Da un po’ di tempo a questa parte vengono alla luce in modo crescente pubblicazioni critiche nei confronti della teologia di Karl Rahner.
di Piero Cantoni*
Da un po’ di tempo a questa parte vengono alla luce in modo crescente pubblicazioni critiche nei confronti della teologia di Karl Rahner. L’importanza di Rahner per la teologia (e non solo per quella) del nostro tempo è difficilmente sopravvalutabile. Ci troviamo indubbiamente davanti ad un gigante del pensiero. E’ noto l’elogio che ne ha fatto a suo tempo Hans Urs von Balthasar, che può essere a buon diritto considerato un suo fiero avversario: «Considero Karl Rahner, nell’insieme, la più robusta intelligenza teologica del nostro tempo». L’influenza di Rahner fu importante nel concilio ecumenico Vaticano II – di cui è stato perito – e nel burrascoso periodo del postconcilio, paragonato da Benedetto XVI a una «battaglia nella notte». Direi che soprattutto qui la sua impronta si è rivelata determinante: attraverso i suoi tanti e potenti discepoli e un certo modo di affrontare le questioni religiose da lui inaugurato. Ciò spiega la difficoltà di elaborare una critica oggettiva nei suoi confronti e anche le resistenze che ci sono ad ammettere un giudizio critico sul “maestro”, soprattutto quando si punta non tanto a discutere questo o quel punto di dottrina della sua sconfinata opera teologica, ma si vuol mettere in discussione l’impianto stesso della sua teologia.
Questione delicata, perché la teologia di Rahner persegue indiscutibilmente l’obiettivo di una sintesi onnicomprensiva, proprio alla luce del moderno concetto di trascendentale. Scriveva Joseph Ratzinger nel 1982, discutendo il Corso fondamentale sulla fede: «Mi sembra che il problema vero e proprio della sintesi di Rahner sia il fatto che egli ha voluto troppo. Egli ha, per così dire, cercato la formula filosofico-teologica di portata universale, che gli avrebbe permesso di dedurre in maniera coerente, a partire da fondamenti necessari, la totalità del reale».
Tra malanimi e riverenze
Che la teologia abbisognasse di una “riforma” era una convinzione che si andava facendo strada da tempo tra i teologi: suscitando entusiasmi e fiere opposizioni, non sempre immotivate. Nicolás Gómez Dávila ha condensato questo conflitto in un gustoso e profondo aforisma: «In seno alla Chiesa attuale, è “integralista” chi non ha capito che il cristianesimo ha bisogno di una teologia nuova; è “progressista” chi non ha capito che la nuova teologia deve essere cristiana». Lo stesso fratello di Karl, Hugo, fu uno dei primi ad avanzare la proposta di una teologia che si prestasse meglio alle esigenze della predicazione. Il suo progetto però procedeva attraverso il recupero dello stile e dello spirito che fu proprio della Patristica e della Scolastica. Così si muovevano altri: De Lubac, Chenu, Congar, Daniélou, Bouyer, Balthasar, Ratzinger. Rahner imboccò un’altra strada. Quella di una rivisitazione della filosofia di san Tommaso che la poneva in sostanziale accordo con la filosofia della modernità. La nozione tommasiana chiave, l’essere, in Rahner diventa un trascendentale in senso moderno e kantiano. Un a priori che informa tutto il modo di pensare e di organizzare il pensiero filosofico e quindi – posto che per Rahner l’impianto filosofico in senso speculativo e deduttivo è il criterio decisivo per una sintesi cristiana – anche teologico.
