DISCERNERE

Uno sguardo profetico sugli eventi

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ALBERT CAMUS Un uomo in rivolta. Luca Doninelli

Cinquant’anni fa moriva uno dei più grandi scrittori del Novecento, messo al bando dagli intellettuali del suo tempo (primo fra tutti, l’”amico” Sartre) per aver rifiutato ogni ideologia. Abbiamo riletto le sue opere. Trovandoci «un’apertura indomita» a tutta la realtà. E una lotta appassionata per non censurare nulla dell’umano. A cominciare dal bisogno di perdono

Ero incerto tra due frasi di Albert Camus, tratte dai suoi Taccuini, con cui cominciare questo articolo dedicato ai cinquant’anni dalla scomparsa prematura e improvvisa del grande scrittore, avvenuta il 4 gennaio 1960 a causa di un incidente stradale.
Alla fine ho deciso di usarle tutte e due, i lettori capiranno bene il perché.
La prima è del 1951 e dice così: «Cominciare a donare sé stessi significa condannarsi a non dare mai abbastanza anche quando si dà tutto. E non si dà mai tutto».
La seconda è di qualche anno successiva: «La letteratura dei Paesi totalitari non muore tanto per il fatto di seguire una via obbligata, quanto perché viene separata dalle altre letterature. Un artista impossibilitato ad aprirsi alla realtà intera è mutilato».
Basterebbero queste due frasi per definire l’importanza insostituibile di Albert Camus non solo nella letteratura del Novecento, ma in tutta la letteratura.

Una grande chance. Camus è stato uno degli artisti - non molti, ma nemmeno pochi, per fortuna - che nel secolo più nichilista e tragico di tutta la storia, nel secolo in cui l’uomo è stato spesso considerato meno di niente (e in questo carnefici e intellettuali si sono trovati spesso d’accordo tra loro), si sono più fieramente opposti a questa tendenza: non in nome di una religione che non avevano potuto conoscere adeguatamente, men che meno in nome delle ideologie, ma in nome dell’esperienza umana, noi diremmo - senza timore di fare alcuna forzatura -: dell’esperienza elementare. L’homme révolté, l’uomo “in rivolta” dell’omonimo saggio.
In quelle due frasi viene espressa, con la semplicità di cui solo i grandi sono capaci, la duplice legge della vita. Innanzitutto, infatti, per Camus (come per noi) un uomo non è un uomo fino in fondo se non si apre «alla realtà intera», totale. Questa è la nostra vera vocazione, la vera natura della ragione: «Un artista (ossia un uomo) impossibilitato ad aprirsi alla realtà intera è mutilato».
L’abbiamo sempre detto, ma forse qualche volta l’abbiamo ripetuto senza farlo nostro, senza coscienza delle sue conseguenze: ed ecco che uno scrittore non credente ce lo ripete con la forza della semplicità. In un secolo in cui la ragione è stata usata per contare, dividere, raggruppare, calcolare, misurare, in un secolo in cui la ragione è stata lo strumento astratto di una computisteria e di una burocrazia dell’anima che ha condotto allo sterminio, Albert Camus, nella sua solitudine intellettuale sempre più grande e indesiderata, afferma che la ragione è un’altra cosa. Ma c’è un secondo elemento che emerge dalle due frasi sopra citate: il fatto che l’uomo non è capace di questa totalità, non sa stare all’altezza della propria vocazione. Si chiama peccato originale, ed è qualcosa di cui non tutti abbiamo coscienza: bisogna aver cercato di salire molto in alto, oppure aver avuto una grande chance, fortuna, come dice Camus, per toccare questo limite.
Se non cerchi di andare fino in fondo, non capirai mai nemmeno il tuo limite. Il più grande dei crimini per Camus non è Auschwitz o Hiroshima, ma questa mutilazione anticipata della possibilità di fare esperienza del nostro desiderio e del nostro limite.

