Totalitarismo digitale: disimpariamo a vivere nella dimensione dell'imprevedibile, momento costitutivo dell'essere umano. (Frank Schirrmacher, direttore della Frankfurter Allgemeine)
Il flusso d'informazioni, il dominio dei computer, di internet, del mondo digitale, minaccia di sommergerci e renderci schiavi dell'intelligenza artificiale. Il genere umano deve difendersi, ha fretta di pensare a strategie per affrancarsi e riappropriarsi dell'emotività e dell'imprevedibilità, valori costitutivi che l'intelligenza umana ha e quella delle macchine no. Oppure soccomberà ai motori di ricerca. E' la tesi che Frank Schirrmacher, direttore della Frankfurter Allgemeine, espone nel suo nuovo libro, Payback, il saggio sociopolitico del momento in Germania.
Se rinunciamo all'imprevedibilità, all'elemento incalcolabile della mente umana, vivremo in un mondo in cui tutto è predestinato e deciso dalla matematica. Gli uomini si trasformeranno in realtà matematiche. Anche nel giornalismo, specie digitale, già lo vediamo: su molte testate l'inizio del pezzo deve essere scritto con certe parole-chiave secondo certi canoni, in modo che Google o gli altri motori di ricerca lo capiscano e lo captino. Cioè scriviamo per le macchine, non più per i lettori.
Oggi comunichiamo, leggiamo e scriviamo solo con i computer e la rete. Ma i computer non sono solo computer, bensì gigantesche reti di dati. Da alcuni anni è possibile, grazie all'immensa mole di informazioni in rete, elaborare calcoli molto precisi sugli individui. Veniamo sempre più trasformati in formule matematiche. La domanda è chi governa chi: noi il computer, o il computer noi? Nelle nostre società il multitasking, fare le cose più diverse contemporaneamente, è diventato una religione. Sms, e-mail, più finestre aperte sul computer e sempre in rete. Adesso cominciamo a renderci conto che il cervello umano non è in grado di padroneggiare costantemente questo processo
Strowger, uno dei massimi matematici americani, ha detto che la matematica negli ultimi anni ha risolto problemi di estrema complessità grazie ai computer, ma ormai conosce solo la soluzione, non il processo matematico che vi ci porta. Questo conduce a un nuovo autoritarismo delle macchine. E' pericolosissimo: può imporsi nella biologia, in ogni altra scienza, fino alla politica. Internet è importante e utile, ma sbagliamo a considerarlo un giocattolo. E' uno spazio vitale perfettamente capitalista. Google è una multinazionale per cui milioni di persone lavorano di fatto gratis. Come all'alba del capitalismo. Il mondo digitale ricorda la società industriale del 18mo secolo, con tutte le sue realtà di sfruttamento e accettazione di massa dello sfruttamento
Non sono contro internet ma l'aggressività che vi domina è un fenomeno della comunicazione digitale, e problemi di memoria e di concentrazione derivanti dall'uso della rete e del computer possono produrre una demenza digitale di massa. Siamo sempre più dipendenti dalle macchine. L'altro giorno ho chiesto a un collega quale musica preferisce. Non ha risposto subito, non aveva risposte spontanee pronte. Ha dovuto prima leggere sul suo Blackberry la lista dei brani scaricati. La comunicazione tra macchine e uomini può diventare come la musica. Larry Page, fondatore di Google, ha detto anni fa che la sua aspirazione è connettere Google direttamente col cervello. Quando i fratelli Wright fecero volare il primo aereo, non prevedevamo il livello tecnologico dei jet di oggi e il loro ruolo nel nostro quotidiano, invece la realtà è cambiata a fondo.
Facebook, nuova chiesa per gli italiani
Secondo Google «Emerge sempre più la diffusa propensione verso la socializzazione e la condivisione in rete, specchio di un’evoluzione e un arricchimento nelle modalità di concepire le relazioni: velocità di contatto, capillarità, comunanza a livello virtuale. Se non è una sorpresa, lo è la crescita esponenziale e inarrestabile di un fenomeno che non si sgonfia, ma registra ampi e smisurati consensi».
La libera impresa è il peggior nemico della povertà (secondo il Direttore di ricerca dell’Acton Institute, il prof. Samuel Gregg).
