Terminavo l’editoriale di quindici giorni fa con alcune frasi in cui Charles Péguy spiegava che cosa sia una vera rivoluzione, cioè un movimento di uomini che costruiscono per il benessere di tutti e che quindi segnano una svolta nel cammino della storia.
Lo scrittore francese diceva che una rivoluzione autentica è «l’effetto ben ordinato di una lunga e invincibile pazienza» ed è fatta da «grandi uomini di grande vita interiore». Un esempio luminosissimo è l’abbazia di Cluny, della quale sono iniziati lo scorso mese di settembre le celebrazioni per i mille e cento anni di fondazione.
Era infatti il 910 quando Guglielmo il Pio, duca d’Aquitania, firmava la carta di donazione di un terreno perché vi sorgesse un monastero che vivesse in pienezza e libertà la regola di san Benedetto. In pienezza, cioè senza nessuna edulcorazione degli impegni ascetici, altrove poco rispettati. In libertà, cioè senza intromissioni dei poteri esterni, né quelli civili, né quelli ecclesiastici a volte succubi dei primi.
A questo scopo Guglielmo pose il nascente monastero dei santi Pietro e Paolo di Cluny direttamente alle dipendenze del Papa. A dirigere la nuova impresa il duca chiamò un monaco deciso e di provata esperienza: Bernone.
Nessuno poteva allora immaginare che la piccola fondazione monastica situata nel cuore della Borgogna sarebbe stata l’inizio di una rivoluzione. Ma è quel che avvenne. Lo stile di vita dei monaci raccolti intorno a Bernone suscitò in molti il desiderio di imitarli.
Sorsero nuovi priorati e antiche abbazia si affiliarono a Cluny assumendone lo stile di vita, fondato sulla priorità assoluta data alla preghiera comune, intesa come anticipo della gloriosa liturgia del cielo. Nel giro di pochi decenni Cluny si trovò a capo di una rete impressionante: circa duemila monasteri diffusi in tutta la cristianità e, secondo le stime meno azzardate, ventimila monaci.
Gli storici si sono chiesti quale fosse il motivo di un simile straordinario sviluppo. Le risposte sono state tante, ma quella che mi pare più convincente è quella offerta da Raymond Oursel nel suo splendido Il segreto di Cluny. Certo è stato decisivo che l’abbazia fosse slegata dal potere locale; è stata importante la saggia amministrazione di chi l’ha guidata e la forma della rete di monasteri legati ad un unico abate.
Ma il vero segreto di Cluny è stata la santità dei suoi abati. Sì, proprio la santità personale di uomini che hanno vissuto, coi differenti temperamenti e coi diversi doni loro dati dalla natura, l’ideale monastico ha reso possibile costruire un luogo dove regnava, per usare le parole di Oursel, «reciproca concordia, vicendevole aiuto, gioia quotidiana», che «sfociavano nell’indulgenza e nella compassione verso gli altri».
Il luogo di una civiltà autenticamente umana, di una rivoluzione compiuta. Vale proprio la pena di elencare i nomi di questi primi grandi abati di Cluny, che furono in gran parte canonizzati: Bernone, Odone, Aimardo, Maiolo, Odilone, Ugo, Pietro.
La chiesa di Cluny all’apice del suo splendore era la più grande di tutta la cristianità; sarebbe stata superata solo dalla rinascimentale basilica vaticana. Il turista che ci andasse oggi troverebbe però solo dei resti: un campanile e mozziconi di colonne. I fanatici di un’altra “rivoluzione”, quella “francese” del 1789, stabilirono che quell’imponente edificio doveva essere considerato come una cava di pietra e tutti potevano estrarne materiale per le proprie costruzioni. Cluny moriva così. Ma era già morta da quando invece della santità era subentrato il calcolo politico, invece della preghiera l’amministrazione, al posto della concordia l’equilibrismo sociale. Anche la più autentica delle rivoluzioni può spegnersi. Ma non si spegne il messaggio e la ricchezza esemplare del suo originale sgorgare. http://www.ilsussidiario.net