Da Mondovi a Parigi. Basterebbe questo a farci dire con certezza che in nessun modo si può pensare alla letteratura del Novecento senza fare i conti con Albert Camus.
Camus appartiene a una generazione di scrittori che non ha potuto esprimersi in grandi opere, come la generazione precedente.
Se paragoniamo le opere uscite negli anni Dieci, Venti, Trenta del Novecento (i vari Kafka, Joyce, Mann, Proust, Musil, Hemingway, fino a Faulkner, ultima propaggine di quell’epoca) e quelle degli autori più giovani, nati in pieno Novecento - da Pavese a Camus all’americano Saul Bellow - non possiamo non constatare una frattura, una diversità radicale, che giunge fino al cuore della forma.
È come se la libertà umana fosse stata ridotta e l’uomo si stesse abituando a questa riduzione. Gli scrittori più anziani, pur avendolo radicalmente modificato nella struttura, credevano ancora nel romanzo così come lo avevano ereditato dall’Ottocento. Joyce è un autore sperimentale, ma non - io credo - come Honoré de Balzac, e nemmeno come Alessandro Manzoni.
Per la generazione di Camus non c’è tempo per il romanzo, non c’è tempo per le belle storie d’amore o per le grandi epopee storiche (che spesso nascondono quintali di ideologia). La letteratura è al servizio di una riflessione bruciante sull’uomo e sul suo destino, sull’uomo nudo, de-contestualizzato, sradicato. Nell’età del totalitarismo - che non è affatto finita - l’uomo appare senza radici, perché la storia stessa, il potere che fa la storia non vuol saperne di radici. E mette al bando le radici cristiane perché esse sono, oggi, le radici umane.
Albert Camus, nato nel 1913 a Mondovi, in Algeria, conservò sempre l’Africa come il luogo delle radici, come sponda nativa, custode dell’origine, della sua complicatissima patria, la Francia. L’Africa fu la sua rive gauche.
In Africa si svolgono le vicende dei suoi romanzi più famosi, Lo straniero e La peste.
Lo straniero è forse il capolavoro letterario di Camus. L’incipit è fra i più celebri di tutta la letteratura del Novecento, «Oggi è morta mia mamma. O forse ieri, non so», e da questo incipit scaturisce, per un atto di obbedienza assoluta, tutta la storia di Mersault, un uomo a cui muore la madre, che dopo il funerale allaccia una relazione senza amore con una donna, che uccide un arabo, viene condannato a morte, rifiuta la visita di un prete e al processo non si difende, subendo alla fine la condanna a morte.
Mersault è una novità assoluta nella letteratura. Mai era apparso sulla scena un personaggio come lui. La sua indifferenza non ha nulla da spartire con quella di Moravia, che riguarda in sostanza la noia dei ricchi borghesi che hanno tutto e non sanno più provare passioni. La sua indifferenza è radicale: Mersault esce dalla storia, che all’improvviso sente come estranea, e la sua vita si trasforma in una serie di istanti staccati tra loro, di atti che non nascono da nulla e non portano a nulla.
La ragione di questa uscita è ben illustrata nel saggio che Charles Moeller dedicò a Camus in Letteratura moderna e cristianesimo (edita in forma antologica da Rizzoli-Bur, nella collana diretta da don Giussani), e che lega la vicenda di Mersault alla ricerca di uno stato di pura innocenza.

Il realismo e l’impossibile. Le azioni di Mersault sono azioni pure, il suo omicidio è leggero, Mersault non prova alcuna colpa, il sangue versato sembra non riguardarlo.
Tutto questo è assurdo, ma l’assurdo, sembra dire Camus, è diventato la sola via, la sola anche se impossibile, attraverso cui l’uomo del Novecento, coevo di tutti gli orrori, può cercare di recuperare il senso della propria nascita.
Della stessa epoca è il suo testo teatrale più famoso, Caligola, che svolge una tematica simile: più il protagonista si rende conto che l’uomo è fatto per l’infinito, più comprende che ottenere questo è impossibile, perciò diviene folle. In una delle prime versioni del testo - più volte rimaneggiato - compare la famosa espressione: «Siate realisti, chiedete l’impossibile», a noi molto cara.
La peste è una grande metafora della guerra e della follia che ha contagiato uomini e nazioni. Nella città algerina di Orano si diffonde, lentamente, una peste che finirà per sterminare la gran parte della popolazione. Ad essa fanno fronte pochi uomini che risponderanno al dolore apparentemente senza fine con la tenacia della loro concreta solidarietà.
Ciò che colpisce, rileggendo oggi questo grande libro, è l’opposizione strenua di Camus a ogni ideologia. La solidarietà che lui propone è solida, non nasce da teorie, ma solo dalla realtà del bisogno che obbliga gli uomini che possono farlo a rispondere, non per senso del dovere ma per la necessità di fare i conti con la propria umanità.
Camus scrisse molti testi rubricabili sotto la voce “saggio filosofico”, tra cui Il mito di Sisifo e L’uomo in rivolta. Eppure, nonostante l’importanza oggi unanimemente riconosciuta di queste sue opere, Camus conobbe un periodo di dimenticanza a causa della sua non-adesione all’invito che Jean-Paul Sartre, il più celebre intellettuale francese, rivolse alla cultura del suo Paese. Per Sartre l’intellettuale non può più considerarsi al di fuori della cronaca e della politica, deve s’engager, impegnarsi sui temi più caldi, non far mancare la propria voce davanti alle ingiustizie, far sentire la propria indignazione: Auschwitz e Hiroshima non si dovranno più ripetere.
Questo invito coincise con l’adesione (temporanea) di Sartre al Partito Comunista, del quale lo stesso Camus aveva fatto parte tempo addietro e soprattutto con l’adozione dell’ideologia comunista e dell’analisi marxista come strumento di quell’impegno. Fu, vista col senno di poi, una grande operazione di potere, nata sull’onda del fascino della propaganda sovietica e poi proseguita per forza propria, fino - si può dire - ai giorni nostri. Anche oggi l’intellettuale è, quasi per definizione, di sinistra. E i tanti eccidi, dalla Cambogia a Srebrenica, dimostrano che fu soprattutto, come detto, una questione di potere e di casta.

