DISCERNERE

Uno sguardo profetico sugli eventi

Visualizzazione post con etichetta Sacra Scrittura. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta Sacra Scrittura. Mostra tutti i post

Figli di Dio non si nasce. Si diventa. di Ignace de la Potterie, s.i.


L’articolo che qui ripubblichiamo può essere riassunto nelle due prime risposte del Catechismo maggiore di san Pio X: «Siete voi cristiano? Sì, io sono cristiano per grazia di Dio.Perché dite voi: per grazia di Dio? Io dico: per grazia di Dio, perché l’essere cristiano è un dono tutto gratuito di Dio, che noi non abbiamo potuto meritare»

di Ignace de la Potterie, s.i.

Masaccio Il battesimo dei neofiti, nella Cappella Brancacci della chiesa di Santa Maria del Carmine a Firenze
La Chiesa ha da poco celebrato col santo Natale la nascita nel tempo dell’unigenito eterno Figlio di Dio. Secondo una teologia sempre più diffusa, con l’incarnazione del Figlio deriverebbe in maniera automatica l’attribuzione immediata a ogni uomo della figliolanza divina. Nel senso che ogni uomo, che lo sappia o no, che lo accetti o no, vive già radicalmente in Cristo. Secondo tale teologia, Cristo, prima ancora di essere il capo della Chiesa, è il capo di tutto il creato. Ogni uomo gli appartiene prima ancora di essere raggiunto e trasformato dal suo Spirito.
Questa concezione pretende trovare un avallo nell’affermazione di san Tommaso d’Aquino secondo cui «considerando la generalità degli uomini, per tutto il tempo del mondo, Cristo è il capo di tutti gli uomini, ma secondo gradi diversi» (Summa theologica III, 8, 3) ripresa dalla costituzione pastoraleGaudium et spes dell’ultimo Concilio: «Con l’incarnazione il Figlio di Dio si è unito in certo modo a ogni uomo» (22). Ma se si togliessero dalla frase dellaSumma theologica e dalla frase della Gaudium et spes gli incisi «secondo gradi diversi» e «in certo modo» non si rispetterebbero tutti i dati della fede cattolica. E infatti lo stesso Concilio, nella costituzione dogmatica Lumen gentium (13), seguendo fedelmente la Tradizione, distingue chiaramente tra la chiamata di tutti gli uomini alla salvezza e l’appartenenza in atto dei credenti alla comunione di Gesù Cristo. Secondo il metodo proprio di tutta la rivelazione biblica.
Se, con l’incarnazione del Verbo, la figliolanza divina fosse attribuita immediatamente a ogni uomo, il mistero della scelta o elezione e quindi la fede, il battesimo e la Chiesa non avrebbero più alcun ruolo costitutivo per la salvezza: la missione della Chiesa nel mondo sarebbe solo quella di far prendere coscienza a tutti gli uomini di questa salvezza già presente nella profondità di ognuno. Insomma, ogni uomo, in virtù dell’incarnazione del Verbo, acquisirebbe automaticamente, anche se inconsapevolmente, “l’esistenza in Cristo” ricevendo così, in virtù della sua trascendenza come persona umana, gli effetti salvifici della redenzione operata da Gesù Cristo. Sarebbe un “cristiano anonimo”.
Già Erik Peterson, il famoso esegeta tedesco convertitosi alla Chiesa cattolica dal luteranesimo, nel suo saggio del 1933Die Kirche aus Juden und Heiden (La Chiesa composta da Giudei e da Gentili), commentando i capitoli 9-11 della lettera di san Paolo ai Romani, spiegava che non può esserci un cristianesimo ridotto all’ordine meramente naturale, in cui gli effetti della redenzione operata da Gesù Cristo verrebbero trasmessi geneticamente, per via ereditaria, a ogni uomo, per il solo criterio di condividere con il Verbo incarnato la natura umana. La figliolanza divina non è l’esito automatico garantito dall’appartenenza al genere umano. La figliolanza divina è sempre un dono gratuito della grazia, non può prescindere dalla grazia donata gratuitamente nel battesimo e riconosciuta e accolta nella fede. Un brano di san Leone Magno, letto nella liturgia dell’Avvento, chiarisce con precisione il rapporto tra l’incarnazione e il battesimo: «Se colui, che è il solo libero dal peccato, non avesse unito a sé la nostra natura umana, tutta quanta la natura umana sarebbe rimasta prigioniera sotto il giogo del diavolo. Noi non avremmo potuto aver parte alla vittoria gloriosa di lui se la vittoria fosse stata riportata fuori della nostra natura. A causa di questa mirabile partecipazione alla nostra natura rifulse per noi il sacramento della rigenerazione, perché, in virtù dello stesso Spirito per opera del quale fu generato e nacque Cristo, anche noi, che siamo nati dalla concupiscenza della carne, nascessimo di nuovo di nascita spirituale». E sant’Agostino nel De civitate Dei scrive: «La natura corrotta dal peccato genera perciò i cittadini della città terrena, mentre la grazia che libera la natura dal peccato genera i cittadini della città celeste. Perciò i primi sono chiamati vasi d’ira; gli altri sono chiamati vasi di misericordia. Se ne ha un simbolo anche nei due figli di Abramo. L’uno, Ismaele, nacque secondo la carne dalla schiava Agar, l’altro, Isacco, nacque secondo la promessa da Sara, che era libera. Entrambi sono stirpe di Abramo, ma un rapporto puramente naturale ha fatto nascere il primo, invece la promessa che è segno della grazia ha donato il secondo. Nel primo caso si rivela un comportamento umano, nel secondo caso si rivela la grazia di Dio».
Basta tornare al Nuovo Testamento e al modo in cui san Giovanni, il discepolo prediletto, descrive la figliolanza divina, per mostrare come tale figliolanza non è un immediato possesso naturale ma sempre un dono gratuito che il Signore elargisce a chi sceglie, e che si accoglie nella fede («Non voi avete scelto me, ma io ho scelto voi», Gv 15, 16).
Sono soprattutto tre i testi di Giovanni che trattano della figliolanza divina promessa da Gesù e sperimentata dal cristiano: un versetto del Prologo (Gv 1, 12) che parla del nostro potere di diventare figli di Dio; la prima parte del dialogo con Nicodemo (Gv 3, 1-8), che descrive tutto ciò che compie lo Spirito Santo in noi per realizzare la nostra generazione e la nostra nascita come figli di Dio; infine due passi della prima lettera (1Gv 3, 6-9; 1Gv 5, 18-19) dove vengono descritti gli effetti spirituali e morali nella vita concreta del cristiano, quando egli vive la sua divina figliolanza e diventa così “impeccabile”. Per l’argomento che stiamo trattando, sono significativi soprattutto i primi due passi sopra citati.
Nel Prologo (Gv 1, 12-14), Giovanni scrive: «A quanti lo accolsero, diede il potere di divenire figli di Dio, a coloro [cioè] che credono nel suo nome: [il nome di colui che] da Dio è stato generato. Sì, la Parola si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi, e noi abbiamo contemplato la sua gloria, la gloria dell’unigenito venuto da presso il Padre pieno della grazia della verità».
È importante notare in questo brano del Prologo innanzitutto l’uso del verbo divenire, sul quale i commentari non dicono quasi niente. Proprio questa scelta linguistica testimonia come intende Giovanni la figliolanza divina: figli di Dio si diventa, non si è ab initio solo in virtù della propria natura umana. La figliolanza divina non è un dato acquisito a priori, un possesso statico, implicito nella propria nascita naturale. Si diventa figli di Dio – come Gesù dice nel dialogo con Nicodemo – quando si è «generati dall’alto», cioè quando si è «generati dall’acqua e dallo Spirito». E ciò accade quando un avvenimento, il battesimo e la fede ci introducono in una nuova dinamica dell’essere, e mettono un dinamismo nuovo nella nostra esistenza. Questo tesoro fa di tutta la vita un cammino, un progredire, sempre preceduti e accompagnati da quei fatti di grazia operati dal Signore che tornano a sorprendere il cuore nutrendo così la fede. Insomma la figliolanza divina non è un marchio metafisico impresso nel destino di ognuno, lo sappia o non lo sappia, lo voglia o non lo voglia. È piuttosto un dono che si riconosce e si accoglie nella fede. Che interpella la nostra libertà, tanto che Dio stesso, secondo l’immagine stupenda di san Bernardo, ha atteso con trepidazione il sì di Maria.
L’altro termine chiave del brano del Prologo è la parola potere, che indica anch’essa non un possesso, ma un dinamismo. Non si diventa figli di Dio in maniera automatica, per legge di natura, ma per la fede. È la fede il potere dato per diventare figli di Dio: non una fede vaga e anonima, mero anelito religioso, comune almeno in alcune occasioni della vita a tutti gli uomini, ma la fede di chi «crede nel suo nome». Un’espressione che troviamo più volte in Giovanni: la vera fede consiste nel «credere nel nome del Figlio unigenito di Dio» (Gv 3, 18). Ne segue che la nostra figliolanza non può che essere una partecipazione alla figliolanza di colui che si è manifestato tra noi come «il Figlio unigenito venuto da presso il Padre». Questo potere di diventare figli di Dio, questa fede sorge, rimane e cresce come accadde alla fede dei primi discepoli. Proprio ciò che è accaduto ai primi discepoli resta per sempre l’esperienza paradigmatica di come si diventa figli di Dio. Perché la stessa presenza, che ha suscitato la fede nei primi che ha scelto, continua a operare nel presente, così da stupire e destare la fede anche oggi nel cuore degli uomini che il Padre gli dà (cfr. Gv 17, 2).
Il dialogo con Nicodemo costituisce il brano più lungo ed esplicito per il tema della figliolanza divina. Dei vari aspetti qui toccati, occorre sottolineare soprattutto l’insistenza sull’azione dello Spirito Santo nell’esperienza della figliolanza divina. Gesù spiega a Nicodemo: «Se uno non è stato generato dall’acqua e dallo Spirito non può entrare nel regno di Dio» (Gv 3, 5). Quindi la via d’accesso al diventare «figli nel Figlio» è possibile solo a chi viene generato dallo Spirito nella fede e nel battesimo (indicato da Gesù in questo passo col segno dell’acqua).
Anche le teorie che riducono la figliolanza divina a un automatismo, quasi fosse un marchio di dominio acquisito impresso da Dio su ogni uomo, indicano spesso lo Spirito quale artefice di questa operazione. Secondo queste teorie gli uomini sarebbero per natura titolari della figliolanza divina, a prescindere dalla fede, dal battesimo e dal proprio libero acconsentire, proprio perché lo Spirito, nella sua illimitata libertà, applica a ognuno, lo sappia o no, lo voglia o no, i frutti della redenzione.
Proprio il Vangelo di Giovanni testimonia che lo Spirito Santo non è un’entità separata e indipendente, che opera nell’intimo segreto delle coscienze con un’azione parallela all’azione di Gesù Cristo Figlio di Dio.
Tutta la missione dello Spirito Santo nella storia della salvezza può essere espressa con le parole di san Basilio, lette nella liturgia del tempo di Natale: «Come il Padre si rende visibile nel Figlio, così il Figlio si rende presente nello Spirito». E Basilio aggiunge che ciò lo si apprende da quanto Gesù ha detto alla Samaritana: «“Bisogna adorare nello Spirito e nella verità” (Gv 4, 23) chiaramente definendo se stesso “la verità”».
Basta leggere le promesse che Gesù stesso fa ai discepoli riguardo al Paraclito nel Vangelo di Giovanni. Lo Spirito «insegnerà», facendo ricordare quello che ha detto Gesù (Gv 14, 26); «renderà testimonianza» a Gesù (Gv 15, 26); «non parlerà da sé stesso, ma dirà quello che ascolta» (Gv 16, 13). Lo Spirito Santo non è dunque un’entità arbitraria: egli possiede una chiara benché misteriosa intenzionalità («Lo Spirito ispira dove vuole», Gv 3, 8), opera certe cose, che sono sempre in relazione con la missione e l’insegnamento di Gesù. Siccome lo Spirito è «lo Spirito della verità» (Gv 15, 26; Gv 16, 13), quale altra verità potrebbe farci conoscere lo Spirito se non la verità di colui che ha detto: «Io sono la verità» (Gv 14, 6)? Lo Spirito guida il cristiano verso Gesù Cristo, verso la verità intera (Gv 16, 13); lo aiuta a scoprire sempre meglio il mistero di Gesù Cristo e a rimanere nella sua memoria. C’è un brano della costituzione dogmatica Lumen gentium che può riassumere quanto abbiamo detto: «Cristo, infatti, innalzato da terra, attirò tutti a sé; risorto dai morti, inviò sui discepoli il suo Spirito vivificante e per mezzo di lui costituì il suo corpo, la Chiesa, quale universale sacramento di salvezza; assiso alla destra del Padre, opera incessantemente nel mondo per condurre gli uomini alla Chiesa e per mezzo di essa unirli più intimamente a sé e renderli partecipi della sua vita gloriosa nutrendoli con il suo corpo e il suo sangue» (48).
Se figli di Dio non si nasce, ma si diventa, va da sé che ciò non è mai spunto di presunzione e di condanna per gli altri. Come ha ricordato Giovanni Paolo II nell’enciclica Redemptoris missio «la fede che abbiamo ricevuto» è un «dono dall’Alto senza nostro merito».
L’esperienza della figliolanza è invece tutta piena solo di gratitudine, per il dono immeritato, e di speranza nei confronti di tutti. Per cui non si tratta di giudicare i miscredenti, i lontani, o addirittura quelli che possono sembrare avversari. Anche perché ognuno di loro può, quando meno se lo aspetta, incontrare il fatto cristiano. Come scriveva Charles Péguy, commentando un verso di Corneille, «Dio tocca i cuori quando meno ce lo si aspetta. È la formula stessa del morso, è la formula dell’attacco, del colpo, della penetrazione della grazia. Ma essa implica anche che colui che vi pensa, che ha l’abitudine di pensarci, che è ricoperto dallo strato dell’abitudine è anche colui che si espone di meno e per così dire dà meno possibilità alla presa».
Questa gratitudine non giudica nessuno, ma è magnanima e misericordiosa anche davanti all’errore e al peccato. Come accadde a san Francesco Saverio, il discepolo prediletto che Ignazio di Loyola aveva mandato a evangelizzare il lontano Oriente. Davanti ai peccati anche turpi dei pagani, Francesco Saverio si stupiva che senza la fede, i sacramenti e la preghiera filiale non ne facessero di più gravi. Come scrive in una lettera inviata ai suoi compagni da Cochin, nel 1552: «Io non mi meraviglio per i peccati che esistono fra bonzi e bonze, quantunque ve ne siano in grande quantità. Anzi, mi meraviglio che non ne facciano più di quelli che fanno…».