Per decenni ci è stato detto che l’aiuto allo sviluppo e le altre forme redistributive sono la soluzione alla povertà. Eppure i dati sono piuttosto inequivocabili nel dimostrare che questo non è vero e che questi interventi non producono un cambiamento sistemico. Anzi, spesso aggravano le difficoltà. Un altro problema è che gran parte dell’economia dello sviluppo è sottesa da ideologie profondamente materialistiche e da antropologie deformate. Ma noi sappiamo che la riduzione della povertà è solo in parte una questione economica e materiale. Essa ha anche dimensioni, morali, spirituali, giuridiche, culturali e istituzionali.
i cattolici sono spesso portatori di una capacità di comprendere certi elementi chiave per la riduzione della povertà, che è spesso più ricca delle idee articolate, per esempio, da laicisti convinti. Un vero materialista ha difficoltà a parlare del commercio e dell’impresa in termini non utilitaristici. L’utilitarismo – in qualunque sua forma – si dimostra, in definitiva, essere una posizione filosoficamente incoerente. D’altra parte, la Chiesa può affrontare le stesse realtà, sottolineando il fatto che i motori vitali della creazione della ricchezza, come l’impresa e il commercio, non funzionano se non sono permeati da certe virtù. Giovanni Paolo II lo aveva ricordato chiaramente nella sua enciclica Centesimus annus del 1991. Inoltre, la Chiesa è in grado di illuminare queste manifestazioni della creatività umana con un senso teologico e morale, sottolineandone così la valenza e l’importanza trascendente.
Muoversi contro l'odio di sé, che ci fa fare marmellate avvelenate con "mondo" e Islam (editoriale di Tempi, settimanale diretto da Luigi Amicone, in edicola da domani).
C’è una maggioranza schiacciante di illuminati che vorrebbe cancellare il cristianesimo dall’Europa. E c’è una maggioranza (relativa?) di ecclesiastici che non sa rispondere a questo pervasivo “odio di sé” se non con la convegnistica. La realtà è questa. C’è un dissidio senza precedenti tra élite e popolo. Un dissidio che in Svizzera si è manifestato nel voto referendario che, contro il parere di chiese, giornali, partiti e Parlamento – insomma, contro tutto l’establishment di potere – ha bloccato la costruzione di nuovi minareti. Dicono che è un “verdetto a sorpresa”. Dicono che ricorreranno a quella stessa Corte europea che ha appena sentenziato contro l’esposizione negli ambiti pubblici del simbolo cristiano per eccellenza
– la croce – per chiedere la messa in mora della volontà popolare. Errori marchiani.
Invece di piagnucolare dovrebbero riflettere sulle ragioni della distanza siderale che c’è tra gli “illuminati” e il “volgo disperso che nome non ha”. Eddo Rigotti, insigne linguista e fondatore della facoltà di Scienze della comunicazione della Svizzera italiana, sostiene che “la cultura, a differenza dell’ideologia, ha una dignità incontestabile che ci detta, tra l’altro, il rispetto dovuto a ogni cultura”. Visto da questa prospettiva, niente è più lontano da ogni dialogo e tolleranza interculturale di quell’ectoplasma ideologico e giuridico che chiamano “multiculturalismo”. “Il rispetto dell’altro – ricorda Rigotti nel suo libro Conoscenza e significato – è possibile solo a condizione che non trascuriamo noi stessi e apprezziamo la nostra radice culturale”. Imparino
la lezione i signori di Strasburgo e gli Zagrebelsky de noantri. Chi legifera, sentenzia e istruisce gli europei a buttare al vento le proprie radici cristiane, sia pronto a raccogliere la tempesta di cui il
voto svizzero sembra essere solo una primizia.
Il Vaticano prudente, cieco o superficiale?
Nel referendum sui minareti che si è svolto nella più antica democrazia europea, la Svizzera, la Santa Sede ha assunto la stessa posizione di chi, come i Verdi e la sinistra europea, alla Corte dei diritti umani di Strasburgo ha patrocinato la causa contro i crocefissi nelle scuole italiane. Mentre la stampa italiana sposava la tesi xenofoba, urlava contro i “fascisti alpini” ed eleggeva l’islamista sul libro paga dell’Iran, Tariq Ramadan, a difensore della libera spiritualità interreligiosa, era sconfortante notare come il Vaticano, per bocca dell’Osservatore romano e del Pontificio consiglio per i migranti, avesse adottato la stessa interpretazione della maggioranza degli opinionisti più conformisti. Come Tahar Ben Jelloun, con i suoi infingimenti sulla convivenza che vogliono far credere ai lettori che in Svizzera la libertà religiosa è stata messa al bando e che non è più possibile professare come prima l’islam. E’ grottesco pensare a come l’episcopato abbia usato le stesse parole dell’Organizzazione della Conferenza islamica e di Izzedin Elzir, portavoce dell’Ucoii, l’organizzazione dei Fratelli musulmani.