La prima telefonata. Camus non ebbe bisogno del senno di poi, capì immediatamente l’inganno. Anche perché una delle prime battaglie combattute da questa nuova classe intellettuale francese fu rivolta contro la colonia algerina, che in quel tempo si ribellò alla dominazione francese. Sartre e compagni si schierarono apertamente a favore degli insorti, mentre Camus si dissociò dicendo che nessuna causa, per quanto giusta, avrebbe mai potuto metterlo contro sua madre.
Camus pagò a caro prezzo questa presa di posizione. Tanto che nemmeno il premio Nobel, attribuitogli a sorpresa nel 1957 (e fu forse l’ultimo atto di vero coraggio dell’Accademia di Svezia), spezzò la cortina di silenzio intorno a lui. Alla notizia del Nobel, la prima persona alla quale Camus telefonò fu il suo vecchio maestro elementare: questo dice molto sull’uomo e sull’intellettuale.
In una delle sue ultime opere, La caduta, Camus esprime una nuova, geniale sintesi del proprio umanesimo. In un bar di Amsterdam un uomo, un avvocato di nome Jean-Baptiste Clamence racconta a un conoscente occasionale il fallimento della propria vita e l’episodio che lo ha determinato.
Una notte, a Parigi, attraversando la Senna, Clamence nota una figura affacciata al parapetto del ponte. È una ragazza, che sentendolo passare si gira, mostrandogli un volto completamente disperato. Clamence è tentato di dirle qualcosa, poi la timidezza, il timore di apparire ambiguo, un malinteso senso della discrezione lo inducono a proseguire senza dire nulla. Dopo diverso tempo, quando la ragazza è ormai lontana, Clamence, nel silenzio della notte, sente un grido seguito da un tonfo: per chissà quale dolore insopportabile, quella ragazza si è gettata nel fiume, e ormai è troppo tardi per salvarla.
Di qui la riflessione. Come può un uomo aderire all’ideologia pensando che grazie a quella potrà fare giustizia? La sola giustizia, la sola impossibile giustizia per l’avvocato Clamence sarebbe quella di poter tornare indietro nel tempo, fino a quel momento, e rivedere quella ragazza affacciata sul fiume buio, e rivolgerle la parola, cercare di salvarla. Questo miracolo impossibile è ciò che si chiama perdono, nient’altro che questo. E questa è la vera giustizia.
Ecco, per me Albert Camus significa questo: un’apertura indomita a tutta la realtà, una rivolta contro tutto ciò - ideologia in testa - che riduce il suo orizzonte (quella che don Giussani chiama la “dimensione” di un gesto umano), la necessità di una solidarietà concreta tra gli uomini e un inesauribile bisogno di perdono.

http://www.tracce.it/

ALBERT CAMUS/ La nostra “povera carne” e quel bisogno di perdono. Di Luca Doninelli

"La grandezza, diceva Albert Camus, arriva come un bel giorno; un giorno che sembrava uguale a C'è un Camus "steraniero" e rimossotutti gli altri. Non dipende da noi. A noi tocca non essere distratti nella rincorsa affannosa di un diverso che ha solo la faccia esteriore del nuovo. A noi tocca avere gli occhi sufficientemente aperti per accorgersene": dice Pigi Colognesi in una sua riflessione sull'anno appena iniziato e sul desiderio di novità.

«Non è attraverso degli scrupoli che l’uomo diventerà grande; la grandezza viene per grazia di Dio, come un bel giorno»

Esattamente mezzo secolo fa, il 4 gennaio del 1960, un incidente stradale portava via, a soli quarantasei anni, Albert Camus. Ma queste non sono note commemorative. La sua figura non si confonde con le altre. Per capire la sua diversità, la sua bellezza solitaria, sarebbe sufficiente questa frasetta datata 23 marzo 1959, che ho scovato nei suoi diari: “La carne, la povera carne, miserabile, sporca, decaduta, umiliata. La carne sacra”.

La cultura non ha ancora digerito bene Albert Camus. Come Pavese, come Pasolini, come Testori, Camus appartiene a una storia che non ha storia, che non ha narratori autorizzati. La linea maestra della letteratura del Novecento lo esclude, senza dubbio.