Un altro grande filosofo e teologo, Antonio Rosmini, aveva colto l’essere come un a priori, anzi come l’ a priori (“idea innata”) che determina il pensiero e addirittura lo costituisce in quanto tale. Per Rosmini però l’a priori è oggettivo, per Rahner esso declina pericolosamente in senso soggettivo. Il grande Cornelio Fabro criticò l’operazione di esegesi tomistica rahneriana con una acribia e una ricchezza di documentazione sorprendenti. Chi però si aspettava una risposta proporzionata alla serietà scientifica delle accuse rimase deluso. Criticare, nel senso etimologico di discernere e giudicare, un pensatore come Rahner è molto difficile. Per tre fondamentali ragioni: prima di tutto, perché è stato molto, forse troppo, influente e il clima che si è imposto nell’“opinione pubblica” ecclesiale è tutt’altro che sereno. In secondo luogo perché il suo linguaggio è particolarmente difficile. Circolava tanti anni fa una striscia a tre vignette. Nella prima si vede un teologo a lezione davanti a un pubblico di studenti affascinati. Nella seconda, dagli studenti si leva un nugolo di punti interrogativi. Nella terza appare infine la colomba dello Spirito Santo che guarda giù stupita e spaesata il teologo impegnato nella sua appassionata lezione, anche lei con il suo punto interrogativo. Il teologo è ovviamente Rahner.
Infine, si tratta di un’opera enorme: la sua bibliografia conta più di cinquemila titoli e l’opera omnia è prevista in trentadue volumi. L’a priori rahneriano sembra far inclinare fatalmente la sua teologia trascendentale verso un esito “atematico”, dove il mistero passa pericolosamente da oscuro per eccesso, cioè per esuberanza di luce, a oscuro per difetto. L’impressione è di un radicale, anche se non dichiarato, soggettivismo e – quindi – relativismo. Una brillante scrittrice e grande amica di Rahner, Luise Rinser, traduce con chiarezza in una lettera questa inquietante impressione: «Te l’ho detto qualche volta – tu sei terribilmente pericoloso per me. Tu mi educhi ad un relativismo che potrebbe essere mortale».
Il dibattito può essere inquinato da un malanimo troppo a lungo represso, oppure – non nascondiamocelo – da una invidia meschina nei confronti di una intelligenza geniale, ma può essere anche ostacolato da una superstiziosa acquiescenza davanti al “mostro sacro”. Ben vengano dunque studi profondi, seri, onesti e oggettivi su questo grande teologo del nostro tempo. Amici ed avversari dovrebbero esserne solo contenti, posto che ciò che unisce nel profondo ogni vero teologo deve essere sempre e solo l’amore per la Verità.
*professore presso lo Studio Teologico “Mons. Enrico Bartoletti”, Camaiore (Lu)
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Rahner: «Se ne avessi la forza, lo combatterei»
Le note di De Lubac e il no di Spaemann
di Lorenzo Fazzini
Rimandato a settembre. Ormai i suoi più insigni colleghi, viventi e non, sul pensiero di Karl Rahner hanno emesso una sorta di responso accademico che problematizza l’opera del celebre teologo germanico. Interpellato da Tempi su quale sponda si ponga tra il trascendentalismo di Rahner e la via estetica del suo “rivale” Hans Urs von Balthasar, Robert Spaemann, uno dei più grandi filosofi e teologi viventi (all’università di Monaco ha preso il posto di Hans-Georg Gadamer), risponde con una pacata osservazione: «La teologia trascendentale di Rahner cerca di ricostruire il contenuto della rivelazione nel modo in cui la ragione umana è capace di anticiparne il contenuto. Il fatto che Dio parla è dovuto alla sua libertà. Il contenuto di quel che dice, quando afferma qualcosa, possiamo comprenderlo nella sua necessità interiore. Non c’è alcuna sorpresa nella rivelazione». Di fronte a questo determinismo aprioristico, Spaemann lancia quale alternativa la «necessità estetica» di von Balthasar: «Anch’egli parla di necessità, ma non vuole dire che possiamo anticipare da soli quello che ci viene detto, ovvero anticipare l’economia della salvezza. Questa necessità è paragonabile alla necessità di un’opera d’arte. Chi studia una sinfonia di Mozart o un quadro di Tiziano scopre che ogni frase musicale, ogni parte del dipinto sono esattamente quelle che dovrebbero essere. Si tratta di una necessità che comprendiamo solo dopo che l’opera esiste. La rivelazione di Dio è la storia della salvezza ed è paragonabile solo a un poema e non a un compendio di matematica».