Il referendum in Svizzera era volto a impedire la costruzione di nuovi minareti in un paese dove, al momento, ne esistono quattro. Questo non ha nulla a che vedere con la libertà di professare la religione in luoghi di culto. La libertà religiosa è il grande, meraviglioso abisso che separa le democrazie liberali, l’occidente tutto, dai regimi islamici più o meno “moderati”. In Svizzera esistono duecento moschee e, nel referendum, non si menzionava né l’opzione di eliminarle, né l’opzione di bloccare la costruzione di nuove. Il messaggio arrivato dalla Svizzera è chiaro: siamo una storica patria di esuli e perseguitati, a nessuno sarà interdetto il diritto di culto, ma basta con questo sistema di dominio collaudato da quattordici secoli e che nei minareti ha i propri vessilli scenici e nella sharia un programma di governo. Con il loro patriottismo referendario gli elvetici, in modo pulito, non violento, democratico e liberalem, hanno detto no alla resa all’islamizzazione.
Due anni fa è scoppiata la guerra dei muezzin a Oxford. Tutto è cominciato come in Svizzera, quando la Oxford Central Mosque chiese di trasmettere con gli altoparlanti la preghiera. Il vescovo anglicano Michael Nazir-Ali disse che consentire il canto dei muezzin rappresentava il tentativo di “imporre il carattere islamico” al Regno Unito. Avrebbe dovuto essere questo il commento del Vaticano sul caso svizzero, non la solita stanca profferta multiculturale di accoglienza degli emigranti. Senza citare il problema della corsa all’altezza. In molte parti di Europa si cerca di fare i minareti più alti di qualunque cosa, soprattutto delle chiese. Caso da manuale è Betlemme, dove la comunità cristiana si sta estinguendo per l’islamizzazione massiccia. Come ci ha spiegato Samir Qumsieh, direttore di al Mahdeh, la televisione dei cristiani, “i muezzin gridano più forte vicino alle chiese. Dove una volta suonavano le campane ora si sentono soltanto le preghiere musulmane con gli altoparlanti a tutto volume. Tra vent’anni a Betlemme non ci sarà più un cristiano”. Con i loro orologi e le mucche pezzate, gli svizzeri non volevano fare la stessa fine. (IL Foglio 2. dic. 2009)
Da Giussani ad Alberto da Giussano, i cattolici si scoprono minoranza
Che l’Italia sia un paese cattolico – cioè fedele al cristianesimo romano universale – ormai lo credono solo i miscredenti. Cioè la maggioranza degli italiani. Le recenti e ripetute uscite
della Lega in difesa del crocifisso lo confermano. Ma ci sono soprattutto le caratteristiche del
“popolo” italiano che quasi nulla ha ormai a che vedere con quello del dopoguerra. I cattolici, in senso stretto, sono una discreta minoranza, culturale prima ancora che politica, così come lo
sono i post-comunisti: gli unici due “popoli” che hanno fatto l’Italia, sono ormai immersi nella società liquida, priva di idee più che di ideologie. Quando dalla metà degli anni Cinquanta don Luigi Giussani si propose un radicale intervento di ricristianizzazione della società italiana pochi capirono che il grande prete di Desio aveva mostrato una sensibilità più acuta di presunti intellettuali o giornalisti. Loro continuavano a etichettare il paese come “servo” (o “figlio” per i più benevoli) della Chiesa cattolica. Invece, al più, l’Italia del boom economico era democristiana. Cristiana sempre meno, almeno nel senso del cristiano cattolico. Lui aveva avvertito che il paese e la chiesa non assomigliavano più a quelli che aveva conosciuto nella formazione della sua vocazione cristiana e sacerdotale. Spiriti protestanti si erano diffusi nel sentimento del paese reale, così come nella gerarchia ecclesiale. L’individuo aveva progressivamente preso il suo
posto distinto e separato all’interno del popolo. Il sistema relazionale si era laicizzato e ridotto a sistema di potere. Era rimasta una profonda vena solidaristica, di forte cultura cattolica, ma sempre più disinteressata alla politica, se non nel momento in cui chiedeva l’essenziale per vivere, scambiando il voto con la richiesta di qualche necessario sussidio. I cattolici erano fuori
dalla cultura e da tutte le altre casematte gramsciane. La scuola innanzitutto. Il sistema mediatico. I grandi centri del potere economico. I cattolici in Italia hanno continuato a vivere accettando di operare in un paese non più loro. I più lucidi hanno vissuto di missione. I più
