Mezzo secolo è trascorso senza Albert Camus, senza i suoi giudizi pungenti, provocatori e stimolanti, che ci pungolano e ci pungono sul vivo. In tutto questo tempo il corpus di libri, articoli e tesi dedicati all’autore di L’Etranger , La Peste , La Chute e Le Premier
Homme non ha smesso di lievitare.
Questia , la «biblioteca on line di libri e periodici» più consultata dai docenti universitari, il 1° ottobre 2009 elencava 3171 titoli, tra cui 2528 libri dedicati al suo pensiero e al posto che occupa nella storia delle idee; Google Books, sito web ancora più popolare, ne contava 9953. La maggior parte degli autori finisce per porsi la stessa domanda: quale sarebbe stata la posizione di Camus di fronte al mondo – il nostro – che si è instaurato dopo la sua morte prematura? Quali sarebbero stati i suoi giudizi, i consigli, le intimazioni che non ha avuto il tempo di offrirci e che ci mancano così ferocemente?
Una sola domanda, tante risposte: tante risposte diverse… Non c’è da meravigliarsi. Camus diceva: «Tutta l’arte di Kafka sta nell’obbligare il lettore a rileggere».
Perché? Perché le sue rivelazioni, o l’assenza di rivelazioni, suggeriscono spiegazioni, ma «che non vengono rivelate chiaramente» e che, per essere chiarite, richiedono che la storia sia riletta «da una nuova angolazione». In altre parole, l’arte di Kafka consiste nell’evitare la tentazione di voler inglobare l’ininglobabile e chiudere questioni destinate a restare per sempre aperte, intriganti e lancinanti: e dunque nel non cessare mai di interrogare e provocare il lettore, continuando a ispirare e incoraggiare gli sforzi di ripensare. Grazie a questa peculiarità le intuizioni di Kafka sono immortali, e le controversie e i dibattiti che continuano a generare sono la migliore approssimazione possibile alla «pietra filosofale» che sognavano gli alchimisti, dalla quale si può perennemente estrarre l’«elisir di vita». Nel suo ritratto di Kafka, Camus ha schizzato il modello di ogni pensiero immortale: il marchio di tutti i grandi pensatori, lui compreso… Naturalmente non ho finito (e neanche seriamente tentato) di studiare le migliaia di reinterpretazioni suscitate finora dall’eredità di Camus. Non sono perciò competente per valutare, e neanche per sintetizzare, lo stato del dibattito, tanto meno per predirne l’evoluzione. Nelle riflessioni che seguono dovrò limitarmi al mio Camus, alla mia lettura personale e alla sua voce come la riascolto dopo oltre cinquant’anni, filtrata questa volta attraverso il tumulto della modernità liquida, quel gran bazar che ci fa da mondo: l’autore, innanzitutto, di Le mythe de Sisyphe e L’Homme révolté , due libri che come pochi altri letti nella mia giovinezza mi hanno aiutato a riconciliarmi con le stranezze e le assurdità del mondo che abitiamo, e che continuiamo a modellare giorno dopo giorno, consapevoli o meno, attraverso la nostra stessa maniera di abitarlo. Non sarei sorpreso che altri ferventi lettori di Camus, alla ricerca del suo messaggio alla posterità, giudicassero la mia lettura diversa dalle loro, strana o addirittura perversa: nell’inseguire indefessamente la verità della condizione umana, Camus era consapevole che l’oggetto della sua esplorazione restava aperto a una moltitudine di spiegazioni e giudizi, e resisteva strenuamente a ogni conclusione prematura (del resto, quando ci si dedichi al mistero insondabile della natura umana e delle sue possibilità, qualunque conclusione non potrebbe che essere prematura!), così come alla tentazione di espungere dalla sua visione della tragedia umana, in nome della logica e della chiarezza del discorso, l’ambiguità e l’ambivalenza che ne sono attributi irriducibili, se non addirittura quelli che la definiscono. Non si dimentichi che Camus definiva l’intellettuale come «uno la cui mente osserva se stessa»...