© Copyright 30 Giorni


la priorità al di sopra di tutte è rendere Dio presente in questo mondo ed aprire agli uomini l’accesso a Dio. Non a un dio qualsiasi

BENEDIZIONE DELLE FIACCOLE,
RECITA DEL SANTO ROSARIO

DISCORSO DEL SANTO PADRE BENEDETTO XVI

Spianata del Santuario di Fátima
Mercoledì, 12 maggio 2010

Cari pellegrini,

tutti voi insieme, con la candela accesa in mano, sembrate un mare di luce intorno a questa semplice cappella, eretta premurosamente in onore della Madre di Dio e Madre nostra, la cui via di ritorno dalla terra al cielo era apparsa ai pastorelli come una striscia di luce. Però sia Maria che noi stessi non godiamo di luce propria: la riceviamo da Gesù. La presenza di Lui in noi rinnova il mistero e il richiamo del roveto ardente, quello che un tempo sul monte Sinai ha attirato Mosè e non smette di affascinare quanti si rendono conto di una luce speciale in noi che arde però senza consumarci (cfr Es 3,2-5). Da noi stessi non siamo che un misero roveto, sul quale però è scesa la gloria di Dio. A Lui dunque sia ogni gloria, a noi l’umile confessione del nostro niente e la sommessa adorazione dei disegni divini, che verranno adempiuti quando «Dio sarà tutto in tutti» (cfr 1 Cor 15,28). Serva incomparabile di tali disegni è la Vergine piena di grazia: «Ecco la serva del Signore: avvenga per me secondo la tua parola» (Lc 1,38).

Cari pellegrini, imitiamo Maria, facendo risuonare nella nostra vita il suo «avvenga per me»! A Mosè, Dio aveva ordinato: «Togliti i sandali dai piedi, perché il luogo sul quale tu stai è un suolo santo» (Es 3,5). E così ha fatto; calzerà nuovamente i sandali per andare a liberare il suo popolo dalla schiavitù d’Egitto e guidarlo alla terra promessa. Non si tratta qui semplicemente del possesso di un appezzamento di terreno o di quel territorio nazionale a cui ogni popolo ha diritto; infatti, nella lotta per la liberazione d’Israele e durante il suo esodo dall’Egitto, ciò che appare evidenziato è soprattutto il diritto alla libertà di adorazione, alla libertà di un culto proprio. Quindi lungo il corso della storia del popolo eletto, la promessa della terra va assumendo sempre di più questo significato: la terra è donata perché ci sia un luogo dell’obbedienza, affinché ci sia uno spazio aperto a Dio.

Nel nostro tempo, in cui la fede in ampie regioni della terra, rischia di spegnersi come una fiamma che non viene più alimentata, la priorità al di sopra di tutte è rendere Dio presente in questo mondo ed aprire agli uomini l’accesso a Dio. Non a un dio qualsiasi, ma a quel Dio che ha parlato sul Sinai; quel Dio il cui volto riconosciamo nell’amore portato fino alla fine (cfr Gv 13, 1), in Gesù Cristo crocifisso e risorto. Cari fratelli e sorelle, adorate Cristo Signore nei vostri cuori (cfr 1 Pt 3, 15)! Non abbiate paura di parlare di Dio e di manifestare senza vergogna i segni della fede, facendo risplendere agli occhi dei vostri contemporanei la luce di Cristo, come canta la Chiesa nella notte della Veglia Pasquale che genera l’umanità come famiglia di Dio.

Fratelli e sorelle, in questo luogo stupisce osservare come tre bambini si sono arresi alla forza interiore che li ha invasi nelle apparizioni dell’Angelo e della Madre del Cielo. Qui, dove tante volte ci è stato chiesto di recitare il Rosario, lasciamoci attrarre dai misteri di Cristo, i misteri del Rosario di Maria. La recita del rosario ci consente di fissare il nostro sguardo e il nostro cuore in Gesù, come faceva sua Madre, modello insuperabile della contemplazione del Figlio. Nel meditare i misteri gaudiosi, luminosi, dolorosi e gloriosi mentre recitiamo le «Ave Maria», contempliamo l’intero mistero di Gesù, dall’Incarnazione fino alla Croce e alla gloria della Risurrezione; contempliamo l’intima partecipazione di Maria a questo mistero e la nostra vita in Cristo oggi, che pure si presenta tessuta di momenti di gioia e di dolore, di ombre e di luce, di trepidazione e di speranza. La grazia invade il nostro cuore suscitando il desiderio di un incisivo ed evangelico cambiamento di vita in modo da poter dire con san Paolo: «Per me il vivere è Cristo» (Fil 1,21), in una comunione di vita e destino con Cristo.

Sento che mi accompagnano la devozione e l’affetto dei fedeli qui convenuti e del mondo intero. Porto con me le preoccupazioni e le attese di questo nostro tempo e le sofferenze dell’umanità ferita, i problemi del mondo, e vengo a deporli ai piedi della Madonna di Fatima: Vergine Madre di Dio e nostra Madre carissima, intercedi per noi presso il tuo Figlio perché tutte le famiglie dei popoli, sia quelle che si distinguono con il nome cristiano, sia quelle che ignorano ancora il loro Salvatore, vivano in pace e concordia fino a ricongiungersi in un solo popolo di Dio a gloria della santissima e indivisibile Trinità. Amen.

© Copyright 2010 - Libreria Editrice Vaticana

La trascendenza divina nel Libro di Giobbe. di Cesare Cavalleri

C i sono testi che andrebbe­ro riletti almeno una vol­ta all’anno, e Il libro di Giobbe è in cima all’elenco. Nel­la mia rilettura annuale, in que­sti giorni mi sono fatto guidare dal commento di San Tommaso nella bella edizione curata da Lo­renzo Perotto (Edizioni Studio Domenicano, Bologna 1995), e dalla versione commentata di Gianfranco Ravasi (pubblicata in prima edizione da Borla nel 1979 e più volte ristampata), che, a giudizio dello stesso Perotto, «è la più completa opera moderna». La problematica è ben nota, nel­la sua complessità. Giobbe, uo­mo ricco e profondamente reli­gioso, per permissio­ne divina viene privato dei suoi beni, dei suoi figli (sette maschi e tre fem­mine) e addirittura colpito nella sua carne da un’infezione che lo costringe su un letamaio a grat­tasi le piaghe con un coccio. Cio­nonostante, non rinnega Dio: «Il Signore ha dato, il Signore ha tol­to, sia benedetto il nome del Si­gnore ». I tre amici venuti per consolarlo, Elifaz, Bildad e Zofar, in realtà di­ventano i suoi accusatori: pri­gionieri dell’etica retribuzionista secondo cui il bene e il male so­no distribuiti secondo i meriti o i demeriti, cercano di convince­re Giobbe che, se è così punito, certamente è a causa dei suoi peccati. Interviene poi un quar­to personaggio, Eliu, che affac­cia l’ipotesi del valore medicina­le del dolore. Ma Giobbe prote­sta la sua innocenza, grida il suo strazio, chiama Dio a testimone. E Dio appare in un’impressio­nante teofania come creatore delle meraviglie cosmiche, i cui disegni restano insondabili data la distanza delle creature. Nell’e­pilogo, Dio condanna i tre ami­ci, mentre Giobbe è riconosciu­to fedele e riportato a una con­dizione di felicità superiore a quella di partenza.
Il punto più controverso è nel ca­pitolo 19 (25-26), dove Giobbe proclama, secondo la versione della Cei: «Io so che il mio re­dentore è vivo e che, ultimo, si ergerà sulla polvere! Dopo che
questa mia pelle sarà strappata via, senza la mia carne, vedrò Dio». Tommaso interpreta que­sti versetti, pervenuti peraltro as­sai guasti, come fede di Giobbe nell’immortalità dell’anima e nella risurrezione della carne, e tutto il suo commento è orien­tato da questa convinzione. L’er­rore principale dei tre amici è di postulare una restaurazione del­la giustizia in questa vita, men­tre Giobbe la collocherebbe nel­l’aldilà.
L’analisi storica e filologica di Ra­vasi, invece, sostiene che al tem­po della redazione del Libro di Giobbe (dopo l’esilio babilonese che durò dal 587 al 538 a.C.) que­sta concezione non era vigente, per cui Giobbe avrebbe voluto vedere Dio già durante la vita ter­rena, come in effetti nel Libro ac­cade.
Mi sembra, tuttavia, che Tom­maso abbia ottime ragioni. Se la Scrittura va considerata nella sua unità, è lecito proiettare sul pas­sato le luci che si sono manife­state successivamente. L’ispira­zione della Scrittura può andare ben oltre la stessa comprensio­ne soggettiva dell’agiografo. Per esempio, noi interpretiamo in senso eucaristico il pane e il vi­no offerti in sacrificio da Mel­chisedec, il quale, evidentemen­te, nulla sapeva dell’Eucaristia. Dal momento che l’immortalità dell’anima e il destino nell’aldilà sono dottrina ormai acquisita, perché non ritracciarne i semi in parole di cui Giobbe stesso for­se ignorava la portata? Le profe­zie
diventano chiare quando so­no compiute, o, come direbbe Tommaso, la potenza si ricono­sce dall’atto. È significativo, in­fatti, che i contestati versetti giobbici siano tuttora in uso nel­la Liturgia dei defunti.
Il bello è che non si è tenuti a sce­gliere fra l’interpretazione stori­ca di Ravasi e altri esegeti mo­derni e l’interpretazione profe­tica di Tommaso e di alcuni Pa­dri antichi: possono essere ac­colte entrambe, tanto più che i temi in gioco (il dolore dell’in­nocente, l’assoluta trascendenza di Dio, la gratuità della fede, l’im­mortalità dell’anima e la vita fu­tura) sono inesauribili e dunque resistenti a ogni razionalizzazio­ne, soprattutto in poche righe
come queste.