generosi non si sono chiesti nulla, se non la conversione e la solidarietà. Ma la storia non si ferma: la Dc che crolla come un guscio vuoto non può essere spiegata solo dal fervore della magistratura del’92. Vuol dire che dietro e dentro la Dc era cambiato il paese. E pochissimi se n’erano accorti. Da settimane in Italia rimbalzano le polemiche sui crocifissi, ma non s’è mai vista una manifestazione come quella spagnola sull’aborto, o come quelle francesi di qualche anno fa. Una croce c’era (forse) sullo scudo di Alberto da Giussano. Una croce c’era (certamente) sullo scudo della Democrazia cristiana. La croce brandita dalla Lega è ormai depurata dal crocifisso. La croce è innalzata solo come insegna ostile alla mezzaluna. Perché così è ormai la croce per la gran parte degli italiani, senza memoria, senza storia, senza identità, né cristiana, né altra. La Lega ha visto i cittadini italiani sradicati dal loro passato, dopo anni di risacca scolastica, mediatica, culturale. Il
successo di opinione della Lega si spiega in questa capacità di conoscere la realtà del paese: un paese protestante, ma senza chiese protestanti, senza etica protestante, senza integralismo religioso protestante. E certamente non più cattolico, se non in una sua parte largamente minoritaria. (Marco Barbieri, Il foglio 2.12.2009)
In Europa poche moschee? Falso, ecco tutti i numeri
Un recente studio, presentato ieri a Bruxelles ai sindaci delle maggiori città europee, dimostra che esiste un luogo di culto ogni 1840 musulmani. Come nei paesi islamici. E tra chiese e cristiani il rapporto è lo stesso.
Forse vale la pena di ricordare quanto, pochi giorni fa, ha affermato il Cardinale Vinko Puljić, Arcivescovo di Sarajevo e Presidente della Conferenza Episcopale Bosniaca: “I petrodollari aiutano a costruire molte moschee e centri islamici e provocano un cambiamento di mentalità: contro il cristianesimo e specialmente contro i cattolici”. “A fine ottobre, il Ministro degli Esteri turco, Ahmet Davutoglu, ha detto a Sarajevo che lo scopo della politica turca è la nuova ascesa dell’impero ottomano nei Balcani, come nel XVI secolo: nessuna voce in Europa e in America si è levata in segno di protesta. A Fiume e a Colonia si dà il permesso per costruire le moschee e questo è giusto, ma perché nessuno guarda a come vivono i cattolici a Sarajevo o in Turchia? Occorre affermare la reciprocità, non contro qualcuno, ma positiva, per il bene di tutti”. (Fausto Biloslavo www.faustobiloslavo.eu)
A scuola di masturbazione. Fosse una manifestazione di humour, sarebbe strepitosa. Invece è un progetto reale avviato dalla giunta dell'Estremadura
La stampa spagnola informa che la giunta della regione dell’Estremadura non ha trovato di meglio, per migliorare la cattiva qualità degli apprendimenti (come si usa dire nel gergo burocratico-didattico), che promuovere una formazione sessuale avanzata degli alunni. E come? Attraverso dei corsi di tecniche di masturbazione. Sì, avete capito bene, di masturbazione. La nuova materia si chiamerà “Il piacere è nelle tue mani”… Se fosse una manifestazione di senso dello humour e di autoironia sarebbe strepitosa. Purtroppo non lo è, perché il progetto preparatorio per “Il piacere è nelle tue mani” costerà 14 mila euro ai cittadini.
L'Emilia Romagna approva le unioni di fatto e il Card. Caffarra risponde senza giri di parole, ma con parole di Verità
E’ la novità inserita nella legge finanziaria regionale dell’Emilia Romagna. “Un elemento di antidiscriminazione che allarga la platea dei cittadini che utilizzano i servizi sociali”, come l’ha definita il governatore della regione, Vasco Errani. O ancora “un escamotage subdolo per introdurre un precedente legislativo”, come precisa il consigliere regionale del Pdl, Andrea Leone. Si può dire in tanti modi, resta il fatto che all’interno della Finanziaria 2010, l’Emilia Romagna approverà un equiparazione tra famiglie e coppie di fatto. L’articolo 42 del testo, infatti, parla di “diritto ad accedere ai servizi pubblici e privati in condizioni di parità di trattamento e senza discriminazione, diretta o indiretta, di razza sesso, orientamento sessuale, lingua, religione, opinioni politiche, condizioni personali e sociali”. In pratica sul territorio emiliano romagnolo ci sarà l’equiparazione totale delle coppie, veri e proprio Dico.
