poteva osservare tutte le fasi del rito. Prima di iniziare una ricerca sull'argomento volle di nuovo assistere a una cerimonia di canonizzazione in San Pietro, che fu allora in grado di descrivere con cura. Il Klauser distingueva due fasi liturgiche. Appartenevano alla prima la richiesta che il cardinale procuratore rivolgeva tre volte al Papa affinché egli procedesse alla canonizzazione del santo, le tre preghiere che accompagnano questa richiesta (la litania di Ognissanti, il salmo Miserere e l'inno Veni Creator), la formula di canonizzazione, la preghiera del cardinale procuratore, il Te Deum e l'orazione rivolta al nuovo santo. Nella messa che seguiva questa prima fase Theodor Klauser identificava tre elementi importanti: la predica del Papa, il secondo Confiteor con l'inserimento del nuovo santo e l'offertorio di candele, pane, vino e uccelli.
Con la sua esperienza di storico della liturgia andò quindi a rileggere i principali cerimoniali medievali, scoprendo che non si trova una descrizione della liturgia di canonizzazione negli ordines romani precedenti all'ordo xiv che viene generalmente considerato definitivo del cardinale Iacopo Caetani Stefaneschi anche se, come è oggi ben noto, contiene testi liturgici e cerimoniali di più varia provenienza risalenti agli ultimi decenni del Duecento e ai primi decenni del Trecento. Segue poi l'ordo xv, redatto da Pietro Ameil, che presenta la cerimonia di canonizzazione di santa Brigitta di Svezia (1391).
Alcuni elementi liturgici sono però attestati più anticamente, da fonti esterne ai cerimoniali. In occasione della canonizzazione di san Godehard di Hildesheim (1131) si menziona infatti per la prima volta il Te Deum. E le fonti che ci parlano della canonizzazione di san Bernward di Hildesheim ricordano per la prima volta la messa del nuovo santo. Per conoscere nuovi elementi rituali bisogna invece aspettare il 1228. Per la canonizzazione di san Francesco d'Assisi le fonti segnalano la predica del Papa, la lettura dei miracoli e la formula di canonizzazione. Altri nuovi elementi vengono segnalati dall'ordo xiv in relazione alla canonizzazione di Pietro del Morrone (1313): l'inno Veni Creator, l'orazione che segue il Te Deum presentata al nuovo santo, il Confiteor e la promulgazione delle indulgenze. Il Confiteor fu pronunciato prima della messa ed era quindi considerato un atto di preparazione al ricevimento delle indulgenze. Si giunge così alla canonizzazione di Brigitta di Svezia (1391), a proposito della quale l'ordo XV ci permette di seguire la liturgia con ancora nuovi elementi: la petitio instrumentorum (ossia la richiesta di istrumentare i documenti di canonizzazione); la processione delle candele e, infine, l'offerta di una candela di una libbra di cera bianca, decorata di rose e di altri fiori verdi, bianchi e rossi, e di una piccola gabbia di colore verde contenente due colombe bianche e due tortore.
Il Klauser si domandava se il rito dell'offertorio non provenisse dalla liturgia della cerimonia di consacrazione del vescovo e se le colombe e le tortore non fossero state accolte nel rito in quanto simboli delle virtù cardinali - prudenza giustizia, fortezza, temperanza - per completare il quadro delle virtù teologali, rappresentate dalla candela accesa (fede), dal pane (speranza) e dal vino (carità).
Come si vede, gli ordines XIV e XV presentavano una cerimonia di liturgica di canonizzazione che rimarrà sostanzialmente invariata fino al Novecento. Un elemento non esisteva però più al momento in cui il Klauser tentò per la prima volta di ricostruire la storia liturgica della canonizzazione, ed è per questo che non ne parlò. Secondo gli ordines XIV e XV, il Papa dopo avere terminato la predica ammoniva i fedeli perché preghino affinché Dio gli permetta di non errare (admonitio ut omnes deberent Deum rogare quod non permitteret eum errare), poi (secondo l'ordo XV) procedeva a una protestatio quod ipse non intendebat facere contra sacrosanctam Romanam Ecclesiam. Al termine di queste due fasi rituali il Papa intonava il Veni Creator Spiritus. Anche nel concistoro tenuto il 2 maggio 1313 ad Avignone prima della canonizzazione di Pietro del Morrone, il Papa chiese ai cardinali presenti di pregare perché possa non errare in hoc facto.
Questi due elementi liturgici ci ricordano come nel corso dei secoli XIII e XV la riflessione canonistica e teologica abbia inserito il problema della canonizzazione nel contesto più ampio della discussione sull'inerranza della Chiesa e del papa. Lo attesta il più importante dei canonisti del Duecento, il cardinale Enrico da Susa detto l'ostiense, che ne trattò a lungo nella sua opera redatta intorno al 1260. E lo ricorda anche san Tommaso d'Aquino che al termine di una lunga disquisizione concluse che pie credendum est, quod nec etiam in his iudicium Ecclesiae errare possit. Gli ordines xiv e xv dimostrano quindi che anche la liturgia e non soltanto i canonisti o i teologi ha accolto la riflessione sul rapporto tra canonizzazione e inerranza della Chiesa.
La preghiera rivolta dal Papa a tutti i fedeli di cui si è detto figura anche nel cerimoniale di Agostino Patrizi Piccolomini, scritto per Innocenzo viii (1484-1492). Non figura invece nel trattato dedicato dal massimo liturgista del tardo Cinquecento, Angelo Rocca (1610), alla canonizzazione e ai suoi riti. Il Rocca si sofferma invece sul fatto che Sisto v (1585-1590), in occasione della canonizzazione del francescano san Didaco (5 luglio 1588), affermò che necessarie credendum esse Romanum pontificem in canonizatione errare non posse. E questa solenne dichiarazione conclude in un certo senso la riflessione canonistica, teologica e liturgica dei tre secoli precedenti. Vista in questa prospettiva, la liturgia di canonizzazione che possiamo ricostruire grazie ai libri cerimoniali del Trecento e Quattrocento costituisce un capitolo importante non solo per la storia della santità medievale ma anche per la storia del concetto di infallibilità.


