L’articolo è tratto da Jean Daniélou, I santi pagani dell’Antico Testamento, trad. it. a cura di F. Savoldi, Queriniana, Brescia 1988, pp. 107-113 (ed. or. Paris 1956).
Tra le grandi figure non ebraiche dell’Antico Testamento, Mechisedech è una delle più eminenti. La Genesi non gli consacra che un breve  paragrafo, carico però di significato (14,18-20), il Salmo 109 ci  mostra in lui il modello del «sacerdote eterno», la Lettera agli Ebrei  gli consacra numerosi passi. I Giudei cercheranno di diminuirlo a  profitto di Abramo [1]. Ma i cristiani esaltano in lui l’immagine del  sacerdozio del Cristo e le primizie della Chiesa delle nazioni [2].
La festa di san Melchisedech è celebrata il 25 aprile. Una chiesa gli  è consacrata a Salem di Samaria, che la pellegrina Eteria visita nel IV  secolo (Cronaca del viaggio, 13-14). La Preghiera eucaristica I  menziona il suo sacrificio tra quelli di Abele e di Abramo.
Attorno alle brevi e misteriose righe della Genesi, si costruiscono  meravigliose leggende. Il Libro dei Segreti di Enoc, uno scritto giudeo-  cristiano del secondo secolo, gli attribuisce una concezione miracolosa  e lo mostra sottratto alla morte e sollevato in Cielo dall’Arcangelo  Michele [3]. La Caverna dei tesori siriaca ne fa un precursore di  Giovanni Battista [4]. Alcuni gnostici, i Melchisedechiani, vedranno in  lui una manifestazione dello Spirito santo [5].
Ma la realtà è ancor più mirabile. Melchisedech è il grande Sacerdote  della religione cosmica. Egli raccoglie in sé tutto il valore religioso  dei sacrifici offerti dalle origini del mondo sino ad Abramo e attesta  il gradimento di Dio. Melchisedech è «il sacerdote dell’Altissimo, che  ha fatto il cielo e la terra» (Gen. 14,13). Egli conosce il vero Dio,  non sotto il nome di Jahvé, che sarà rivelato a Mose per esprimere le  ricchezze nuove che l’alleanza manifesta, ma sotto il nome di El, che è  quello del Dio creatore, conosciuto attraverso la sua azione nel mondo.  Ed è questa un’ulteriore attestazione della conoscenza di Dio  attraverso il cosmo che già Enoc ci aveva mostrato.
Melchisedech è sacerdote di questa prima religione dell’umanità, che  non è limitata ad Israele, ma che abbraccia tutti i popoli. Egli non  offre il sacrificio nel Tempio di Gerusalemme, ma il mondo intero è il  Tempio da cui si innalza l’incenso della preghiera [6]. Egli non offre  il sangue dei montoni e dei tori, il sacrificio espiatorio, ma offre la  pura oblazione del pane e del vino, il sacrificio di ringraziamento.
Ed è proprio il ringraziamento che egli offre, per la vittoria di  Abramo, al quale Dio lo ha inviato. Egli riceve la decima da Abramo,  cioè la parte prelevata su tutti i beni, per servire al culto di Dio.  Se Abramo è l’iniziatore di un’alleanza nuova e più perfetta, rende  però omaggio alla legittimità di questa prima alleanza tra le mani del  suo gran sacerdote.
Ci si ricorda, in un altro momento della storia, di Gesù che riceve  sulle rive del Giordano il battesimo da Giovanni Battista prima di  vederlo inchinarsi davanti a lui [7]. Egli è re e sacerdote  raccogliendo in sé le due unzioni che saranno divise, tra David e  Aronne, e non saranno più raccolte che in Gesù. Così, senza alcun  bisogno di fare appello alla leggenda, ci appare la grandezza di  Melchisedech.