© Copyright Avvenire 14 aprile 2010

Stele del Mar Morto «figlia» dell’Antico Testamento

di Ilaria Ramelli

L
a Stele del Mar Mor­to, di cui stiamo par­lando da un paio di settimane, arricchisce cer­tamente lo studio del Nuovo Testamento, ma non inficia la veridicità dei racconti evangelici sulla resurrezione di Gesù. In­fatti, che il motivo del Messia sofferente e della resurrezione dopo tre giorni fosse ben presente nelle attese del giudaismo era ben noto anche prima che l’epigrafe in questione fosse pubblicata, e simil­mente non consentiva la conclusione che la storia di Gesù fosse stata inven­tata sulla base di questi motivi preesistenti. Da Is 53 era nota la figura del Servo sofferente del Si­gnore che, caricato dei no­stri peccati, muore, per poi tuttavia risorgere: «Dopo il suo intimo tor­mento vedrà la luce». Nel Sal 21 (22), tradizional­mente visto come messia­nico, la sofferenza e la morte sono congiunte alla speranza e alla gloria. Il Sal 15 (9-10) proclama: «Non lascerai che il tuo Santo veda la corruzione».
Il Santo di Dio è Cristo,
poiché solo Cristo risorge prima che il suo corpo si corrompa nella morte.
Questo passo è citato in­fatti in At 2, 27.31 in riferi­mento alla resurrezione di Gesù. Sotto questo aspet­to, l’epigrafe in esame non dice niente di tanto nuo­vo: erano già presenti nel­la Bibbia la sofferenza e resurrezione del Messia.
Ammesso che nella stele i 'tre giorni' vadano riferiti alla resurrezione del Mes­sia, il che non è sicuro, co­munque anche questo particolare era già attesta­to nell’Antico Testamento. Qui i tre giorni designano un intervallo di tempo ca­ratteristico per l’avveni­mento
di qualcosa di im­portante; si trovano quasi cinquanta occorrenze di ' treis hemerai' nella Sep­tuaginta
(la versione greca della Bibbia ebraica, rea­lizzata molto prima di Ge­sù). In Gio 2,1 si dice che Giona rimase per tre gior­ni e notti nel ventre della balena: molti Padri riferi­rono questi tre giorni alla permanenza di Gesù nel ventre della terra prima della resurrezione. In Gn 40, 12-13 nell’interpreta­zione di un sogno di un dipendente del Faraone Giuseppe dice: «Fra tre giorni il Faraone solleverà il tuo capo e ti ricostituirà [
apokatastései] nel tuo uf­ficio ». Qui, i tre giorni in­dicano la restaurazione a una condizione positiva originaria da una negativa che era intervenuta, pro­prio come il ritorno dalla morte alla vita. Si trova pure un riferimento sacri­ficale ai tre giorni in Es 3,18 e 5,3: gli ebrei chiedo­no al Faraone di poter an­dare nel deserto per tre giorni per sacrificare al Si­gnore. In Gs 1,11 i tre gior­ni sono indicati come l’in­tervallo dopo cui viene la presa di possesso della Terra promessa. Impor­tante è anche Es 10:22-23, relativo alla piaga delle te­nebre in Egitto: «Mosè ste­se le mani verso il cielo, e ci fu una tenebra fitta in tutta la terra d’Egitto; per tre giorni non poterono vedersi l’un l’altro, né al­cuno poté levarsi [ exané­ste,
il verbo della resurre­zione,

ndr ]
dal suo luogo per tre giorni». Soprattut­to, in 1Sam 30, 12 i tre giorni indicano l’intervallo durante il quale una per­sona fu vicina alla morte per mancanza di cibo; do­po quell’intervallo si ria­nimò e tornò in vita: «Gli diedero un pezzo di torta di fichi e due grappoli d’u­va passita. E quando ebbe mangiato, il suo spirito ri­visse. Non aveva infatti as­sunto pane o bevuto ac­qua per tre giorni e tre notti». I tre giorni sono precisamente l’intervallo tra la morte e il ritorno alla vita. La Stele del Mar Mor­to conferma la presenza di motivi legati al Messia sof­ferente, che risorge dopo tre giorni, nel giudaismo di poco tempo prima di Gesù. Questi motivi si tro­vano già nell’Antico Testa­mento e non possono di­mostrare che la storia di Gesù, quale narrata dai Vangeli e prima ancora, in nuce, da Paolo, sia un’in­venzione letteraria basata su elementi preesistenti.
Tanto più che la storicità della sua figura e della sua morte, e l’annuncio della sua resurrezione, sono at­testate
anche da fonti non cristiane. Quello che con­ferma l’epigrafe pubblica­ta dalla Yardeni è che nel giudaismo del tempo di Gesù c’erano forti aspetta­tive messianiche, e che queste erano orientate ad un Messia che doveva mo­rire e risorgere, forse dopo tre giorni. Gesù venne a colmare tali attese. I disce­poli di Gesù erano tanto lontani dall’inventare la notizia della sua resurre­zione da non credervi nemmeno, quando Gesù era apparso risorto a Ma­ria Maddalena e quando le sue discepole avevano annunciato agli apostoli la sua resurrezione.

© Copyright Avvenire 13 aprile 2010

Le feste di Israele nel vangelo secondo Giovanni


Renzo Infante

Le feste di Israele nel vangelo secondo Giovanni

Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo (MI)

Codice ISBN-10: 8821567001

Codice ISBN-13: 978-8821567001

Prezzo di copertina: € 16,00

Uno studio serio e completo sulle feste d’Israele, un occasione per aprire nuove vie di confronto con il mondo ebraico.

Dopo un’ampia premessa in cui viene discussa l’ipotesi che l’evangelista, nella strutturazione del suo vangelo, possa essere stato influenzato dall’uso dei lezionari della sinagoga, lo studio analizza singolarmente le feste d’Israele nell’ordine in cui ricorrono nel Quarto Vangelo. Di ciascuna vengono esaminati l’origine, il significato e gli sviluppi nell’Antico Testamento, come pure la diffusione ed evoluzione nel giudaismo del I secolo e in quello rabbinico. Si passa quindi ad approfondirne la determinante presenza come sfondo temporale sacro su cui si sviluppa la vicenda di Gesù di Nazareth nel Quarto Vangelo.

In questo volume l’autore assume, nella sua piena verità, l’affermazione di Gesù che «la salvezza viene dai giudei», stimolando nuove vie di esegesi e di dialogo con il mondo ebraico, al di là e oltre gli stereotipi interpretativi di un rapporto di “sostituzione” o di “opposizione”.

Renzo Infante ha conseguito la Licenza in Sacra Scrittura (Pontificio Istituto Biblico), il Dottorato in Teologia Biblica (Pontificia Università Gregoriana) e la Laurea in Filosofia (Università di Bari). Attualmente è professore associato presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università degli Studi di Foggia e insegna Esegesi del Nuovo Testamento nella Pontificia Facoltà dell’Italia Meridionale di Napoli e nell’ISSR di Foggia. Ha approfondito questioni di esegesi giovannea, evidenziandone la continuità e gli aspetti innovativi rispetto alla matrice giudaica. Oltre a numerosi articoli e saggi di esegesi e teologia biblica, con le Edizioni San Paolo ha pubblicato: Sulle strade della gioia, con il Vangelo secondo Luca (1998) e Lo sposo e la sposa. Percorsi di analisi simbolica tra Sacra Scrittura e cristianesimo delle origini (2004).

Figli di Dio non si nasce, si diventa. La figliolanza divina secondo San Giovanni. Di Ignace de la Potterie

30Giorni n.1 Gennaio 1997

La figliolanza divina secondo San Giovanni

di Ignace de la Potterie


La Chiesa ha da poco celebrato col santo Natale la nascita nel tempo dell'Unigenito eterno Figlio di Dio. Secondo una teologia sempre più diffusa, con l'Incarnazione del Figlio deriverebbe in maniera automatica l'attribuzione immediata a ogni uomo della figliolanza divina. Nel senso che ogni uomo, che lo sappia o no, che lo accetti o no, vive già radicalmente in Cristo.

Secondo tale teologia, Cristo, prima ancora di essere il capo della Chiesa, è il capo di tutto il creato. Ogni uomo gli appartiene prima ancora di essere raggiunto e trasformato dal suo Spirito.

Questa concezione pretende trovare un avallo nella affermazione di san Tommaso d'Aquino secondo cui «considerando la generalità degli uomini, per tutto il tempo del mondo, Cristo è il capo di tutti gli uomini, ma secondo gradi diversi» (Summa theologica III, 8, 3) ripresa dalla costituzione pastorale Gaudium et spes dell'ultimo Concilio: «Con l'Incarnazione il Figlio di Dio si è unito in certo modo ad ogni uomo» (n. 22). Ma se si togliessero dalla frase della Summa theologica e dalla frase della Gaudium et spes gli incisi «secondo gradi diversi» e «in un certo modo» non si rispetterebbero tutti i dati della fede cattolica. E infatti lo stesso Concilio, nella costituzione dogmatica Lumen gentium (n. 13), seguendo fedelmente la Tradizione, distingue chiaramente tra la chiamata di tutti gli uomini alla salvezza e l'appartenenza in atto dei credenti alla comunione di Gesù Cristo. Secondo il metodo proprio di tutta la rivelazione biblica.

