Non capiamo nulla di quanto accadde dall’altra parte del Muro, se ragioniamo in base ai parametri consumismo-anticonsumismo. Dall’altra parte, a Berlino Est, a Mosca, c’era il materialismo ma non c’era la materia da consumare. Pance vuote, tranne che per la nomenclatura. L’ateismo aveva cercato di piallare dal cuore qualsiasi cosa che fosse desiderio di infinito, ma aveva strizzato anche gli stomachi. Logico che l’Occidente fosse visto come il luogo della libertà spirituale e materiale. La bellezza di costruire. E poi certo c’era la goduria di merci, di supermercati, di banane e vino, e ballare la sera senza rompiscatole della polizia. Per cui Marcello Veneziani, intervenuto ieri su queste pagine con la magia del suo stile, ha ragione ma solo per quanto riguarda noi. Siamo noi ad avere perduto il senso dei beni materiali, allora e oggi.
Cito un episodio per me decisivo per capire, raccontato da Olga Martynenko.
Negli anni Settanta Georgij Vladimov, un grandissimo scrittore della schiatta di Solzenicyn e Grossman, incontrò Heinrich Böll nei suoi anni di forzato esilio. Allora in Occidente c’era una gran paura dei carri armati dell’Est. Ma Böll era magnanimo: «Le pietre dell’Europa sono sacre, non si può versare altro sangue su di esse, e se dovessero venire i soldati russi armati di mitra ce ne staremmo seduti a bere in santa pace la nostra birra». «Lei ha dimenticato - gli chiese Vladimov - la scritta dei chioschi di birra a Mosca: “Birra terminata”?».
Noi siamo così: imbelli. Per loro la birra o è con la libertà, oppure si perdono tutt’e due. Invece da Ovest si è sempre preteso di fare la lezione anche agli eroi. Per loro la libertà non ha mai potuto essere separata dall’idea di bellezza, oltre che di birra e preghiera. Per questo noi stiamo annichilendoci. Non perché anzitutto abbiamo rinunciato alla morale (anche). Ma perché facciamo a meno della bellezza, oppure non la leghiamo più allo splendore della verità, ma al piacevole, al rifiuto di qualsiasi cosa che sappia di dolore e sacrificio (cioè l’amore).
E allora ricordiamocelo. Il 9 novembre del 1989 cadde il Muro di Berlino. Non è che cadde e basta. Fu proprio squassato, tirato giù, blocco di cemento per blocco di cemento, da uomini che avevano bisogno di questa opera fisica e simbolica per poter respirare a pieni polmoni. Respirare, sentire l’aria fredda entrare nella gola come un soffio liberatore. E il primo gesto non fu spargere sangue, come le rivoluzioni fanno sempre, ma la musica. La lotta per la libertà è sempre accompagnata dalla musica. La musica è l’espressione più pura - insieme con la donna - della bellezza. Bellezza, libertà, musica, donna si somigliano, sono quasi sinonimi. Mstislav Rostropovich, il grande meraviglioso violoncellista amico di Solgenitsin, improvvisò un concerto. Andò sotto ciò che restava del muro e inondò di armonie l’aria di Berlino, il mondo intero. Solo la musica, solo la bellezza poteva spiegare, penetrare, proporre l’essenza di quanto accadeva. Gli uomini e i popoli hanno dentro di sé una scintilla che i tiranni si illudono di aver spento, o di tenere a bada uccidendo o imprigionando nei lager. Ma quando tutti paiono stanchi, esauriti, ecco che la tirannide diventa insopportabile, ci si accorge che esistere da uomini esige di poter vivere secondo le dimensioni piene della libertà e della verità, senza aver paura che di notte qualche gendarme incappottato bussi all’uscio urlando: “Polizia!”. Ed ecco si abbattono i muri, e si canta.
Certo. La storia non è finita. La democrazia e la libertà sono come bicchieri in cui gli uomini versano il loro vino. Vino buono o cattivo, a volte veleno. È il rischio della libertà. E il violoncello di Rostropovich e quella musica che ci è entrata in testa, nel cuore, più nostra di noi stessi, saranno sempre delicati come bambini. Per questo il 9 novembre è festa. È la festa di un bambino. Ha vinto, almeno quel giorno, la bellezza.