Mentre furoreggia il film di Emmerich c’è pure la conferenza di Copenaghen sul surriscaldamento del globo e dunque la fiction si salda con i tg e sembra inverarli. Se ne parla da anni e su internet esplode la mania, il terrore e l’ebbrezza dell’apocalisse. Nascono sette, c’è chi lucra sulla paura. C'è una diffusa psicosi che prende soprattutto gli psicolabili americani; ma anche da noi la sindrome del finimondo miete vittime. Una prospettiva di vita di solo tre anni potrebbe renderci più avidi ma anche migliori, più ansiosi di arraffare tutto il più presto possibile, togliendosi tutti gli sfizi finora frenati; ma potrebbe anche spingerci a farci più eterei e meno terrestri, più mistici perfino, filosofi e santi. La prospettiva della fine migliora i migliori e peggiora i peggiori. Non cambia l’umanità, rivela e radicalizza i caratteri. Fratello ricordati che devi morire, dicono i nuovi frappisti della geo-fiction, la data è stata già stabilita, non valgono gli oroscopi dopo quella scadenza. Non progettate oltre il triennio, abolite le lauree che durano di più. Godetevi gli ultimi mondiali di calcio, promettete di sposarvi nel 2013 per fare la sposa contenta e gabbata; firmate cambiali a morire, tanto non ci frega più niente. Il film concede qualche eccezionale sopravvivenza all’ecatombe, e penso che Berlusconi si senta già tra gli eletti superstiti. Il paradosso di questa profezia astro-cinematografica è che unisce il massimo di irrealtà al massimo di realtà. La fine del mondo non è affatto inverosimile, la sorpresa semmai è come mai non sia già avvenuta. Ci dev’essere un ordine pazzesco e divino nel cosmo se non si verifica mai un guasto, un mutamento di rotta di stelle e pianeti. Ma la fine di un ciclo, spiegano i Maya, è già accaduta altre volte nel cosmo; l’arca di Noè era solo uno sbiadito ricordo, mutato nel carro allegorico di uno zoo. La morte comunque è certissima, differisce solo la datazione: e anche la morte universale è certissima, l’unico dubbio è se in unica soluzione per liquidazione d’esercizio o con il sistema rateale dei decessi dilazionati, che conosciamo da sempre. L’uomo è l’unico essere vivente che abbia piena coscienza della sua morte futura, e l’unico che oltre a piangerla ha pure la forza di riderne, di esorcizzarla e persino di divertirsi vedendola al cinema. Quelle folle che gremiscono le sale non sono costrette da religioni cupe e sacerdoti funesti a constatare il loro miserabile destino di morenti; ci vanno di spontanea volontà, per un incrocio di paura e goduria, e pagano pure per farsi ricordare la loro tremenda precarietà. Vogliono passare tre ore spensierate a immaginare la propria morte, e nel modo più drammatico possibile. Caschi il mondo, but show must go on. Vorrei dire alle masse necrofile e masochiste: se avete proprio voglia di gustarvi la fine del mondo e di voi, andate alla Cappella Sistina, godetevi il Giudizio Universale di Michelangelo. Almeno lì c’è arte e c’è pure il conforto divino, si muore in bellezza e viene a prelevarci il Signore in Persona. Certo, angoscia sentirsi giudicati senza appello, non c’è lodo Alfano che ci esoneri dal dies irae; in compenso non ci giudicano i magistrati nostrani. Eppure resta un mistero il piacere mondiale di spararsi al cinema la Disgrazia delle Disgrazie, all inclusive, noi compresi. A una falsa scadenza è legata la verità della condizione umana, una fiction ci riporta all’autenticità di morenti. Alla fine ci attacchiamo a quel soffio leggero chiamato anima, segretamente convinti che almeno lei, che è leggera come un fiato, la farà franca e andrà ad abitare in imprecisati cieli. In un fiato finirà il mondo, con un fiato ricomincerà la vita. Appuntamento generale al 22 dicembre del 2012. In cielo, all’inferno o sotto casa del regista, a pretendere il biglietto risarcito per la bufala cosmica.