Di fronte a lui siamo ancora costretti a prendere posizione: o pro o contro. Proprio come allora: ed era una cosa di cui lo stesso Camus era il primo a stupirsi, quando si accorgeva che non c’era intervento pubblico, radiofonico o televisivo, che non suscitasse le solite polemiche.

La sua epoca era la stessa di Cesare Pavese, con il quale lo accomunano molte cose, prima fra tutte un particolare malessere, un sentimento di esilio, di estraneità a un mondo (e soprattutto il mondo della cultura) che sembrava essere uscito dall’orrore della guerra con un pacco di parole d’ordine già confezionate (da chi?) da usare contro tutte le oppressioni, tutte le limitazioni della libertà di espressione, tutti i soprusi, tutti i totalitarismi.

Intenzioni splendide, a patto però che si potessero sostenere in qualunque occasione, a patto di non dover reprimere continuamente il sospetto che il più grande di tutti i totalitarismi potesse nascondersi dietro quegli ideali.

Impegno politico! Aux armes, citoyens! Up patriots! L’intellettuale, da Sartre in avanti, non avrebbe più dovuto temere altro che la propria torre d’avorio (che è, per inciso, un attributo di Maria), e sarebbe stato suo dovere, per saecula saeculorum, quello di non tacere la propria indignazione dinanzi a tutte le ingiustizie.

In molti ci hanno messo trent’anni a capire l’inganno. Non sono bastati Budapest e Praga, Pol Pot e la guerra in Afghanistan. Ma Camus lo capì immediatamente. Il suo rifiuto di schierarsi con le altre anime belle della cultura francese contro la colonia algerina a favore degli insorti (Guerra d’Algeria, 1954-1962) gli valse l’ostracismo e l’isolamento.

Ma quale causa può essere così giusta da mettere un uomo contro sua madre? Camus era nato infatti in Algeria, a Mondovì, e in Algeria si svolgono i suoi due romanzi più celebri: Lo Straniero, uscito nel 1942, e La Peste, che è del 1947. Tra i due capolavori c’è l’esperienza della guerra, durante la quale vide la luce anche il più cupo dei suoi testi teatrali, Il Malinteso (1944).

Ne Lo Straniero - che è il suo romanzo più bello - incontriamo Mersault, un personaggio completamente nuovo nella storia della letteratura: una specie di rinnegato della storia, che vive una breve e terribile vicenda (che si conclude con la sua condanna a morte) senza provare il minimo sentimento, con un’indifferenza tragica rispetto a tutte le proprie vicende.

Questa condizione di essenziale assurdità della vita umana, cui nessun engagement può corrispondere, può essere superata solo nell’esperienza del dolore estremo. La Peste che dà il titolo al romanzo omonimo è il male - evidente metafora della guerra - che devasta la città di Orano. Nel momento della storia in cui ha sperimentato la propria parte peggiore, l’uomo scopre che è possibile ricominciare: non dall’ideologia, ma da un’operatività semplice, generosa e senza calcoli. È evidente che nessuna azione umanitaria potrà rispondere all’immensità del bisogno umano, ma proprio per questo occorre dare tutto - nella certezza, dice Camus, che un uomo non potrà mai dare tutto.

Questo sentimento di sproporzione, che si traduce in un profondo malessere esistenziale e in una difficoltà di adattamento a tutte le cause comuni - per quanto giuste possano essere - portò Camus a interrogarsi sempre sul momento aurorale dell’esistenza (il rapporto con la madre ne Lo Straniero, la straziante visita alla tomba del padre ne L’ultimo uomo, la commovente telefonata al suo vecchio maestro delle elementari non appena ricevuta la notizia dell’imprevista assegnazione del Nobel, nel 1957), sulla nascita. L’opera di Camus è tutta uno sbirciare attraverso il buco della serratura dell’origine.

Quando penso a lui, la prima immagine che mi balza alla mente è quella del protagonista de La Caduta (1956), Jean-Baptiste Clamence, che in un caffè di Amsterdam, rivolgendosi a un uomo qualunque, racconta la storia centrale della sua vita, quando si trovò a passare, a mezzanotte, a Parigi, su un ponte sulla Senna, “dietro una forma che si sporgeva sul parapetto e sembrava guardare il fiume”. Una ragazza disperata, forse intenzionata a uccidersi. “Ma io, dopo un’esitazione, continuai per la mia strada. (...) Avrò fatto una cinquantina di metri, quando sentii un rumore, che la notte rese enorme nonostante la distanza: un corpo che si abbatteva sull’acqua. Mi fermai di colpo, senza però voltarmi. In quel momento sentii un grido, che si ripeté più volte, scivolando anch’esso lungo il fiume, finché si spense improvvisamente”.