Se, con l'Incarnazione del Verbo, la figliolanza divina fosse attribuita immediatamente ad ogni uomo, il mistero della scelta o elezione e quindi la fede, il battesimo e la Chiesa non avrebbero più alcun ruolo costitutivo per la salvezza: la missione della Chiesa nel mondo sarebbe solo quella di far prendere coscienza a tutti gli uomini di questa salvezza già presente nella profondità di ognuno. Insomma, ogni uomo, in virtù dell'Incarnazione del Verbo, acquisirebbe automaticamente, anche se inconsapevolmente, "l'esistenza in Cristo" ricevendo così, in virtù della sua trascendenza come persona umana, gli effetti salvifici della redenzione operata da Gesù Cristo. Sarebbe un "cristiano anonimo".

Già Erik Peterson, il famoso esegeta tedesco convertitosi alla Chiesa cattolica dal luteranesimo, nel suo saggio del 1933 Die Kirke aus Juden und Heiden (La Chiesa composta da giudei e da gentili), commentando i capitoli 9-11 della lettera di san Paolo ai Romani, spiegava che non può esserci un cristianesimo ridotto all'ordine meramente naturale, in cui gli effetti della redenzione operata da Gesù Cristo verrebbero trasmessi geneticamente, per via ereditaria, ad ogni uomo, per il solo criterio di condividere con il Verbo incarnato la natura umana. La figliolanza divina non è l'esito automatico garantito dalla appartenenza al genere umano.

La figliolanza divina è sempre un dono gratuito della grazia, non può prescindere dalla grazia donata gratuitamente nel battesimo e riconosciuta e accolta nella fede. Un brano di san Leone Magno, letto nella liturgia dell'Avvento, chiarisce con precisione il rapporto tra l'Incarnazione e il battesimo: «Se Colui, che è il solo libero dal peccato, non avesse unito a sé la nostra natura umana, tutta quanta la natura umana sarebbe rimasta prigioniera sotto il giogo del diavolo. Noi non avremmo potuto aver parte alla vittoria gloriosa di lui se la vittoria fosse stata riportata fuori della nostra natura.

A causa di questa mirabile partecipazione alla nostra natura rifulse per noi il sacramento della rigenerazione, perché, in virtù dello stesso Spirito per opera del quale fu generato e nacque Cristo, anche noi, che siamo nati dalla concupiscenza della carne, nascessimo di nuovo di nascita spirituale».

E sant'Agostino nel De civitate Dei scrive: «La natura corrotta dal peccato genera perciò i cittadini della città terrena, mentre la grazia che libera la natura dal peccato genera i cittadini della città celeste. Perciò i primi sono chiamati vasi d'ira; gli altri sono chiamati vasi di misericordia. Se ne ha un simbolo anche nei due figli di Abramo. L'uno, Ismaele, nacque secondo la carne dalla schiava Agar, l'altro, Isacco, nacque secondo la promessa da Sara, che era libera. Entrambi sono stirpe di Abramo, ma un rapporto puramente naturale ha fatto nascere il primo, invece la promessa che è segno della grazia ha donato il secondo. Nel primo caso si rivela un comportamento umano, nel secondo caso si rivela la grazia di Dio».

Basta tornare al Nuovo Testamento e al modo in cui san Giovanni, il discepolo prediletto, descrive la figliolanza divina, per mostrare come tale figliolanza non è un immediato possesso naturale ma sempre un dono gratuito che il Signore elargisce a chi sceglie, e che si accoglie nella fede («Non voi avete scelto me, ma io ho scelto voi», Gv 15,16).

Sono soprattutto tre i testi di Giovanni che trattano della figliolanza divina promessa da Gesù e sperimentata dal cristiano: un versetto del Prologo (Gv I, 12), che parla del nostro potere di diventare figli di Dio; la prima parte del dialogo con Nicodemo (Gv 3, 1-8), che descrive tutto ciò che compie lo Spirito Santo in noi per realizzare la nostra generazione e la nostra nascita come figli di Dio; infine due passi della prima lettera (1 Gv 3, 6-9; 5, 18-19) dove vengono descritti gli effetti spirituali e morali nella vita concreta del cristiano, quando egli vive la sua divina figliolanza e diventa così "impeccabile". Per l'argomento che stiamo trattando, sono significativi soprattutto i primi due passi sopra citati.

Nel Prologo (Gv 1, 12-14), Giovanni scrive: «A quanti lo accolsero, diede il potere di divenire figli di Dio, a coloro [cioè] che credono nel suo nome: [il nome di colui che] da Dio è stato generato (έγεννήθη). Sì, la Parola si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi, e noi abbiamo contemplato la sua gloria, la gloria dell'Unigenito (μονογενοΰς) venuto da presso il Padre (παρά πατρός) pieno della grazia della verità».

È importante notare in questo brano del Prologo innanzitutto l'uso del verbo divenire (γίνεδθαι), sul quale i commentari non dicono quasi niente. Proprio questa scelta linguistica testimonia come intende Giovanni la figliolanza divina: figli di Dio si diventa, non si è ab initio solo in virtù della propria natura umana. La figliolanza divina non è un dato acquisito a priori, un possesso statico, implicito nella propria nascita naturale. Si diventa figli di Dio - come Gesù dice nel dialogo con Nicodemo - quando si è «generati dall'alto», cioè quando si è «generati dall'acqua e dallo Spirito». E ciò accade quando un avvenimento, il battesimo, ci introduce in una nuova dinamica dell'essere, mette un dinamismo nuovo nella nostra esistenza.

Questo tesoro, riconosciuto e accolto nella fede, fa di tutta la vita un cammino, un progredire, sempre preceduti e accompagnati da quei fatti di grazia operati dal Signore che tornano a sorprendere il cuore nutrendo così la fede. Insomma la figliolanza divina non è un marchio metafisico impresso nel destino di ognuno, lo sappia o non lo sappia, lo voglia o non lo voglia. È piuttosto un dono che si riconosce e si accoglie nella fede. Che interpella la nostra libertà, tanto che Dio stesso, secondo l'immagine stupenda di san Bernardo, ha atteso con trepidazione il sì di Maria.

L'altro termine chiave del brano del Prologo è la parola potere (έξονδίαν), che indica anch'essa non un possesso, ma un dinamismo. Non si diventa figli di Dio in maniera automatica, per legge di natura, ma per la fede. È la fede il potere dato per diventare figli di Dio: non una fede vaga e anonima, mero anelito religioso, comune almeno in alcune occasioni della vita a tutti gli uomini, ma la fede di chi «crede nel Suo nome».

Un'espressione che troviamo più volte in Giovanni: la vera fede consiste nel «credere nel nome del Figlio unigenito di Dio» (3, 18). Ne segue che la nostra figliolanza non può che essere una partecipazione alla figliolanza di Colui che si è manifestato tra noi come «il Figlio unigenito venuto da presso il Padre». Questo potere di diventare figli di Dio, questa fede sorge, rimane e cresce come accadde alla fede dei primi discepoli. Proprio ciò che è accaduto ai primi discepoli resta per sempre l'esperienza paradigmatica di come si diventa figli di Dio. Perché la stessa Presenza, che ha suscitato la fede nei primi che ha scelto, continua ad operare nel presente, così da stupire e destare la fede anche oggi nel cuore degli uomini che il Padre gli da (cfr. Gv 17, 2).

Il dialogo con Nicodemo costituisce il brano più lungo ed esplicito per il tema della figliolanza divina. Dei vari aspetti qui toccati, occorre sottolineare soprattutto l'insistenza sull'azione dello Spirito Santo nella esperienza della figliolanza divina. Gesù spiega a Nicodemo: «Se uno non è stato generato dall'acqua e dallo Spinto non può entrare nel regno di Dio» (Gv 3, 5). Quindi la via d'accesso al diventare «figli nel Figlio» è possibile solo a chi viene generato dallo Spirito nella fede e nel battesimo (indicato da Gesù in questo passo col segno dell'acqua).

Anche le teorie che riducono la figliolanza divina a un automatismo, quasi fosse un marchio di dominio acquisito impresso da Dio su ogni uomo, indicano spesso lo Spirito quale artefice di questa operazione. Secondo queste teorie gli uomini sarebbero per natura titolari della figliolanza divina, a prescindere dalla fede, dal battesimo e dal proprio libero acconsentire, proprio perché lo Spirito, nella sua illimitata libertà, applica ad ognuno, lo sappia o no, lo voglia o no, i frutti della redenzione.

Proprio il Vangelo di Giovanni testimonia che lo Spirito Santo non è un'entità separata e indipendente, che opera nell'intimo segreto delle coscienze con un'azione parallela all'azione di Gesù Cristo Figlio di Dio.

Tutta la missione dello Spirito Santo nella storia della salvezza può essere espressa con le parole di san Basilio, lette nella liturgia del tempo di Natale: «Come il Padre si rende visibile nel Figlio, così il Figlio si rende presente nello Spirito». E Basilio aggiunge che ciò lo si apprende da quanto Gesù ha detto alla samaritana: «"Bisogna adorare nello Spirito e nella Verità" (Gv 4,23) chiaramente definendo se stesso "la Verità"».

Basta leggere le promesse che Gesù stesso fa ai discepoli riguardo al Paraclito nel Vangelo di Giovanni. Lo Spirito «insegnerà», facendo ricordare quello che ha detto Gesù (14, 26); «renderà testimonianza» a Gesù (15, 26); «non parlerà da se stesso, ma dirà quello che ascolta» (16, 13). Lo Spirito Santo non è dunque un'entità arbitraria: egli possiede una chiara benché misteriosa intenzionalità («Lo Spirito ispira dove vuole», Gv 3, 8), opera certe cose, che sono sempre in relazione con la missione e l'insegnamento di Gesù. Siccome lo Spirito è «lo Spirito della verità» (15, 26; 16, 13), quale altra verità potrebbe farci conoscere lo Spirito se non la verità di colui che ha detto: «io sono la verità» (14, 6)? Lo Spirito guida il cristiano verso Gesù Cristo, verso la verità intera (16, 13); lo aiuta a scoprire sempre meglio il mistero di Gesù Cristo e a rimanere nella sua memoria.

C'è un brano della costituzione dogmatica Lumen gentium che può riassumere quanto abbiamo detto: «Cristo, infatti, innalzato da terra, attirò tutti a sé; risorto dai morti, inviò sui discepoli il suo Spirito vivificante e per mezzo di lui costituì il suo corpo, la Chiesa, quale universale sacramento di salvezza; assiso alla destra del Padre, opera incessantemente nel mondo per condurre gli uomini alla Chiesa e per mezzo di essa unirli più intimamente a sé e renderli partecipi della sua vita gloriosa nutrendoli con il suo Corpo e il suo Sangue» (n. 48).

Se figli di Dio non si nasce, ma si diventa, va da sé che ciò non è mai spunto di presunzione e di condanna per gli altri. Come ha ricordato Giovanni Paolo II nell'enciclica Redemptoris missio «la fede che abbiamo ricevuto» è un «dono dall'Alto senza nostro merito».

L'esperienza della figliolanza è invece tutta piena solo di gratitudine, per il dono immeritato, e di speranza nei confronti di tutti. Per cui non si tratta di giudicare i miscredenti, i lontani, o addirittura quelli che possono sembrare avversari. Anche perché ognuno di loro può, quando meno se lo aspetta, incontrare il fatto cristiano.