Alcuni brani della dichiarazione del Card. Caffarra
"Chi non riconosce la soggettività incomparabile del matrimonio e della famiglia «ha già insidiato il patto di cittadinanza nelle sue clausole fondamentali». E’ ciò che fareste, se quel comma fosse approvato: un attentato alle clausole fondamentali del patto di cittadinanza.
Non sto giudicando le vostre intenzioni: nessuno ha questo diritto. Ma l’introduzione di una norma giuridica nel nostro ordinamento regionale, è un fatto pubblico che veicola significati che vanno ben oltre le intenzioni di chi lo compie.
L’approvazione eventuale avrebbe a lungo andare effetti devastanti sul nostro tessuto sociale.
Il matrimonio e la famiglia fondata su di esso è l’istituto più importante per promuovere il bene comune della nostra regione. Dove sono erosi, la società è maggiormente esposta alle più gravi patologie sociali.
La prima erosione avviene quando si pongono atti che obbiettivamente possono far diminuire la stima soprattutto nella coscienza delle giovani generazioni, dell’istituto del matrimonio e della famiglia. E ciò accadrebbe se al matrimonio e alla famiglia, così come sono costituzionalmente riconosciuti, venissero pubblicamente equiparate convivenze di natura diversa. Vi prego di riflettere seriamente sulla responsabilità che vi assumereste approvando quella norma.
Parlare di discriminazione in caso di non approvazione non ha senso: se è ingiusto trattare in modo diverso gli uguali, è ugualmente ingiusto trattare in modo uguale i diversi. Non sto dando giudizi valutativi di carattere etico sulla diversità in questione. Sto parlando della logica intrinseca ad ogni ordinamento giuridico civile: la giustizia distributiva è governata dal principio di proporzionalità.
Inoltre, coll’eventuale approvazione del comma suddetto obbiettivamente voi dareste un contributo alla credenza falsa e socialmente distruttiva che il matrimonio sia una mera “convenzione sociale” che può essere ridefinita ogni volta che così decida una maggioranza parlamentare.
Il matrimonio è una realtà oggettiva sussistente in una unione pubblica tra un uomo e una donna, il cui significato intrinseco è dato dalla sua capacità di generare, promuovere e proteggere la vita. Volete assumervi la responsabilità di porre un atto che per sua logica interna muove la nostra Regione verso una cultura che va estinguendo nel cuore delle giovani generazioni il desiderio di creare vere comunità famigliari?
Qualcuno potrebbe pensare che il comma in questione è una scelta di civiltà giuridica: estende la sfera dei diritti. Dato e non concesso che così fosse, ogni estensione dei diritti deve essere pensata nell’ambito del dovere fondamentale di difendere e promuovere il bene comune. Se così non fosse, si costruirebbe e favorirebbe una società di egoismi opposti. Credo di poter dire che nulla è più contrario alla nostra tradizione emiliano-romagnola, anche di governo, di questa visione della società.
Aborto "sbagliato", chiesto il risarcimento di un milione. Voleva abortire la gemella down, l'intervento uccise la gemella sana
L’avvocato della coppia, Davide Toscani, ha chiesto un milione di euro di risarcimento: «Si tratta della perdita di una vita umana – ha spiegato –, dell’impossibilità di questa coppia di avere in futuro una nuova gravidanza per il trauma subito». Nessuna condanna o risarcimento, ha aggiunto Toscani, «darà mai ristoro a questa coppia». La sentenza, dopo le eventuali repliche delle parti, è attesa per il prossimo 14 dicembre, ma difficilmente riuscirà a dipanare i dubbi che l’intera vicenda suscita, cartina di tornasole di una mentalità di scarso rispetto per la vita. L’aborto selettivo infatti sembra non porre alla magistratura alcun dubbio di compatibilità con la legge 194, come dimostra il pm che apprezza la precisione con cui adesso si identificano i feti da eliminare se dovessero ripetersi casi simili. Tutti i mezzi sembrano adeguati per «inseguire» un bambino con sindrome di Down (o altre malformazioni) e impedirgli di nascere. Ci si può domandare infine quale messaggio si voglia mandare all’intera società: se un bambino abortito per errore vale un milione di euro, quanto vale la vita di un bambino con sindrome di Down?