Quale ideologia, si domanda Clamence, quale impegno civile potrà permettermi di compiere la sola azione veramente giusta alla quale aspiro: tornare a quel momento, a quell’unico momento, e anziché proseguire in nome di un falso senso del rispetto rivolgere la parola a quella ragazza, dirle non lo fare, ti voglio bene?

Il desiderio di tornare indietro nel tempo, fino a quel preciso istante, è l’immagine più bella che la letteratura del Novecento, amara e incredula, abbia coniato del nostro bisogno di perdono. Un bisogno che non è scritto nelle ideologie e nei sistemi di pensiero, ma nella nostra povera, miserabile, sporca, decaduta, umiliata, santissima carne.


http://www.ilsussidiario.net/

C’è un Camus "straniero" e rimosso. Di MArcllo Veneziani

Il destino si prese gioco di Albert Camus il 4 gennaio di cinquant’anni fa. Doveva rientrare dalla Provenza a Parigi, aveva il biglietto del treno, ma l’editore Michel Gallimard lo convinse a partire con lui in auto. Morirono in un incidente stradale. Trovarono Camus privo di vita ma con il volto sereno e stupito; aveva in tasca il biglietto ferroviario della salvezza mancata. Portava con sé pure il manoscritto de Il primo uomo, che segnava il ritorno al padre e alla terra d’origine.
Camus non aveva ancora compiuto 47 anni, ma aveva già ricevuto il premio Nobel, era un personaggio di culto. Scrittore di grido, intellettuale di denuncia, filosofo esistenzialista, secondo la moda del tempo, star del teatro e dei giornali. E fratello maggiore dei ribelli, forse precursore del ’68. Eppure la fama di Camus soffre di emiplegia: si ricorda soltanto il suo lato corretto e scontato, la critica al nazismo e alla pena di morte, la resistenza, il libertarismo laico e insofferente, la fama di intellettuale gauchiste, la sua origine umile di immigrato algerino. Meno si ricorda la sua rottura con il Partito Comunista, in cui militò brevemente, la polemica con Sartre, cattivo maestro, e la sua spiccata solitudine rispetto agli intellettuali organici e ai profeti delle masse, lui accusato da loro di essere «moralista disimpegnato»; il suo senso religioso e nietzscheano, l’assurdo come chiave della vita e la diffidenza per la ragione storica e progressiva; il suo amore per la cultura e la luce mediterranea, la predilezione per la bellezza e per la filosofia neoplatonica.
Sappiamo cosa resta di Camus narratore: opere come Lo straniero e La peste, e non solo. Ma sul piano delle idee e dei saggi, prima che per una teoria, un’opera, o il rigore di una filosofia, Camus merita di essere ricordato soprattutto per tre cose. In primo luogo Camus ha capito che la filosofia come sistema e come carriera accademica, come scienza astratta e come linguaggio astruso, era ormai finita. Certo, restano nel Novecento grandi filosofi, come Heidegger e Wittgenstein, Croce e Gentile, Bergson e Ortega, e altri. Ma dopo Nietzsche, Marx e Dostoevskij, la filosofia è morta. Il nichilismo non annuncia solo la morte di Dio, ma attesta anche la morte della filosofia, il suo disfarsi. La tecnica ne ha preso il posto da quando l’agire domina sul pensare. Alla filosofia è possibile vivere solo uscendo dalla teoria e dall’accademia ed entrando nella vita, fin dentro la sua condizione assurda. Farsi esistenza e racconto, pensare ad altezza d’uomo, incontrando l’universalità nell’esperienza personale.
Camus ha cercato di rianimare il pensiero con l’arte, ha cercato il punto di fusione tra filosofia e letteratura, e lo ha trovato nella vita alla luce del sole. Qui s’incontra il secondo grande motivo di fascino dell’opera di Camus. Il suo pensiero si radica nel paesaggio, nel sole, nel mare, nei colori del Mediterraneo. Pensiero meridiano chiamò Camus la sua geofilosofia; «il Mediterraneo dove l’intelligenza è sorella della luce cruda». Una filosofia profondamente meridionale, greca e latina, animata dal genius loci. Nella sua visione del mondo affiora il lucore dell’infanzia algerina e poi della Provenza, descritti nei suoi magnifici saggi solari dedicati all’estate e al ritorno. Una passione speciale nutre Camus per l’Italia, vista come sintesi tra la sua terra nativa, l’Algeria («la dolcezza di Algeri è piuttosto italiana») e la sua terra d’elezione, la Provenza. L’Italia, scrive ne Il rovescio e il diritto, è la «terra fatta secondo la mia anima».
Nella sua filosofia del paesaggio c’è un riferimento remoto, classico, ed uno vivente, prossimo. Il primo è Plotino, metafisico della bellezza e dell’Uno, venuto dall’Egitto a Roma, che per Camus «pensa d’artista, sente da filosofo... la sua ragione è vivente, piena, commovente come un melange di acqua e di luce», sul filo di una solitudine innamorata del mondo e di una «squisita malinconia». Parlando di Plotino, Camus parla di se stesso. Il riferimento prossimo è invece Jean Grenier che fu suo insegnante e poi suo amico e che lo folgorò da ragazzo con i suoi scritti dedicati al mare, alle isole e all’ispirazione mediterranee, sulla scia di Paul Valéry. Il maestro sopravvisse al discepolo e scrisse su Camus un libro di ricordi.
Per Camus la rivolta è una ribellione metafisica contro la condizione umana, non riducibile alla rivoluzione sognata dalle ideologie totalitarie di massa. La rivolta di Camus conserva il fremito della libertà e l’impronta della solitudine, non si fa mai imposizione. La sua rivolta non nasce dall’insofferenza verso il reale, dall’odio per l’esistente e verso la propria patria, ma al contrario: «Sceglieremo Itaca, la terra fedele, il pensiero audace e frugale, l’azione lucida, la generosità dell’uomo che sa. Nella luce, il mondo resta il nostro primo e ultimo amore». Non l’utopia del mondo migliore e dell’uomo nuovo, ma la solidale fratellanza con l’uomo e il mondo reale.
Da ragazzo, cercando motivi di rivolta opposti alla retorica rivoluzionaria dei contestatori, lessi insieme La rivolta ideale di Oriani, Rivolta contro il mondo moderno di Evola e L’uomo in rivolta di Camus. Fui colpito dalla morale eroica del ribelle camusiano che preferisce «morire in piedi piuttosto che vivere in ginocchio» e nel Mito di Sisifo aggiunge: «ciò che si chiama ragione di vivere è allo stesso tempo un’eccellente ragione di morire». Il suo ribelle non cade nel narcisismo dorato del dandy, ma neanche nel cupo settarismo del rivoluzionario di professione. Camus non celebra la morte di Dio, ma lotta con Dio incessantemente; la sua fu una religiosità polemica.
Camus tracciò una filosofia dell’amore. «Se fossimo déi non conosceremmo l’amore» dice con Platone; ma «l’uomo - scrive nei Taccuini - si realizza solo nell’amore perché vi trova in forma folgorante l’immagine della propria condizione senza avvenire». Camus sottrae l’amore all’eternità e lo rende umano, cioè fugace. Il suo fascino è la sua precarietà, il suo tramontare.
Amo di Camus l’atmosfera pomeridiana della siesta, la nostra meridionale controra, la metafisica del caldo, il ronzìo delle mosche e il sapore mediterraneo dell’anisette che diventa pastis in Provenza, l’incanto del mare, la solitudine come sete d’eternità, gli dei che «parlano nel sole e nell’odore degli assenzi...». La filosofia di Camus combacia col mito e soffia con il vento della vita. Una volta, mentre navigava l’Atlantico, Camus indicò curiosamente nei 57 anni l’età in cui avrebbe portato a compimento la sua opera e trovato quel che cercava: dopo i 57 anni - annotò sul suo taccuino di bordo - verrà la vecchiaia e la morte. La morte precoce lo rubò alla vecchiaia, al compiersi dell’opera e al ritrovamento di quel che cercava. Camus restò incompiuto come l’uomo in rivolta e il suo Sisifo; condannato all’eterna, irrequieta giovinezza.