Come scriveva Charles Péguy, commentando un verso di Corneille, «Dio tocca i cuori quando meno ce lo si aspetta. È la formula stessa del morso, è la formula dell'attacco, del colpo, della penetrazione della grazia. Ma essa implica anche che colui che vi pensa, che ha l'abitudine di pensarci, che è ricoperto dallo strato dell'abitudine è anche colui che si espone di meno e per così dire da meno possibilità alla presa». Questa gratitudine non giudica nessuno, ma è magnanima e misericordiosa anche davanti all'errore e al peccato. Come accadde a san Francesco Saverio, il discepolo prediletto che Ignazio di Loyola aveva mandato ad evangelizzare il lontano Oriente. Davanti ai peccati anche turpi dei pagani, Francesco Saverio si stupiva che senza la fede, i sacramenti e la preghiera filiale non ne facessero di più gravi.

Come scrive in una lettera inviata ai suoi compagni da Cochin, nel 1552: «Io non mi meraviglio per i peccati che esistono fra bonzi e bonze, quantunque ve ne siano in grande quantità. Anzi, mi meraviglio che non ne facciano più di quelli che fanno... ».

Il corpo glorioso: uno scandalo per greci e sadducei. di Bruno Maggioni

Isadducei respingevano la fede nella risurrezione: la loro dottrina – come dice Giuseppe Flavio – fa morire le anime con i corpi. Naturalmente i sadducei sostenevano la loro opinione in base alle Scritture e citavano testi come, per esempio, Gen 3,19: «Sei polvere e in polvere ritornerai». Il pensiero rabbinico­farisaico affermava invece la risurrezione. Questa fede comune a tutti i farisei non escludeva però l’esistenza di concezioni differenti e, quindi, di possibilità di dibattito fra le diverse scuole teologiche: ad esempio, se a risorgere sarebbero stati solo i giusti, o solo tutti i giudei, o tutti gli uomini. È certo che alcune correnti concepivano la risurrezione in forme molto materiali.
Anche i farisei, ovviamente, si riferivano alle Scritture, non solo per documentare la fede nella risurrezione, ma anche per precisare le sue modalità: i testi più importanti erano, per esempio, Ez 37,8 e Gb 10,11.
Si scopre nella risposta di Gesù (12,18-27) un metodo originale, diverso da quello rabbinico e sadduceo, di leggere le Scritture: potremmo parlare di una lettura 'globale', che non si perde in virtuosismi esegetici e che sa invece intuire il punto fondamentale. In altri termini, Gesù non cerca testi che parlano della risurrezione, prestandosi in tal modo alle contestazioni dei sadducei e, comunque, riducendo la risurrezione a una questione esegetica e a una disputa di scuola. Egli cita, sorprendentemente, Es 3, che è un testo su Dio e non sulla risurrezione. Ma sta proprio in questo l’originalità di Gesù: egli si rifà al centro delle Scritture, cioè alla rivelazione del Dio vivente, e riconduce il dibattito all’amore di Dio e alla sua fedeltà: se Dio ama l’uomo, non può abbandonarlo in potere della morte. Rispetto all’esegesi rabbinica il modo di procedere di Gesù è indubbiamente originale. Tuttavia è profondamente coerente col modo con cui il popolo di Israele ha maturato la propria fede, cioè riflettendo costantemente sul Dio vivente e deducendone – via via sollecitato dall’esperienza – le conseguenze.
Fin qui la risposta di Gesù è contro i sadducei, che giudicavano la risurrezione una superstizione popolare, estranea alle Scritture: in realtà, afferma Gesù, essa deriva dal centro delle Scritture. Ma la risposta di Gesù polemizza anche contro i farisei, che concepivano la risurrezione in termini superstiziosi, materiali, prestandosi in tal modo all’ironia degli spiriti più liberali, ironia di cui la nostra pericope offre un ottimo esempio: una donna ebbe sette mariti, nella risurrezione di chi sarà moglie? Risponde il Cristo: la vita dei morti sfugge agli schemi di questo mondo presente, è una vita diversa perché divina, eterna; verrebbe da paragonarla a quella degli angeli.
Dopo aver visto la controversia nel contesto giudaico (sostanzialmente corrispondente alla situazione di Gesù e
al testo di Marco), vediamola ora nel contesto ellenistico, corrispondente, ci sembra, alla redazione lucana (20,27­40). Dal punto di vista letterario si notano nella nostra pericope lucana due parti ben distinte. Fino a 20,27-34 Luca riproduce fedelmente Mc 12,18-23: le modifiche sono solo stilistiche. Invece la risposta di Gesù (20,34b-38) subisce notevoli modifiche: Luca ha voluto adattare – e c’è riuscito molto abilmente – la risposta di Gesù a un ambiente ellenistico.
Il mondo ellenistico non accettava la risurrezione del corpo: il corpo è prigioniero dello spirito e la salvezza consiste, appunto, nel liberarsene. II pensiero ellenistico è fondamentalmente dualista, e parla volentieri di immortalità, ma non di risurrezione. Ciò rappresenta una prima e sostanziale differenza rispetto al pensiero giudaico.
Inoltre la riflessione greca cerca la ragione della immortalità nell’uomo stesso: nell’uomo c’è una componente spirituale, incorruttibile, per sua natura capace di sopravvivere al
corpo corruttibile.
Questo costituisce una seconda differenza rispetto al pensiero giudaico, che ama invece cercare la ragione della
vita nella fedeltà di Dio.
Di fronte a questa mentalità ellenistica, che rischiava di tradire nel profondo l’insegnamento di Gesù, Luca si preoccupa, anzitutto, di togliere un possibile equivoco: spiega che risurrezione non significa in alcun modo prolungamento della esistenza presente.
La risurrezione non è la rianimazione di un cadavere. È un salto qualitativo. Ecco perché egli distingue con cura «questo mondo» e «l’altro mondo» (v. 34). I greci hanno profondamente ragione di mostrarsi insoddisfatti di questa esistenza e dei suoi limiti: un ritorno ad essa o un suo prolungamento non avrebbe alcun senso. Dunque si deve parlare di una nuova esistenza. Ma in questa nuova esistenza è tutto l’uomo che entra, non solo lo spirito. Luca parla di risurrezione, non di immortalità.
Alla cultura dei greci Luca preferisce la solidità delle parole di Gesù. Per di più Luca non cerca la ragione della risurrezione nelle componenti dell’uomo, ma, fedele anche in questo alla tradizione biblica, egli la fa risalire alla fede nel Dio vivente. La promessa di Dio ci assicura che tutta la realtà della persona entrerà in una vita nuova, anche se tale realtà verrà trasformata.
Riflessioni sulla risurrezione di Gesù e sulla nostra sono disseminate in tutto l’epistolario paolino. È un tema centrale, insieme a quello della Croce. Ma la riflessione più completa possiamo trovarla nel discorso rivolto ai Corinti (1Cor 15). Il discorso di Paolo ruota attorno a una tesi proclamata da un gruppo della comunità: «Non esiste risurrezione dei morti». Occorre definire con più precisione questa tesi, cosa molto importante per la comprensione dell’intero capitolo. Si può pensare (è la spiegazione più nota) che il gruppo di
Corinto ragionasse secondo categorie greche fondamentalmente dualistiche. In effetti la mentalità greca, come abbiamo già visto a proposito di Luca, comportava due rischi. Anzitutto, quello di ridurre la risurrezione alla dottrina dell’immortalità dell’anima: nella concezione familiare ai greci la salvezza era vista in termini di liberazione dalla materia (la salvezza si raggiunge liberando lo spirito dal carcere del corpo): ma allora che senso ha la risurrezione dei corpi? In secondo luogo il rischio di ricondurre la sopravvivenza ai principi costitutivi dell’uomo (la parte più vera dell’uomo è lo spirito, e lo spirito è per natura immortale), anziché alla promessa di Dio (come avviene, appunto, nel discorso biblico, che trova la garanzia della sopravvivenza dell’uomo intero nella sicurezza di un Dio che tutto ha creato per la vita). Se questo è l’errore che Paolo ha davanti, allora i punti di forza del suo discorso sono soprattutto due: l’affermazione della realtà della risurrezione e l’affermazione che tale risurrezione è dovuta alla potenza di Dio.
Ma la spiegazione che abbiamo descritto è molto probabilmente insufficiente.
Perciò diversi studiosi pensano al gruppo di Corinto come a un circolo gnosticizzante «secondo cui la risurrezione avverrebbe già (e unicamente) nell’estasi pneumatica sotto forma di comunione con Cristo» (R.Pesch). Gli gnostici, prigionieri del loro entusiasmo, credono di avere già avuto, nello Spirito, la trasformazione definitiva in uomini spirituali; credono che la risurrezione sia già avvenuta.
Siamo convinti che la posizione del gruppo di Corinto fosse marcata anche (ma non solo) da questo entusiasmo eccessivo per il presente della salvezza.
Il discorso di Paolo combatte la tendenza dualista (che parla di immortalità e nega la risurrezione), la tendenza gnostica (che annulla il futuro nel presente) e la tendenza dell’apocalittica giudaica popolare (che concepisce la risurrezione in termini di esistenza terrestre).


© Copyright Avvenire 3 aprile 2010

Gesù secondo gli storici ebrei del XX secolo. Il fariseo che ha cambiato il mondo

di Cristiana Dobner

Il volto di Gesù di Nazaret continua a interpellare in ogni secolo e mai si esaurisce la possibilità di descriverlo, perché quella di catturarlo sarebbe già un passo falso.
Solo una persona libera da pregiudizi e seria nel "mestiere" dello storico poteva donare una sorta di summa enciclopedica, destinata a diventare un pilastro negli studi concernenti la figura storica di Gesù. Si tratta di Jésus sous la plume des historiens juifs du XXème siècle (Paris, Les Editions du Cerf, 2009, pagine 412, euro 33) di Dan Jaffé, che insegna Storia delle relazioni tra giudaismo rabbinico e cristianesimo primitivo all'università Bar-Ilan di Tel Aviv e ha all'attivo importanti ricerche nel suo campo; in italiano è stata tradotta una sua monografia Il Talmud e le origini ebraiche del cristianesimo.
Le pagine raccolte nel volume, con la stimolante prefazione di Daniel Marguerat, presentano una ricerca appassionata ma priva di emotività, degna di uno storico, perseverante nel tempo e che sfocia in un'uscita dall'universo teologico e confessionale per offrire "ri-umanizzato" il personaggio Gesù, con estremo rigore metodologico, bibliografico e una ricchezza nelle note di indicazioni, suggerimenti e critiche.
La stessa quarta di copertina introduce in quest'opera poderosa, in cui gli interrogativi giustamente pullulano: "Un sionista militante e un ebreo liberale possono delineare il medesimo ritratto di Gesù? Quali mutamenti si possono rilevare, nella critica storica ebraica, nel corso del XX secolo? Si è pensato Gesù nello stesso modo, prima e dopo la Shoah? La promulgazione dello Stato di Israele ha avuto un'incidenza sulle rappresentazioni ebraiche dell'uomo Gesù?".
L'impresa, considerata come progetto, appare di un'ampiezza da vertigini: prendere in considerazione gli studiosi storici ebrei che hanno avuto come oggetto la figura di Gesù, in un arco di tempo che parte dalla fine del xix secolo e giunge alla sua conclusione. Il ventaglio degli autori è esauriente e ciascuno studioso viene esaminato dettagliatamente con obiettività, riservando la critica a un paragrafo specifico, così da non indurre il lettore a pregiudizi nelle finalità, metodi e approcci storiografici.
Imponente l'elenco degli autori presi in considerazione, tale da far comprendere la mole di lavoro e di studio delle fonti che Jaffé si è sobbarcato per poter redigere la sua indagine. Vengono analizzati gli studi di tutti coloro che si sono collocati di fronte alla problematica del Gesù della storia, inserendo la sua figura nel mondo ebraico del suo tempo. Questo, senza dubbio, diventa l'aspetto più rilevante del loro contributo. Sotteso rimane sempre l'interrogativo: quale l'influenza delle concezioni o posizioni intellettuali proprie della loro epoca su ciascuno degli studiosi? "L'itinerario degli storici ebrei segue una progressione che è più metodologica che ideologica. Non rivela un'intenzione preconcetta, la differenza riguarda lo sviluppo di un'analisi più esigente e più serrata dei dati" (p. 352).
Da tutto l'insieme, emerge quindi una conoscenza più esatta del Gesù storico, anche per quanto concerne una questione dibattuta, poiché la maggioranza considera Gesù appartenente al mondo farisaico. L'immaginario cristiano però, nei secoli, si è formato un pregiudizio grave relativamente ai farisei, una sorta di "diffamazione". Per questo motivo, "fare di Gesù un fariseo, cosa che corrisponde di fatto alla realtà storica, permette allora di rivalorizzare l'immagine e lo statuto dei farisei così a lungo detestati e vituperati" (p. 351).
Pregnante e lampante è poi la distinzione fra ideologia e confessionalità e il recupero identitario che potrebbe alterare lo sguardo dello storico.
Nella conclusione ai nove densissimi capitoli, è l'autore stesso a indicare gli obiettivi che lo hanno guidato e che, indubbiamente, è riuscito a centrare, servendosi degli strumenti della letteratura talmudica e midrashica e unendovi le fonti dei testi classici, con uno studio storiografico e una ricerca analitica cristallini: una migliore comprensione dell'ambiente ebraico da cui Gesù proviene; una conoscenza più fine delle radici ebraiche degli insegnamenti, fatti e gesti di Gesù; una lettura dei passi neotestamentari relativi a Gesù illuminati dalle fonti del giudaismo del Secondo tempio, come pure dalle fonti più tarde del Talmud e del Midrash; una rilettura delle pratiche rituali di Gesù alla luce della halakha protorabbinica dei testi tannaitici, Mishna, Baraita, Tosefta o Midrashe Halakha.
Fino alla citazione di Scholem, lasciata al lettore come chiusura dell'opera: "Certo, la storia può sembrare, in fondo, un'illusione, ma è un'illusione senza la quale, nella realtà temporale, nessuna intuizione dell'essenza delle cose è possibile".