La tragica e stupenda storia di Blanca, graziata dall'amore di Dio
Blanca oggi è una ragazza di ventidue anni. È arrivata alla clinica Divina Providencia non perché malata fisicamente, ma per stare vicina a Don Lucio, suo attuale compagno di vita e malato terminale di cancro. La loro storia è quella di due vite disperate, e in queste ultime settimane è diventata drammatica ma al tempo stesso si è colmata di pace. Assieme al compagno Lucio, molto più anziano di lei, Blanca ha avuto due bambini. Da due settimane hanno deciso di sposarsi qui, nella clinica. Il motivo: «Padre, desideriamo stare in pace con il Signore. Padre, voglio morire in pace e lasciare alla mia donna la certezza di morire in grazia di Dio». Nel paradiso che è la clinica, questo è un ritornello ripetuto da molti pazienti terminali: «Vogliamo sposarci in Chiesa per morire in grazia di Dio». Una prova chiara del fatto che non esiste un amore, una relazione autentica e di conseguenza capace di dare la pace, l’allegria al cuore, che non sia anche relazione con l’Infinito. Sono pazienti analfabeti, che vengono dalla strada, vite spese per lo più seguendo l’istinto di sopravvivenza. Che però, quando hanno incontrato lo sguardo di qualcuno, con la piena coscienza che “Io sono Tu che mi fai”, come per osmosi hanno percepito che solo nella relazione con l’Infinito l’uomo incontra la vera pace. Don Lucio incontrò Blanca in un momento disperato della vita di lei. Fin da piccola era stata oggetto di qualsiasi violenza sessuale da parte del padre. La “madre”, come molte donne paraguaiane, ridotta a oggetto, viveva come ipnotizzata e impotente anche solo a reagire verbalmente davanti alla bestia che era suo marito. Un giorno un vicino a cui piaceva la ragazza si avvicinò alla “famiglia” offrendosi di comprarla. Al “padre” non sembrò vero, e per soddisfare il suo alcolismo la vendette per dieci litri di vino. Da quel momento per Blanca si spalancarono le porte dell’inferno. Visse con un’altra bestia per qualche anno, vittima di ogni tipo di violenza e oltraggi, avendo da lui anche dei figli. Però una notte, disperata per la tortura cui era sottoposta, approfittando dell’ubriachezza dell’uomo, riuscì a fuggire portandosi via le sue creature. Camminarono per alcuni giorni nel cosiddetto inferno verde: il Chaco paraguaiano, un deserto pieno di cactus, serpenti e belve feroci. Stanchi, affamati e assetati cercavano un rifugio. È così che Blanca e i suoi figli sono giunti all’umile casa di Don Lucio, che aveva quarant’anni più di lei. L’uomo, molto povero e molto solo, la accolse con affetto in casa sua. La verità è che nell’inferno del mondo, e anche nelle circostanze più avverse, Dio ci mette sempre davanti una perla preziosa: qualcuno col cuore di carne, segno e rifugio per i disperati.Don Lucio subito la protesse, le diede una casa e l’affetto, quell’affetto umano che nasce da una ragione che nonostante tutto vive aperta al Mistero, sostenuta da un’umile religiosità contadina, frutto della prima evangelizzazione. La vita di Blanca e dei suoi figli cambiò. Gli anni della violenza rimasero alle sue spalle.Purtroppo la convivenza durò solo pochi anni, perché repentinamente Don Lucio si ammalò di cancro. Durante i lunghi giorni che aveva passato al fianco del suo compagno, a chi le domandava, sorpreso dalla differenza di età, il perché di un affetto così grande, Blanca rispondeva: «Lui è stato l’unico che mi ha amato senza chiedere niente in cambio, quando persino i miei genitori mi hanno venduto per dieci litri di vino». Davvero: solo l’incontro con un’umanità nuova carica di gratuità permette a qualsiasi essere umano – non importa cos’ha passato – di scoprire che uno non è mai esclusivamente frutto dei suoi antecedenti, del suo passato, ma relazione con l’Infinito. E quando scopre quest’ontologia del suo essere, la libertà torna ad essere il respiro pieno di speranza della vita. Nemmeno il fatto di essere stata venduta per dieci litri di vino ha potuto impedire a Blanca di formare un giudizio, e di poter dire adesso “io”, con la certezza di appartenere a un Mistero più grande di quella vita di miserie che si porta dietro. (Tempi)