Camus, La «rivolta» 50 anni dopo. Una riflessione del sociologo della «modernità liquida» sul lascito del grande scrittore francese

Mezzo secolo è trascorso senza Albert Camus, senza i suoi giudizi pungenti, provocatori e stimolanti, che ci pungolano e ci pungono sul vivo. In tutto questo tempo il corpus di libri, articoli e tesi dedicati all’autore di L’Etranger , La Peste , La Chute e Le Premier
Homme
non ha smesso di lievitare.
Questia ,
la «biblioteca on line di libri e periodici» più consultata dai docenti universitari, il 1° ottobre 2009 elencava 3171 titoli, tra cui 2528 libri dedicati al suo pensiero e al posto che occupa nella storia delle idee; Google Books, sito web ancora più popolare, ne contava 9953. La maggior parte degli autori finisce per porsi la stessa domanda: quale sarebbe stata la posizione di Camus di fronte al mondo – il nostro – che si è instaurato dopo la sua morte prematura? Quali sarebbero stati i suoi giudizi, i consigli, le intimazioni che non ha avuto il tempo di offrirci e che ci mancano così ferocemente?
Una sola domanda, tante risposte: tante risposte diverse… Non c’è da meravigliarsi. Camus diceva: «Tutta l’arte di Kafka sta nell’obbligare il lettore a rileggere».
Perché? Perché le sue rivelazioni, o l’assenza di rivelazioni, suggeriscono spiegazioni, ma «che non vengono rivelate chiaramente» e che, per essere chiarite, richiedono che la storia sia riletta «da una nuova angolazione». In altre parole, l’arte di Kafka consiste nell’evitare la tentazione di voler inglobare l’ininglobabile e chiudere questioni destinate a restare per
sempre aperte, intriganti e lancinanti: e dunque nel non cessare mai di interrogare e provocare il lettore, continuando a ispirare e incoraggiare gli sforzi di ri­pensare. Grazie a questa peculiarità le intuizioni di Kafka sono immortali, e le controversie e i dibattiti che continuano a generare sono la migliore approssimazione possibile alla «pietra filosofale» che sognavano gli alchimisti, dalla quale si può perennemente estrarre l’«elisir di vita». Nel suo ritratto di Kafka, Camus ha schizzato il modello di ogni pensiero immortale: il marchio di tutti i grandi pensatori, lui compreso… Naturalmente non ho finito (e neanche seriamente tentato) di studiare le migliaia di reinterpretazioni suscitate finora dall’eredità di Camus. Non sono perciò competente per valutare, e neanche per sintetizzare, lo stato del dibattito, tanto meno per predirne l’evoluzione. Nelle riflessioni che seguono dovrò limitarmi al mio Camus, alla mia lettura personale e alla sua voce come la riascolto dopo oltre cinquant’anni, filtrata questa volta attraverso il tumulto della modernità liquida, quel gran bazar che ci fa da mondo: l’autore, innanzitutto, di Le mythe de Sisyphe e L’Homme révolté , due libri che come pochi altri letti nella mia giovinezza mi hanno aiutato a riconciliarmi con le stranezze e le assurdità del mondo che abitiamo, e che continuiamo a modellare giorno dopo giorno, consapevoli o meno, attraverso la nostra stessa maniera di abitarlo. Non sarei sorpreso che altri ferventi lettori di Camus, alla ricerca del suo messaggio alla posterità, giudicassero la mia lettura diversa dalle loro, strana o addirittura perversa: nell’inseguire indefessamente la verità della condizione umana, Camus era consapevole che l’oggetto della sua esplorazione restava aperto a una moltitudine di spiegazioni e giudizi, e resisteva strenuamente a ogni conclusione prematura (del resto, quando ci si dedichi al mistero insondabile della natura umana e delle sue possibilità, qualunque conclusione non potrebbe che essere prematura!), così come alla tentazione di espungere dalla sua visione della tragedia umana, in nome della logica e della chiarezza del discorso, l’ambiguità e l’ambivalenza che ne sono attributi irriducibili, se non addirittura quelli che la definiscono. Non si dimentichi che Camus definiva l’intellettuale come «uno la cui mente osserva se stessa»...
Parecchi anni fa in un’intervista mi fu chiesto di «riassumere il mio pensiero in un paragrafo». Non saprei trovare descrizione migliore degli sforzi del sociologo per indagare e registrare i sentieri tortuosi dell’esperienza umana che questa citazione di Camus: «C’è la bellezza e ci sono gli umiliati. Quali che siano le difficoltà dell’impresa, vorrei non essere mai infedele né all’una né agli altri». Molti autori di ricette per la felicità degli uomini, più radicali e più arroganti, denuncerebbero questa professione di fede come un’incitazione scandalosa a giocare su due tavoli. Ma Camus ha mostrato, per me senza ombra di dubbio, che «fare una scelta di campo» sacrificando uno di quei