(©L'Osservatore Romano - 29-30 marzo 2010)

L'inferno secondo il Nuovo Testamento. Il luogo del fuoco gelido

di Inos Biffi

Se esista o no l'inferno non lo dobbiamo chiedere ai filosofi; e neppure ai teologi, siano pure i più blasonati: il compito dei teologi non è quello di determinare i contenuti del Credo, ma quello di illustrarli in connessione con tutto il mistero cristiano. Dobbiamo invece interrogare la fede della Chiesa, che non ha inventato l'inferno, ma lo afferma, semplicemente perché ha ascoltato la parola di Cristo sul "fuoco eterno" (Matteo, 25, 41) e sulla "risurrezione di condanna" (Giovanni, 5, 29) per quelli che fecero il male.
Il concilio di Trento, nell'ottavo canone sulla giustificazione, afferma il valore salutare della "paura dell'inferno, grazie alla quale, dolendoci dei peccati, ci rifugiamo nella misericordia di Dio e ci asteniamo dal male".
Nel Credo di Paolo vi si professa che: "Gesù Cristo è salito al Cielo, e verrà nuovamente, nella gloria, per giudicare i vivi e i morti, ciascuno secondo i propri meriti; sicché andranno alla vita eterna coloro che hanno risposto all'Amore e alla Misericordia di Dio, e andranno nel fuoco inestinguibile coloro che fino all'ultimo vi hanno opposto il loro rifiuto".
Mentre il Catechismo della Chiesa Cattolica afferma: "Gesù parla ripetutamente della "Geenna", del "fuoco inestinguibile", che è riservato a chi sino alla fine della vita rifiuta di credere e di convertirsi, e dove possono perire sia l'anima che il corpo". Egli "annunzia con parole severe che "manderà i suoi angeli, i quali raccoglieranno... tutti gli operatori di iniquità e li getteranno nella fornace ardente", e che pronunzierà la condanna: "Via, lontano da me, maledetti, nel fuoco eterno!"" (n. 1034).
E sempre il Catechismo della Chiesa Cattolica: "La Chiesa nel suo insegnamento afferma l'esistenza dell'inferno e la sua eternità. Le anime di coloro che muoiono in stato di peccato mortale, dopo la morte discendono immediatamente negli inferi, dove subiscono le pene dell'inferno, "il fuoco eterno"", dove "la pena principale dell'inferno consiste nella separazione eterna da Dio, nel quale soltanto l'uomo può avere la vita e la felicità per le quali è stato creato e alle quali aspira" (ibidem, n. 1035).
Chi contestasse l'esistenza dell'inferno come reale possibilità di chi abbia rigettato fino all'ultimo la grazia della salvezza, negherebbe una verità del Credo cristiano. Ma per comprendere, nella misura del possibile, il senso e in certo modo la ragione dell'inferno - che è una verità di fede - importa coglierlo anzitutto nella sua disposizione originaria.
Secondo le parole di Cristo, il "fuoco eterno" è stato "preparato per il diavolo e per i suoi angeli" (Matteo, 25, 41), i quali, "creati da Dio naturalmente buoni", si sono "da se stessi trasformati in malvagi", per avere, "con libera scelta, radicalmente e irrevocabilmente, rifiutato Dio e il suo Regno" (Catechismo della Chiesa Cattolica, nn. 391-392).
Noi constatiamo che, quando appare l'uomo, è già presente "il serpente antico, colui che è chiamato diavolo"; già opera il Satana che seduce (Apocalisse, 12, 9), l'"Anticristo" (1 Giovanni, 2, 18). "Il diavolo è peccatore fin dal principio" (1 Giovanni, 3, 8): Gesù lo definisce, infatti, "omicida fin da principio", radicalmente "menzognero e padre della menzogna" (Giovanni, 8, 44).
E quale fu il peccato di tal "seduttore e anticristo", per il quale originariamente venne disposto il "fuoco eterno"? Fu, esattamente, quello di aver obiettato all'eterno "mistero di Dio, che è Cristo" (Colossesi, 2, 2), di averlo respinto.
Non dovrebbe stupire, se pensiamo che Dio abbia creato gli angeli a servizio del Figlio suo, e che la loro bontà dipenda tutta dalla loro gioiosa accoglienza di Gesù, mentre la loro dannazione dalla loro ribellione e dal loro sdegnato rifiuto.
Ce ne convinciamo seguendo la vita di Cristo, intorno al quale operano sia gli angeli sia i de- moni.
Intorno a Gesù si aggira anche il demonio, che lo tenta, per distoglierlo dal compimento della volontà del Padre; diffonde la diffidenza e induce al distacco da lui (Giovanni, 6, 69); prende possesso di chi lo tradisce (Giovanni, 13, 27); contende a Cristo la signoria e la regalità, però rimanendone sconfitto.
È su Gesù che si discrimina la rettitudine o la perversione sia dell'angelo sia dell'uomo. Anzi, ogni peccato obiettivamente e storicamente è un rifiuto di Cristo, nel quale si risolve la predestinazione di Dio.
Abbiamo sentito che Gesù definisce il demonio omicida e menzognero fin dal principio, colui quindi che si oppone alla Vita e alla Verità, ossia al Verbo incarnato, che dice di sé: "Io sono la Verità e la Vita" (Giovanni, 14, 6).
Se torniamo alle origini, vediamo con chiarezza che tutta la trama del Serpente, invidioso dell'uomo, è quella di attrarlo da subito nella sua stessa spirale di gelosia, di sospetto, e di disubbidienza; quella di rendere l'uomo partecipe della sua stessa ribellione, e così deturpare in lui l'immagine di Cristo secondo la quale l'uomo era stato concepito, in modo da renderlo irriconoscibile dal Padre. L'inferno si configura, di conseguenza, come la lontananza da Cristo, che non può trattenere vicino a sé quelli che, consapevolmente, in piena e definitiva libertà, hanno scelto di essere dissimili da lui. Quanti non presentano i tratti del Signore, e ne sono discordanti, si sentono fatalmente dire: "Via, lontano da me" (Matteo, 25, 41); "Voi non so di dove siete: Allontanatevi da me, voi tutti operatori di ingiustizia" (Luca, 13, 27). L'inferno è il destino irreversibile, ormai fissato di là dal tempo, di una umanità di cui Dio non si compiace.
All'inferno non c'è la grazia di Cristo e manca la sua gloria; esso è il "luogo" della permanente e impenitente deprecazione dell'amore misericordioso, che fu addirittura il motivo della creazione dell'uomo.
Non è quindi che la grazia e il perdono non siano stati offerti o, per contingenti circostanze, non si siano potuti incontrare. È che l'uomo - chiamato all'esistenza "per mezzo di Cristo", "in lui" e "in vista di lui" (cfr. Colossesi, 1, 16-17) - li ha ostinatamente respinti sino all'ultimo, con tutte le forze della sua libertà, provando fastidio per Gesù Cristo.
Il tormento di quanti dimorano all'inferno - siano essi i demoni o gli uomini irredenti che li hanno imitati - proviene proprio dal fatto che vi è assente Gesù Risorto redentore, sorgente inesausta della beatitudine, e che non vi si gode la comunione dei santi. L'inferno è il non esserci di Cristo e della Chiesa.
Al contrario, l'inferno è una comunione di dannati, che in realtà non potrebbe essere una comunione, ma solo un implacabile reciproco dissidio e una invincibile e perpetua discordia. All'inferno non è possibile l'esperienza dell'amore. Non ci si ama, ma non ci si può che odiare a vicenda.
Resta a confortarci la sicurezza che il Signore di questo mondo non è il demonio, ma Gesù Risorto, che lo ha definitivamente giudicato e vinto, e che l'amore misericordioso e onnipotente si insinua in ogni frammento di tempo, anche in quello estremo.