Il sacrificio è l’azione religiosa per eccellenza, l’atto con il quale  l’uomo riconosce il sovrano dominio di Dio su di sé e su tutte le cose,  con l’offerta delle primizie dei suoi beni, come faceva Abele, agli  inizi del mondo, offrendo le primizie dei suoi greggi. Così, alle  origini dell’umanità, sorgono i due gesti essenziali. Abele che inventa  il rito e Caino che fabbrica l’utensile, i due gesti le cui vestigia  attesteranno dopo millenni la presenza dell’uomo.
Dappertutto dove vi è sacrificio vi è religione, e dove non vi è  sacrificio, azione sacerdotale, non vi è religione. La religione è  infatti l’atto stesso per cui l’uomo riconosce la sua totale  appartenenza a Dio. E il sacrificio è l’espressione visibile, il  sacramento di questo atto interiore di adorazione. 
Questo gesto lo ritroviamo presso tutti i popoli del mondo. Esso  appare nella forma più elementare nei popoli dell’Africa o dell’  Australia, raggiunge la più alta vetta d’interiorità in India dove  Brahma, il flamen latino, diviene un nome della divinità. Esso  rivestirà a volte forme barbare, nel sacrificio di fanciulli al Moloch  fenicio o nei sacrifici di prigionieri alle divinità azteche. Ma per  quanto ingenuo o pervertito, esso resterà sempre l’espressione dell’  esigenza più irreprimibile dell’uomo, quella di mantenere il suo legame  con Dio da cui proviene, e che è la ratifica stessa della sua  esistenza.
La grandezza di Melchisedech non è solo di essere la più perfetta  espressione del suo ordine proprio, ma di essere la figura di colui che  sarà il gran sacerdote eterno e che offrirà il perfetto sacrificio. È  quanto annunciava, in un testo importantissimo, il Salmo 109: «Tu sei  sacerdote in eterno, secondo l’ordine di Melchisedech». Il Salmista  annunciava così che alla fine dei tempi sarebbe apparso l’ultimo grande  sacerdote, colui che sarebbe stato il gran sacerdote in eterno, perché  avrebbe esaurito la realtà del sacerdozio e perché non sarebbe stata  possibile l’esistenza di altri dopo di lui.
È questo testo che la Lettera agli Ebrei applicherà a Gesù, attestando  come si realizzi in Lui (4,6). Bisogna rileggere il testo straordinario  in cui la Lettera agli Ebrei ci mostra in Melchisedech la figura del  Cristo: «Or questo Melchisedech, re di Salem, Sacerdote del Dio  Altissimo, che andò incontro ad Abramo, mentre ritornava dopo aver  sconfitto vari re e lo benedì, a cui Abramo dette la decima di ogni  cosa, il cui nome significa prima di tutto “Re di giustizia”, e per di  più è Re di Salem, cioè “Re di pace”, senza padre, madre, senza  antenati, e del quale si ignora il principio e la fine, questo  Melchisedech, vera figura del Figlio di Dio, rimane sacerdote per  sempre» (7,1-3).
Così per Paolo i titoli stessi di Melchisedech si caricano di un  misterioso simbolismo, la giustizia e la pace si riuniscono in lui, la  giustizia e la pace di cui il Salmo 84,11 dice che si sono abbracciate.  Non è però questo il fatto più strano. Paolo sembra mostrarci  Melchisedech quasi sorgente nel mondo «senza padre e senza madre». Non  ne fa in qualche modo un personaggio celeste? In realtà Paolo parte qui  dal fatto notevole che a differenza degli altri personaggi della  Bibbia, di cui ci vengono date lunghe genealogie, Melchisedech non è  collegato ad alcuna razza e non gli si dà alcuna discendenza. Ciò non  significa minimamente, per Paolo, che egli non abbia avuto in realtà  antenati e discendenti. Ma l’assenza di una loro menzione nella Bibbia  appare a Paolo come una figura di colui che non avrà padre perché viene  dal cielo, e che non si iscriverà in una successione sacerdotale [8].