due compiti per (apparentemente) svolgere meglio l’altro finirebbe inevitabilmente per metterli fuori portata entrambi. Lui stesso si diceva «posto a metà strada tra la miseria e il sole». «La miseria – spiegava – mi ha salvato dal credere che tutto vada bene sotto il sole e il sole mi ha insegnato che la storia non è tutto». Camus si confessò «pessimista sulla storia umana, ottimista sull’uomo», nel quale vedeva «l’unica creatura che rifiuta d’essere ciò che è». La libertà umana, sottolineava, «non è altro che una chance di essere migliori» e «il solo modo di affrontare un mondo senza libertà è diventare così assolutamente liberi da fare della propria esistenza un atto di ribellione». Il quadro che dipinge del destino e delle prospettive dell’uomo s’iscrive a metà tra la figura di Sisifo e quella di Prometeo, lottando – invano, ma con ostinazione indefessa – per riunirli e fonderli. Prometeo, l’eroe di L’Homme révolté , sceglie una vita per gli altri, una vita di ribellione contro la loro infelicità, scorgendovi la soluzione a quella «assurdità della condizione umana» che trascinava Sisifo, sopraffatto e ossessionato dalla propria infelicità, verso il suicidio come unica risposta e via d’uscita alla sua umana (troppo umana) maledizione (fedele all’antica massima enunciata da Plinio il Vecchio, e rivolta senz’altro a tutti gli adepti dell’amore di sé associato all’amor proprio: «Nella miseria della nostra vita sulla terra, il suicidio è il miglior regalo di Dio all’uomo»). Nella giustapposizione, operata da Camus, di Sisifo e Prometeo il rifiuto diventa un atto di affermazione: «Io mi ribello – avrebbe concluso Camus – dunque noi esistiamo». È come se gli uomini si fossero inventati gli ideali della logica, dell’armonia, dell’ordine e dell’ Eindeutigkeit solo per essere spinti dalla loro condizione e dalle loro scelte a sfidarli uno a uno nella pratica… Il «noi» non potrebbe essere mobilitato da Sisifo il solitario, che ha per tutta compagnia un masso, un pendio e un compito di autosconfitta.
Ma anche nella maledizione di Sisifo, apparentemente senza speranza e senza prospettiva, confrontato com’è con l’assurdità assoluta della propria esistenza, c’è uno spazio, atrocemente minuscolo, è vero, ma ampio a sufficienza per accogliere Prometeo.
La sorte di Sisifo è tragica solo perché egli è cosciente, consapevole dell’insensatezza ultima delle sue fatiche. Ma come spiega Camus: «La chiaroveggenza che doveva essere il suo tormento determina al tempo stesso la sua vittoria. Non c’è destino che non si superi con il disprezzo». Scacciando la coscienza morbosa di sé per aprirsi alla visita di Prometeo, Sisifo riesce a trasformarsi da figura tragica di schiavo delle cose in loro artefice gioioso. «La felicità e l’assurdo – osserva Camus – sono due figli della stessa terra. Sono inseparabili». E aggiunge: a Sisifo questo universo «senza padrone» non sembra «né sterile né futile.
Ogni atomo di quella roccia, ogni falda minerale di quella montagna piena di notte, da solo forma un mondo. La lotta verso le vette basta a riempire un cuore d’uomo. Bisogna immaginare Sisifo felice». Sisifo è riconciliato con il mondo com’è, e quest’accettazione spiana la strada alla ribellione; anzi, la rende un esito inevitabile, o almeno molto probabile. Tale combinazione di accettazione e di ribellione, di attenzione per la bellezza e per il miserabile, intende proteggere il progetto di Camus su due fronti: dalla rassegnazione greve di pulsioni suicide e da un eccesso di fiducia in sé, greve di indifferenza verso il costo umano della rivolta. Camus ci dice che la rivolta, la rivoluzione e la lotta per la libertà sono aspetti inevitabili dell’esistenza umana, ma che dobbiamo sorvegliarne i limiti per evitare che tali ammirevoli intenti sfocino in tirannia.
Davvero Camus è morto cinquant’anni fa?
(c) 2009 Le Nouvel Observateur. Traduzione di Anna Maria Brogi
Una riflessione del sociologo della «modernità liquida» sul lascito del grande scrittore francese, morto prematuramente a 47 anni in un incidente d’auto il 4 gennaio 1960, ma i cui romanzi aiutano a riconciliarsi con le stranezze e le assurdità del mondo che abitiamo