(©L'Osservatore Romano - 27 marzo 2010)

Atene. Dove la fede incontrò la piazza

Ad Atene Paolo giunse per la prima volta verso l’estate del 50, giusto nella metà esatta del secolo I, a vent’anni dalla morte di Gesù. Egli proveniva dalla Macedonia e aveva già soggiornato in varie città ( Filippi, Tessalonica, Berea), suscitandovi piccole comunità cristiane, frutto del suo primo viaggio missionario in Europa. Ma una città come Atene, con il suo glorioso passato politico e culturale, doveva costituire qualcosa di nuovo e affascinante.
Qui Paolo stabilì due punti di attività missionaria: la sinagoga e l’agorà ( la « pubblica piazza » ). L’Areòpago era fuori dalle sue intenzioni, e l’intervento al suo interno fu occasionale. Egli infatti mirava di preferenza a un contatto non tanto selettivo quanto di tipo generale e per così dire misto, come risulterà soprattutto a Corinto. Nella sinagoga, che offriva un’ audience più ristretta, poteva rivolgersi in modo mirato agli Ebrei e ai « pagani credenti in Dio » , cioè a coloro che erano idealmente vicini al giudaismo ( cf. At 17,17a); qui era in un certo senso a casa propria. Nell’agorà, invece, per natura sua più laica e aperta, poteva parlare con chiunque incontrasse.
Essa infatti è il luogo del libero scambio, dove più evidente appare il gioco della democrazia; non per nulla nelle città dell’antico Vicino Oriente, anteriori all’ellenismo, manca uno spazio del genere « in mezzo alla città » , ritenuto inutile o addirittura pericoloso.
Il discorso all’Areòpago ( At 17,22- 31) secondo gli Atti degli Apostoli è il pezzo forte dell’intervento di Paolo ad Atene, e si può suddividere in un esordio ( vv. 22-
23), nell’annuncio dell’unico Dio con i rischi della sua ricerca ( vv. 24- 29) e nel tipico annuncio cristiano ( vv. 30- 31).
Vogliamo chiederci qui quale sia, in generale, il suo significato per l’incontro tra vangelo e cultura. A questo proposito, possiamo individuare tre aspetti interessanti.
L’intervento di Paolo all’Areòpago è l’unico esempio nel Nuovo Testamento di un discorso ai pagani. Va osservato che Paolo, in base al giudaismo di origine, doveva appunto considerare come « gli altri » , cioè distanti e diversi, proprio i « gentili » , quelli che oggi qualifichiamo genericamente come pagani. Anche se storicamente l’atteggiamento di Israele verso di loro può aver assunto forme di integrazione a vari livelli, restò sempre un giudizio di fondo, che li bollava come « un nulla » ( Is 40,17) o come « peccatori » ( Gal 2,15).
Ebbene, l’enorme « operazione culturale » attuata da Paolo è stata appunto quella di aprire il Dio d’Israele anche ai « gentili » e di ammetterli gratuitamente, cioè senza richiedere loro l’osservanza della legge di Mosè, ma proponendo la semplice fede nel sangue di Cristo, alla giustificazione davanti a Dio e in ultima analisi alla salvezza escatologica, sulla base non dei comandamenti formulati dal legislatore Mosè, ma delle libere promesse fatte da Dio al patriarca Abramo. Per questo Paolo si è sempre battuto: per avvicinare i lontani ( cf. Ef 2,13), per ammettere e accogliere « gli altri » , quelli che erano religiosamente bollati come esclusi, per superare quindi i molti recinti del sacro, della cultura, della razza, e persino del sesso ( cf. Gal 3,28), tutte barriere che egli sa ormai irrimediabilmente abbattute in Cristo.
Il suo discorso all’Areòpago rappresenta il momento tipico di questa « politica » . È vero che altri Giudei di ambito ellenistico operarono irenicamente nei confronti della cultura pagana: valga per tutti la figura straordinaria del filosofo- mistico Filone Alessandrino. Ma mentre Filone, pur dimostrando una conoscenza molto più ampia e approfondita della tradizione culturale greca, non rinuncia a proporre i benefici della legge mosaica, Paolo prescinde da ogni imposizione legalistica e propone semplicemente Gesù Cristo come l’unica via per giungere alla comunione con la divinità.
Il discorso di Paolo all’Areòpago ci propone poi due istanze esemplari molto concrete. La prima riguarda il contatto diretto e anche fisico con « gli altri » ,
cercandoli magari là dove essi sono e vivono, senza temere di incontrare la diversità « altrui » e di starle magari gomito a gomito, nonostante troppe volte si sia tentati dalla chiusura, dall’affermazione soltanto della « propria » diversità. La seconda istanza è un corollario della precedente: « gli altri » si incontrano veramente, non con la pretesa di strapparli alla loro cultura per imporgliene una nuova, magari antitetica, bensì adottando punti di vista della cultura altrui che possono valere come vera e propria praeparatio evangelica. La parola magica in questo senso è « inculturazione » , che fa pendant con « incarnazione » .
Nonostante tutta la buona volontà ecumenica di Paolo, egli tuttavia all’Areòpago annunziò il messaggio cristiano in alcuni suoi elementi tipici.
Certo, secondo il testo lucano, egli non parlò della croce di Cristo. Ma il suo discorso giunse a proporre la prospettiva del giudizio escatologico e, come suo corollario, il
kerygma ( o annunzio fondamentale) della risurrezione di Cristo. Ciò già poteva bastare per motivare un rifiuto, come di fatto avvenne.
Si potrebbe perciò discutere sull’eventuale necessità di cominciare il confronto con i lontani non direttamente con lo specifico
kerygma cristiano, ma con dei prolegomena ( « premesse » ) che preparino alla sua accettazione. Ma resta il fatto che Paolo non premise dibattiti filosofici, se non assumendo irenicamente la palese condivisione di alcuni punti fermi della cultura greca, che sono poi quelli da noi tradizionalmente etichettati come elementi della teologia naturale ( un esempio è la citazione del poeta Arato: « Di lui infatti anche noi siamo stirpe » , nel v. 28). Ciò che può derivarne per ogni cristiano, al di là di ogni buona volontà di dialogo, è che non si può sfuggire all’esigenza di proporre ciò che più propriamente definisce l’identità della sua fede. Bisogna prima o poi giungere a dire che, oltre ogni nesso che lega il cristiano al ricco patrimonio delle tradizioni culturali umane, c’è qualcosa di irriducibile ad esse, qualcosa che può essere e di fatto viene giudicato « scandalo e stoltezza » , di fronte a cui la sapienza del mondo viene messa in scacco ( cf. 1Cor 1,17- 25).
Certo è che una forte precomprensione religiosa non basta ad accogliere il vangelo. Gli Ateniesi vengono riconosciuti « molto timorati degli dèi » ( v. 22), però questo non solo non valse a nulla, ma costituì forse l’ostacolo maggiore alla fede. Il vangelo infatti è sempre anche una critica della religione, cioè delle inveterate categorie, individuali e sociali, secondo le quali sembrerebbe che l’accesso a Dio sia ormai fissato irrevocabilmente in figure, istituzioni e ritualità tradizionali. Il vangelo invece annuncia a sorpresa un comportamento divino che non era stato previsto e che perciò sconvolge questi schemi. Per accoglierlo occorre una disponibilità a superare se stessi, che non è sempre facile e non si può dare per scontata. Il « Dio ignoto » degli Ateniesi ( cf. v. 23) può essere metafora di tutto ciò che sta oltre ogni precomprensione e che, sulla base della rivelazione, è compito del cristiano comunicare.

L’

Areòpago di Atene, alla luce dell’esperienza di Paolo, può valere come metafora di tutte le possibili occasioni e di tutti i possibili luoghi di confronto pubblico e qualificato tra il vangelo e la cultura umana. Però, se è vero che all’Areòpago si giunge solo su invito o per un cortese trascinamento, non sempre e non a tutti è possibile accedervi. Le agorà sono invece sempre a disposizione, poiché esse sono di tutti, aperte per definizione. Se l’Areòpago richiama l’idea di un ambito riservato e in definitiva aristocratico, l’agorà propone l’idea di un ambito popolare, democratico, in cui chiunque può incontrare tutti, e al quale
nessuno è precluso. Del resto è dall’agorà che si comincia: ciò che fa audience nell’agorà finisce prima o poi per approdare anche in un areòpago. Forse non è senza significato che Paolo, mentre tace il nome di Gesù nel discorso all’Areòpago, lo pronuncia invece apertamente nelle conversazioni dell’agorà ( cf. vv. 17b- 18). Sembrerebbe che l’agorà sia più evangelica: essa ha comunque una destinazione universale, è per le folle. In fondo, la Galilea profonda era stata l’agorà di Gesù, e il sinedrio di Gerusalemme il suo areòpago, che l’ha messo a morte. Sembrerebbe perciò di dover riconoscere che il cristianesimo non può appartenere alle élites del potere, non solo di quello politico, ma neanche di quello religioso e neppure di quello culturale. Nel vangelo c’è qualcosa che non solo è irriducibile a queste strutture mondane, ma ne è anche in contrasto.
La menzione finale di Dionigi e Damaris ( v. 34), che invece di irridere Paolo ne accolsero il messaggio, ci dice almeno che l’impegno apostolico non è senza un qualche risultato. E questo ottimismo incoraggia il lettore cristiano, il quale sa che l’odierna società così frammentata nelle specializzazioni non manca di offrire nuovi areòpaghi. L’importante è di non fruire privatisticamente della propria fede, ma di esporla pur senza ostentarla, di confrontarla senza prevaricazioni, di aprirla ad apporti altrui al di là di presunzioni autonomistiche, e di offrirla con gioiosa umiltà. Questo compito per il cristiano non è secondario, ma nativo. In fondo, la comparsa di Paolo all’Areòpago era già segnata fin dalla sua vocazione sulla strada di Damasco, quando il Signore disse: « Egli è per me uno strumento eletto per portare il mio nome dinanzi ai popoli, ai re e ai figli d’Israele; e io gli mostrerò quanto dovrà soffrire per il mio nome » ( At 9,15- 16).
Secondarie sono solo le modalità. È per questo che gli Atti degli Apostoli non sono terminati. Essi continuano nella storia personale di ogni battezzato.