DISCERNERE
Uno sguardo profetico sugli eventi
C’è l’apocalisse: in fila a "godersi" la morte. In tutto il mondo e in Italia capeggia le classifiche il film catastrofico di Roland Emmerich, 2012.
Mentre furoreggia il film di Emmerich c’è pure la conferenza di Copenaghen sul surriscaldamento del globo e dunque la fiction si salda con i tg e sembra inverarli. Se ne parla da anni e su internet esplode la mania, il terrore e l’ebbrezza dell’apocalisse. Nascono sette, c’è chi lucra sulla paura. C'è una diffusa psicosi che prende soprattutto gli psicolabili americani; ma anche da noi la sindrome del finimondo miete vittime. Una prospettiva di vita di solo tre anni potrebbe renderci più avidi ma anche migliori, più ansiosi di arraffare tutto il più presto possibile, togliendosi tutti gli sfizi finora frenati; ma potrebbe anche spingerci a farci più eterei e meno terrestri, più mistici perfino, filosofi e santi. La prospettiva della fine migliora i migliori e peggiora i peggiori. Non cambia l’umanità, rivela e radicalizza i caratteri. Fratello ricordati che devi morire, dicono i nuovi frappisti della geo-fiction, la data è stata già stabilita, non valgono gli oroscopi dopo quella scadenza. Non progettate oltre il triennio, abolite le lauree che durano di più. Godetevi gli ultimi mondiali di calcio, promettete di sposarvi nel 2013 per fare la sposa contenta e gabbata; firmate cambiali a morire, tanto non ci frega più niente. Il film concede qualche eccezionale sopravvivenza all’ecatombe, e penso che Berlusconi si senta già tra gli eletti superstiti. Il paradosso di questa profezia astro-cinematografica è che unisce il massimo di irrealtà al massimo di realtà. La fine del mondo non è affatto inverosimile, la sorpresa semmai è come mai non sia già avvenuta. Ci dev’essere un ordine pazzesco e divino nel cosmo se non si verifica mai un guasto, un mutamento di rotta di stelle e pianeti. Ma la fine di un ciclo, spiegano i Maya, è già accaduta altre volte nel cosmo; l’arca di Noè era solo uno sbiadito ricordo, mutato nel carro allegorico di uno zoo. La morte comunque è certissima, differisce solo la datazione: e anche la morte universale è certissima, l’unico dubbio è se in unica soluzione per liquidazione d’esercizio o con il sistema rateale dei decessi dilazionati, che conosciamo da sempre. L’uomo è l’unico essere vivente che abbia piena coscienza della sua morte futura, e l’unico che oltre a piangerla ha pure la forza di riderne, di esorcizzarla e persino di divertirsi vedendola al cinema. Quelle folle che gremiscono le sale non sono costrette da religioni cupe e sacerdoti funesti a constatare il loro miserabile destino di morenti; ci vanno di spontanea volontà, per un incrocio di paura e goduria, e pagano pure per farsi ricordare la loro tremenda precarietà. Vogliono passare tre ore spensierate a immaginare la propria morte, e nel modo più drammatico possibile. Caschi il mondo, but show must go on. Vorrei dire alle masse necrofile e masochiste: se avete proprio voglia di gustarvi la fine del mondo e di voi, andate alla Cappella Sistina, godetevi il Giudizio Universale di Michelangelo. Almeno lì c’è arte e c’è pure il conforto divino, si muore in bellezza e viene a prelevarci il Signore in Persona. Certo, angoscia sentirsi giudicati senza appello, non c’è lodo Alfano che ci esoneri dal dies irae; in compenso non ci giudicano i magistrati nostrani. Eppure resta un mistero il piacere mondiale di spararsi al cinema la Disgrazia delle Disgrazie, all inclusive, noi compresi. A una falsa scadenza è legata la verità della condizione umana, una fiction ci riporta all’autenticità di morenti. Alla fine ci attacchiamo a quel soffio leggero chiamato anima, segretamente convinti che almeno lei, che è leggera come un fiato, la farà franca e andrà ad abitare in imprecisati cieli. In un fiato finirà il mondo, con un fiato ricomincerà la vita. Appuntamento generale al 22 dicembre del 2012. In cielo, all’inferno o sotto casa del regista, a pretendere il biglietto risarcito per la bufala cosmica.