San Paolo vuol sottolineare qui un tratto essenziale del sacerdozio di  Cristo, che è di essere definitivo, in modo che egli è il gran  sacerdote eterno, dopo il quale non ve n’è un altro. Per questo oppone  il sacerdozio di Melchisedech, che non rientra in una successione, a  quello di Aronne, che invece vi rientrava. La successione dei sacerdoti  nel sacerdozio levitico ne sottolineava l’imperfezione: «Se la  perfezione fosse stata realizzata con il sacerdozio levitico, quale  necessità c’era che sorgesse un altro sacerdote, secondo l’ordine di  Melchisedech?» (Eb 7,11).
Essi avevano dei predecessori e dovevano avere dei successori: «I  sacerdoti ebrei formano una lunga serie, perché la morte impediva loro  di essere duraturi» (7,23 ) [9]. A ciò si oppone il sacerdozio del  Cristo: «Gran sacerdote dei beni futuri, è entrato una volta per sempre  nel Santuario dei cieli, dopo averci ottenuta una redenzione eterna»  (9,11). 
Egli è sacerdote per sempre, poiché il sacrificio che ha offerto è  acquisito per sempre. I sacrifici che venivano offerti fino ad allora  esprimevano lo sforzo dell’uomo di riconoscere la sovranità divina. Ma  il loro sforzo non aveva successo a causa dell’eccessiva sproporzione  tra la fragilità dell’uomo e la santità di Dio. Sacrifici pagani di  Melchisedech, sacrifici ebraici di Aronne, tutti si urtavano contro la  soglia invalicabile. Essi non penetravano nel santuario, e la loro  stessa ripetizione ne attestava il fallimento.
Per questo, nella pienezza dei tempi, il Figlio di Dio, unito alla  natura dell’uomo da un legame indistruttibile, si è fatto obbediente  fino alla morte e fino alla morte della croce, manifestando con la sua  obbedienza l’infinita amabilità della volontà divina e rendendo così a  Dio una gloria perfetta. Ora la gloria di Dio è il fine stesso della  creazione.
Così, nell’azione sacerdotale di Gesù Cristo, Dio è stato  perfettamente glorificato in modo che nessuna gloria nuova gli può  essere data. Tutti gli altri sacrifici sono così aboliti e noi non  potremo ormai offrire al Padre che l’unico sacrificio di Gesù Cristo,  di cui ogni eucaristia è il sacramento attraverso l’unico sacerdozio di  Gesù Cristo, di cui ogni sacerdozio è la partecipazione. Abolendo però  così tutti i sacrifici antichi, Gesù Cristo non li distrugge, ma li  compie. Attraverso lui tutti i sacrifici di tutte le nazioni, ogni  sforzo dell’uomo per glorificare Dio è rivolto al Padre e giunge sino a  Lui: «Per ipsum et cum ipso et in ipso est tibi Deo Patri omnipotenti  omnis honor et gloria».
E la menzione del sacrificio di Melchisedech, «sanctum sacrificium,  immaculatam hostiam», nella Preghiera eucaristica I, attesta che non  sono solo i sacrifici del Tempio d’Israele, ma anche quelli del mondo  pagano che sono così ripresi e assunti nel sacrificio del Sommo  Sacerdote eterno.
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NOTE
[1] M. Simon, Melchisédech dans la polémique entre juifs et chrétiens,
in Rev. Hist. Phil. Relig. (1937), pp. 58 e sgg.
[2] Vd. G. Wuttke, Melchisedech des Priestkönig von Salem, Giessen
1927.
[3] Ed. Vaillant, pp. 81-85.
[4] M. Simon, art. cit., pp. 87-91.
[5] G. Bardy, Melchisedech dans la tradition patristique, in Rev.
Bibl. (1926), pp. 596-610; 1927, pp. 25-45; B. Capelle, Notes de
théologie ambrosienne, in R.T.A.M. (1931), pp. 183-190.
[6] Vd. J. Daniélou, Le signe du Temple, pp. 9-14.
[7] Vd. J. Daniélou, Le mystère de l’Avent, pp. 60-79, dove tutto è
più ampiamente sviluppato.
[8] Vd. G.T. Kennedy, St. Paul’s Conception of the Priesthood of
Melchisedech, Washington 1951, pp. 71-107.
[9] Vd. C. Spicq, L’Épitre aux Hébreux, II, pp. 181-214.