© Copyright Avvenire 14 marzo 2010

Quando Paolo scriveva ai Romani. Empietà dell'uomo e grazia di Dio

di Inos Biffi

Lo si proclama da ogni parte: finalmente si legge la Bibbia; la Scrittura è tornata a essere la fonte della teologia e della spiritualità cristiana; la meditazione è diventata contemplazione della Parola. Da qui il pullulare delle scuole della Parola. E questo è certamente un bene, quando significhi un'intima comunione con Colui che è predicato dalla Parola e non comporti il misconoscimento della tradizione spirituale e della letteratura cristiana, che nella Bibbia ha trovato la sua inesauribile risorsa: la Bibbia come attestazione ispirata e scritta della Rivelazione divina. Ciononostante, avviene di constatare che ci sono testi biblici raramente dimenticati, e quasi oscurati.
Si pensi, per esempio, ai testi ecclesiologici della lettera agli Efesini: su di essi si sorvola facilmente e, pure, insegnano che "la Chiesa ha la sua origine nel mistero della provvidenza e predestinazione divine", dal momento che "da sempre Dio (... la) vede davanti a sé e la vuole" (Heinrich Schlier). La Chiesa - secondo la lettera (1, 23) - è "il corpo di lui (Cristo), la pienezza di colui che è il perfetto compimento di tutte le cose", mentre più avanti nella stessa lettera Paolo afferma: "A me (...) è stata concessa questa grazia (...): illuminare tutti sulla attuazione del mistero nascosto da secoli in Dio, creatore dell'universo, affinché, per mezzo della Chiesa (dià tes ekklesìas, per ecclesiam) sia ora manifestata ai Principati e alle Potenze dei cieli la multiforme sapienza di Dio, secondo il progetto eterno (katà pròthesin ton aiònon, secundum praefinitionem saeculorum) che egli ha attuato in Cristo Gesù nostro Signore" (3, 8-11). In un terzo versetto (21) si legge: "A (Dio) la gloria nella Chiesa e in Cristo Gesù per tutte le generazioni e per sempre".
Non è però sul sorvolo di questi testi ecclesiologici che qui intendo fermare l'attenzione, ma su quello del primo capitolo della lettera ai Romani, che oggi sarebbe attuale rileggere e richiamare, ed esattamente là dove Paolo parla dell' "ira di Dio" "contro ogni empietà e ogni ingiustizia di uomini che soffocano la verità nell'ingiustizia" (v. 18): uomini, ossia i pagani, che si sono rifiutati di riconoscere e di contemplare le perfezioni di Dio palesi nelle opere da lui compiute, e quindi "non lo hanno glorificato né ringraziato come Dio" (v. 21).
Al contrario, presi dai loro ragionamenti vaneggianti, ottenebrati nella loro "mente ottusa" e divenuti stolti - a dispetto della loro pretesa sapienza - essi "hanno cambiato la gloria dell'incorruttibile Dio con l'immagine e la figura dell'uomo corruttibile, di uccelli, di quadrupedi e di rettili" (v. 23). Un antecedente, verrebbe da dire, di quegli atteggiamenti aberranti dei nostri giorni, che trepidano magari per la vita dei cardellini, e sono invece favorevoli alla eliminazione dei bambini nel grembo materno.
Ed ecco, secondo l'Apostolo, il contrappasso di quel rifiuto di dare gloria e di rendere grazie a Dio: "Perciò Dio li ha abbandonati all'impurità secondo i desideri del loro cuore, tanto da disonorare fra loro i propri corpi, poiché hanno cambiato la verità di Dio con la menzogna e hanno adorato e servito le creature anziché il Creatore" (vv. 24-25).
Paolo si sofferma a precisare ulteriormente la forma di questa "impurità" e di questo disonore riflesso nell'uomo come conseguenza del suo rifiuto di onorare Dio: "Per questo - scrive - Dio li ha abbandonati a passioni infami; le loro femmine hanno cambiato i rapporti naturali in quelli contro natura. Similmente anche i maschi, lasciando il rapporto naturale con la femmina, si sono accesi di desiderio gli uni per gli altri, commettendo atti ignominiosi maschi con maschi, ricevendo così in se stessi la retribuzione dovuta al loro traviamento" (vv. 26-27).
La convinzione e l'insegnamento di Paolo sono chiari: il comportamento omosessuale è variamente definito: cedimento a "passioni infami"; ignominioso; "rapporto contro natura"; reciproco disonore; manifestazione di una menzogna e di un'inversione della verità; cambiamento che rivela nella condotta una punizione corrispondente e coerente con un traviamento teologico. Osserva ancora Schlier: "Nella motivazione specificamente teologica del suo rigetto delle perversioni sessuali Paolo non ha predecessori di sorta".
Gli accenti di Paolo nel dichiarare la condanna divina nei confronti dei rapporti omosessuali non potrebbero essere più forti. E, appartenendo questa valutazione, e questa condanna, all'immutabile Parola di Dio - non soggetta a oscillazioni culturali o mobilità di gusti - chi accolga tale Parola non può ovviamente né metterle in dubbio né proporne modifiche. Tale giudizio e tale disapprovazione fanno parte della fede cristiana, anzi della legge "naturale", visto che Paolo si riferisce alla "natura", e distingue tra "rapporti naturali" riconosciuti da Dio e "rapporti contro natura", da lui invece disapprovati e sanzionati, od oggetto della sua "ira".
Da questo, tuttavia, non deriva per nulla un'omofobia, avversa o irridente nei confronti delle singole persone; e neppure l'indisponibilità a considerare con rispetto, discrezione e saggia comprensione le concrete e varie situazioni, spesso dolorose e complesse. Conseguono, però, con lampante evidenza, e in rigorosa sintonia con la Rivelazione, una netta dottrina e un incontestabile giudizio. Secondo la Parola di Dio, l'inversione dei "rapporti naturali" (v. 26) è un comportamento "ignominioso", esito di un cuore ottenebrato, di una "intelligenza depravata" (v. 28) ossia del vaneggiamento di una ragione diventata insipiente con la sua idolatria: un comportamento interpretato come castigo del "disprezzo della conoscenza di Dio", e assolutamente difforme dal "giudizio di Dio" (v. 32) e dal disegno originario del Creatore, che "creò l'uomo a sua immagine, a immagine di Dio lo creò: maschio e femmina li creò" (Genesi, 1, 27). Nulla dovrebbe annebbiare o attenuare nella coscienza cristiana questo "giudizio di Dio". Un simile annebbiamento e una simile attenuazione rappresenterebbero una distorsione destinata a colpire l'uomo nella radicale identità.
La via di soluzione, in qualsiasi circostanza, è quella stessa indicata da Paolo, cioè la via della fede e della grazia, che, risanando la ragione, la riportano a ritrovare Dio nelle creature, a onorarlo, a dargli gloria, a rendergli grazie, e a comprendere quello che è secondo e contro "natura". È come dire che nessun'altra strada è percorribile, se non quella del Vangelo, il cui annunzio, di là da ogni reazione o incomprensione della sapienza, come afferma Paolo, diventata stolta, è la missione incessante della Chiesa.


(©L'Osservatore Romano - 14 marzo 2010)

Ma l’altro figliol fu «prodigo»? È motivato il rancore del fratello «virtuoso» per le feste del padre dopo il ritorno di quello smarrit

DI E NZO B IANCHI
I
l padre accoglie la confessione sincera del figlio minore torna­to a casa, una confessione solo ora divenuta sincera, non più inte­ressata: «Ho peccato contro il cielo e contro di te, non sono degno di essere chiamato figlio». Quella fu­ga, quella lontananza è stata rottu­ra, rifiuto di un rapporto di vita con la paternità, una rottura di quel legame che nasce dell’acco­glienza del dono della vita. Ma il padre non fa rimproveri, non re­crimina sul passato, non pone al figlio alcuna condizione, non gli lascia pronunciare le parole che il figlio aveva preparato: «Trattami come uno dei tuoi salariati!». Que­ste parole di scambio non sono dette, non sono poste davanti al Padre. «Fammi ritornare ed io ri­tornerò », cioè «Convertimi ed io mi convertirò!». Queste parole del profeta Geremia sono ormai com­prese nella verità assoluta dal fi­glio. Il padre con il suo amore pre­veniente ha attirato a sé il figlio, il cui ritorno era andare verso chi lo attirava e lo chiamava, proprio co­me Dio aveva fatto con l’uomo A­damo dopo il peccato: «Dove sei?
Adamo, dove sei? Figlio dove sei?».
Inizia allora la festa: un peccatore è ritornato, un morto è risuscitato.
La casa è sempre rimasta aperta, il figlio deve lasciarsi amare dal pa­dre. Sì, è più importante capire che
Dio ci ama che capire che noi dob­biamo amare Dio. Nella sua predi­cazione e nel suo agire, Gesù ha detto molto di più su Dio che ci a­ma che non sul nostro dovere di a­mare Dio. È significativo: può a­mare Dio colui che ha conosciuto che da Dio è stato amato prima e di amore preveniente. Capiamo le parole di Giovanni: «Chi non ama, non ha conosciuto Dio, perché Dio è amore» (1Gv 4,18), eco di quelle di Gesù ai discepoli: «Non voi avete scelto me, ma io ho scelto voi!» (Gv 15,16). Ecco allora la casa paterna diventare luogo del perdono e della festa: il vestito più bello è messo al figlio, l’anello è messo al suo dito, gli sono portate le calzature perché non sia più a piedi nudi co­me gli schiavi. Viene ucciso il vitello migliore e si fa festa. Il padre di­ce «presto»: è urgente la festa, la gioia, perché il peccato è cancellato, il padre non lo ricorda più e dunque tutto dev’essere ri­portato all’integrità. E i servi si af­frettano a preparare la celebrazio­ne della per tutta la famiglia.
La parabola poteva finire qui, sa­rebbe finita come gli altri due rac­conti analoghi della pecora e della dracma smarrite, ma qui l’evange­lista apre un altro quadro. Appare il figlio maggiore, colui che era re-
stato sempre a casa e aveva servito il padre per tanti anni. Di fronte al tornare in vita del fratello prova u­na reazione di gelosia: in nome della giustizia non può tollerare che quel suo fratello sia causa di festa. Com’è possibile? Se n’è an­dato, pretendendo l’eredità che poi ha dilapidato, non ha fatto mai avere sue notizie, mentre lui è re­stato a casa, ha obbedito al padre, ha lavorato, ha tirato avanti per anni con fatica. E ora si fa festa per uno che non lo riconosceva nep­pure come fratello e che, andandose­ne, aveva di fatto negato i legami fa­miliari?
No, questa festa non gli appartiene. Lì non vuole saperne di entrare. Ed ecco di nuovo il padre che esce – non lo fa chiamare, ma esce incontro a lui – esce un’altra volta di casa per in­contrare un figlio e lo prega insi­stentemente. Ma il figlio restato a casa recrimina. Vanta una fedeltà – «da tanti anni ti servo» –, mette da­vanti al padre la sua giustizia: «Non ho mai trasgredito un tuo comando». Ha vissuto fino allora come un mercenario puntuale, si è impegnato verso il padre come un salariato, ed è il padre che manca verso di lui: non gli ha mai dato un capretto per lui e i suoi amici e ora dà il vitello grasso per il fratello in­degno di quel nome! C’è risenti­mento, c’è protesta, c’è un’accusa precisa verso il padre in questo ri­fiuto.
La spiegazione di questo atteggia­mento è sulla bocca di Gesù nel vangelo di Giovanni: «Chi è schia­vo non resta sempre nella casa (paterna) solo chi è figlio vi rimane sempre!» (Gv 8,35), cioè chi si sen­te schiavo sta a casa come un mer­cenario, non come un figlio, sta a casa ma si sente in prigione, fa le cose perché si sente costretto, sen­za la libertà propria di chi è figlio, senza amore.
Sì, questo figlio in realtà non era mai stato nella casa del padre: il suo dimorare accanto al padre non lo aveva portato a conoscerne il cuore. Era stato schiavo in una pri­gione. Il suo comportamento non è fondamentalmente diverso da quello di chi se ne era andato! Tutti e due i figli non vivevano nella re­lazione
paterna, non conoscevano l’amore del padre. E il padre allora dice: «Figlio, figlio amato, quello che è mio è tuo!». Téknon, mio ca­ro figlio, mio caro ragazzo, «ciò che è mio, è tuo», tra noi c’è comunio­ne, tu sei sempre con me, tra noi c’è vita comune, compagnia. A­vrebbe potuto dirgli: «Tu dici di non aver mai trasgredito uno dei miei comandi, ma ora che ti invi­tano a entrare tu ti fai disobbe­diente ». E invece, anche questa volta, non rimprovera ma prega, chiede soprattutto di accogliere la resurrezione di suo fratello. «Tuo fratello è risorto! Occorre far fe­sta!
». Qui termina il racconto di Gesù, ma sulla conclusione della vicenda restano aperti interrogativi fonda­mentali per noi che leggiamo la parabola. È entrato il fratello a fare festa? E il padre, è entrato lascian­do il figlio maggiore fuori, oppure è ancora là che lo prega affinché la festa sia completa? Questa parabo­la ci aiuta davvero a chiederci: tu che chiami Dio Padre, quale im­magine di Dio hai? L’immagine di un padre padrone? Di un padre giusto, dotato di giustizia retributi­va? O di un padre che ama senza porre condizioni? Un padre che perdona sempre? Gesù così ci in­terpella! A ciascuno di noi la rispo­sta nel nostro cuore: una risposta che possiamo dare solo nel penti­mento, tornando a Dio, nel segreto del cuore. In attesa di vedere Dio faccia a faccia, come esclamava sant’Ignazio di Antiochia avvici­nandosi al martirio: «Una voce mi dice come acqua zampillante: Vie­ni al Padre!».
Questo figlio in realtà non era mai stato nella casa del genitore, perché non vedeva il suo cuore: proprio come quello che se n’era andato, non ne conosceva l’amore