Il suo eroe s’iscrive a metà tra la figura di Sisifo e quella di Prometeo, in una vana lotta per fonderli. Quest’ultimo sceglie un’esistenza per gli altri, scorgendovi la soluzione all’assurdità della sua condizione; il primo invece, sopraffatto dalla propria infelicità, trova nella morte l’unica risposta alla sua maledizione. Nella quale c’è però uno spazio, pur minuscolo, per sfuggire al suo destino di schiavo


GLI AUTORI

Albert Camus
nacque il 7 novembre 1913 da una famiglia francese residente in Algeria.
Ad Algeri studiò in condizioni economiche difficili e fece l’attore e il giornalista. Dal 1940 partecipò alla resistenza a Parigi.
Quindi fu capo del giornale
Combat. Nobel per la letteratura 1957, morì il 4 gennaio 1960 in un incidente d’auto, assieme al suo editore Michel Gallimard.
Zygmunt Bauman è nato in Polonia nel 1925, ma ha dovuto lasciare il suo Paese nel 1968 in seguito a persecuzioni antisemite. Filosofo e sociologo, oggi è professore emerito dell’università di Leeds in Gran Bretagna. Le sue opere più note sono «Modernità liquida», «La società sotto assedio», «Vite di scarto», «Consumo dunque sono».

Avvenire 27 dic. 2009