(©L'Osservatore Romano - 23-24 novembre 2009)

Torre degli specchi e dei tesori nascosti


di Silvia Guidi

Un energumeno corrucciato che brandisce una spada, circondato da spesse nuvole temporalesche sottolineate da larghe pennellate scure e figure femminili tanto ricalcate, ridipinte e chiaroscurate da diventare quasi illeggibili. Di tutto questo non c'è più traccia nell'affresco che copre a Roma il catino absidale della cappella del coro dell'Annunziata a Tor de' Specchi; è tutto sparito sotto le spugne dei restauratori. La ripulitura della decorazione seicentesca ha svelato un altro dipinto; il san Michele aggressivo e marziale nascondeva un giovane angelo sorridente con il volto illuminato dalla serena certezza della vittoria finale, reso con colori liquidi e chiari. Un capolavoro del barocco - forse proveniente dall'entourage del marchese Giovanni Battista Crescenzi, art director di uno stile che non vuole ripetere i moduli espressivi caravaggeschi ma cerca di rendere l'olimpica compostezza della pace celeste con colori trasparenti e luminosi - che i partecipanti al convegno "La canonizzazione di santa Francesca romana. Santità, cultura e istituzioni a Roma tra medioevo ed età moderna" hanno potuto apprezzare in tutta la sua bellezza.
Per tre giorni, dal 19 al 21 novembre scorso, si è parlato di "Ceccolella" - una santa "che Roma, da secoli, non riesce a dimenticare" come ha detto Claudio Leonardi, presidente onorario della Fondazione Franceschini, nel suo intervento conclusivo - e della sontuosa cerimonia di canonizzazione, avvenuta nel 1608; della sua affinità spirituale con i monaci olivetani e della sua fondazione, le oblate di Tor de' specchi, laiche che vivono la dedicazione a Dio senza essere delle claustrali.
Moglie, madre e vedova, Francesca sa per esperienza personale che si può vivere nel mondo senza appartenergli; nel sostenere la vocazione delle consorelle punta tutto sulla loro libertà e sulla consapevolezza che in ogni momento ci si può rifugiare nella "cella del cuore", anche mentre si lavora in ospedale o si distribuisce il pane ai poveri. Per questo il suo "non-monastero" ha reso obsoleto già alla fine del Trecento l'assunto aut murus, aut maritus; l'originalità della fondazione è provata e contrario proprio dai molti tentativi di normalizzazione che ha subito nella sua lunghissima storia.
Il complesso, che sorge a un passo dal Campidoglio, è tanto dimesso all'esterno quanto ricco di tesori all'interno; i recenti restauri hanno reso di nuovo pienamente leggibili anche i celebri affreschi quattrocenteschi dell'Oratorio, svelando cieli dipinti con un'azzurrite molto chiara (e fragile, perché venne applicata senza preparazione) e paesaggi ariosi e pieni di luce, accentuando il contrasto con gli affreschi a monocromo verde che raffigurano le tentazioni e i momenti di desolazione della santa, in cui tutto perde (letteralmente) colore. Tra i tesori più preziosi il vasto archivio, ancora solo parzialmente esplorato; dagli interventi di Anna Esposito - che ne ha esaminato i documenti incrociandoli con le fonti notarili - e Lucetta Scaraffia - che ha lavorato sulla trascrizione del libro di memorie interno - sono emersi ritratti di oblate celebri come Olimpia Ludovisi, principessa di Piombino nel novembre del 1700, o note solo per la santità di vita, come Marianna Del Drago, descritta dalle consorelle come instancabile nell'opera di apostolato, contese patrimoniali con le famiglie di origine, e altri "frammenti di vita" di vivacità sorprendente. Tra le carte, c'è ancora traccia di una disputa con un affittuario che trasformò un orto di proprietà delle oblate in una sorta di bocciofila, con relativi schiamazzi e imprecazioni blasfeme.


(©L'Osservatore Romano - 23-24 novembre 2009)