È dalla penna del teologo francese Henri De Lubac che si evince una critica autorevole al pensiero di Rahner. Scorrendo gli appunti di De Lubac durante il Concilio Vaticano II si delinea la progressiva dicotomia che lo separò da Rahner. Il 16 ottobre 1965 De Lubac annota – nel monumentale Quaderni del Concilio (Jaca Book) – un dettaglio della Commissione teologica: «Vivace discussione tra Rahner e Daniélou, a proposito dell’ateismo. Non riesco a capire bene quale strada Rahner vuole farci imboccare».
E pensare che il teologo tedesco era stato uno dei più brillanti all’apertura del Concilio tanto che, in tandem con un giovane di nome Joseph Ratzinger, aveva predisposto un controschema sul tema della rivelazione. Di quel gruppo “progressista” capitanato facevano parte anche Hans Küng, oggi duro critico di Ratzinger, e Yves Congar, poi cardinale. Fino al 12 ottobre del 1962 Rahner era addirittura sotto censura del Sant’Uffizio; tolto l’impedimento, fu uno degli animatori più incisivi dell’assise conciliare. Tanto che, riferisce De Lubac, «il settimanale Time del 14 dicembre ha un articolo dedicato a p. Karl Rahner, con foto. Per molti, dice, il luogo più vitale del Concilio non era s. Pietro, ma una camera del terzo piano del Collegio germanico, occupata da p. Rahner, considerato come il più profondo teologo di oggi».
A cosa si deve la presa di distanza di De Lubac e Ratzinger da Rahner? Siamo a fine 1963. Racconta il teologo francese: «Riunione all’Hotel Columbus per il lancio della rivista internazionale Concilium. All’inizio, riunione del comitato direttivo, attorno ai padri Rahner e Schillebeeckx; poi, riunione allargata. L’organizzazione sembra scrupolosa. Lo spirito, troppo asciutto, troppo “universitario”; il linguaggio, con una pretesa troppo “scientifica”; i teologi forse si prendono troppo sul serio». De Lubac e Ratzinger si dimettono dal comitato direttivo di Concilium (avrebbero poi fondato Communio). Il 17 ottobre 1964 arriva il distacco completo del teologo francese: «Ora, dopo aver letto lo scritto di p. Schillebeeckx su “la Chiesa e il Mondo”, provo un grande disagio. Non soltanto mi è impossibile condividere un tale orientamento teologico, ma, se ne avessi la forza, mi crederei in dovere di combatterlo. Se questo è l’orientamento di Concilium, è meglio che io mi ritiri subito dal Comitato direttivo. Quanto più saggio, più equilibrato, più veramente cristiano, il pensiero di un padre Teilhard, che tuttavia spaventa tanti teologi! Mai egli avrebbe detto che la rivelazione non fa altro che esplicitare il cristianesimo implicito del mondo profano. Parlo brutalmente, per essere chiaro». Anche Ratzinger ha avuto modo di spiegare perché si è allontanato dalla teologia rahneriana.
Lo ha fatto a Vittorio Messori nel Rapporto sulla fede (San Paolo): al giornalista che gli chiedeva cosa aveva significato per lui la collaborazione alla fondazione della rivista Concilium, quella dell’“ala progressista” della teologia, Ratzinger nel 1984 rispondeva: «Non sono cambiato io, sono cambiati loro. Sin dalle prime riunioni, feci presente ai miei colleghi due esigenze: il nostro gruppo non doveva essere settario, arrogante, come se noi fossimo la nuova, vera Chiesa, un magistero alternativo con in tasca la verità sul cristianesimo. Bisognava confrontarsi con la realtà del Vaticano II, con la lettera e con lo spirito autentici del Concilio autentico».
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