Parecchi anni fa in un’intervista mi fu chiesto di «riassumere il mio pensiero in un paragrafo». Non saprei trovare descrizione migliore degli sforzi del sociologo per indagare e registrare i sentieri tortuosi dell’esperienza umana che questa citazione di Camus: «C’è la bellezza e ci sono gli umiliati. Quali che siano le difficoltà dell’impresa, vorrei non essere mai infedele né all’una né agli altri». Molti autori di ricette per la felicità degli uomini, più radicali e più arroganti, denuncerebbero questa professione di fede come un’incitazione scandalosa a giocare su due tavoli. Ma Camus ha mostrato, per me senza ombra di dubbio, che «fare una scelta di campo» sacrificando uno di quei due compiti per (apparentemente) svolgere meglio l’altro finirebbe inevitabilmente per metterli fuori portata entrambi. Lui stesso si diceva «posto a metà strada tra la miseria e il sole». «La miseria – spiegava – mi ha salvato dal credere che tutto vada bene sotto il sole e il sole mi ha insegnato che la storia non è tutto». Camus si confessò «pessimista sulla storia umana, ottimista sull’uomo», nel quale vedeva «l’unica creatura che rifiuta d’essere ciò che è». La libertà umana, sottolineava, «non è altro che una chance di essere migliori» e «il solo modo di affrontare un mondo senza libertà è diventare così assolutamente liberi da fare della propria esistenza un atto di ribellione». Il quadro che dipinge del destino e delle prospettive dell’uomo s’iscrive a metà tra la figura di Sisifo e quella di Prometeo, lottando – invano, ma con ostinazione indefessa – per riunirli e fonderli. Prometeo, l’eroe di L’Homme révolté , sceglie una vita per gli altri, una vita di ribellione contro la loro infelicità, scorgendovi la soluzione a quella «assurdità della condizione umana» che trascinava Sisifo, sopraffatto e ossessionato dalla propria infelicità, verso il suicidio come unica risposta e via d’uscita alla sua umana (troppo umana) maledizione (fedele all’antica massima enunciata da Plinio il Vecchio, e rivolta senz’altro a tutti gli adepti dell’amore di sé associato all’amor proprio: «Nella miseria della nostra vita sulla terra, il suicidio è il miglior regalo di Dio all’uomo»). Nella giustapposizione, operata da Camus, di Sisifo e Prometeo il rifiuto diventa un atto di affermazione: «Io mi ribello – avrebbe concluso Camus – dunque noi esistiamo». È come se gli uomini si fossero inventati gli ideali della logica, dell’armonia, dell’ordine e dell’ Eindeutigkeit solo per essere spinti dalla loro condizione e dalle loro scelte a sfidarli uno a uno nella pratica… Il «noi» non potrebbe essere mobilitato da Sisifo il solitario, che ha per tutta compagnia un masso, un pendio e un compito di autosconfitta.
Ma anche nella maledizione di Sisifo, apparentemente senza speranza e senza prospettiva, confrontato com’è con l’assurdità assoluta della propria esistenza, c’è uno spazio, atrocemente minuscolo, è vero, ma ampio a sufficienza per accogliere Prometeo.
La sorte di Sisifo è tragica solo perché egli è cosciente, consapevole dell’insensatezza ultima delle sue fatiche. Ma come spiega Camus: «La chiaroveggenza che doveva essere il suo tormento determina al tempo stesso la sua vittoria. Non c’è destino che non si superi con il disprezzo». Scacciando la coscienza morbosa di sé per aprirsi alla visita di Prometeo, Sisifo riesce a trasformarsi da figura tragica di schiavo delle cose in loro artefice gioioso. «La felicità e l’assurdo – osserva Camus – sono due figli della stessa terra. Sono inseparabili». E aggiunge: a Sisifo questo universo «senza padrone» non sembra «né sterile né futile.
Ogni atomo di quella roccia, ogni falda minerale di quella montagna piena di notte, da solo forma un mondo. La lotta verso le vette basta a riempire un cuore d’uomo. Bisogna immaginare Sisifo felice». Sisifo è riconciliato con il mondo com’è, e quest’accettazione spiana la strada alla ribellione; anzi, la rende un esito inevitabile, o almeno molto probabile. Tale combinazione di accettazione e di ribellione, di attenzione per la bellezza e per il miserabile, intende proteggere il progetto di Camus su due fronti: dalla rassegnazione greve di pulsioni suicide e da un eccesso di fiducia in sé, greve di indifferenza verso il costo umano della rivolta. Camus ci dice che la rivolta, la rivoluzione e la lotta per la libertà sono aspetti inevitabili dell’esistenza umana, ma che dobbiamo sorvegliarne i limiti per evitare che tali ammirevoli intenti sfocino in tirannia.
Davvero Camus è morto cinquant’anni fa?
(c) 2009 Le Nouvel Observateur. Traduzione di Anna Maria Brogi
Una riflessione del sociologo della «modernità liquida» sul lascito del grande scrittore francese, morto prematuramente a 47 anni in un incidente d’auto il 4 gennaio 1960, ma i cui romanzi aiutano a riconciliarsi con le stranezze e le assurdità del mondo che abitiamo
Il suo eroe s’iscrive a metà tra la figura di Sisifo e quella di Prometeo, in una vana lotta per fonderli. Quest’ultimo sceglie un’esistenza per gli altri, scorgendovi la soluzione all’assurdità della sua condizione; il primo invece, sopraffatto dalla propria infelicità, trova nella morte l’unica risposta alla sua maledizione. Nella quale c’è però uno spazio, pur minuscolo, per sfuggire al suo destino di schiavo
GLI AUTORI
Albert Camus nacque il 7 novembre 1913 da una famiglia francese residente in Algeria.
Ad Algeri studiò in condizioni economiche difficili e fece l’attore e il giornalista. Dal 1940 partecipò alla resistenza a Parigi.
Quindi fu capo del giornale Combat. Nobel per la letteratura 1957, morì il 4 gennaio 1960 in un incidente d’auto, assieme al suo editore Michel Gallimard.
Zygmunt Bauman è nato in Polonia nel 1925, ma ha dovuto lasciare il suo Paese nel 1968 in seguito a persecuzioni antisemite. Filosofo e sociologo, oggi è professore emerito dell’università di Leeds in Gran Bretagna. Le sue opere più note sono «Modernità liquida», «La società sotto assedio», «Vite di scarto», «Consumo dunque sono».
Avvenire 27 dic. 2009