DISCERNERE

Uno sguardo profetico sugli eventi

C’è soltanto un uomo amico del pianeta, l’uomo che non c’è. Un fiorente impero costruito sulla eco-colpevolizzazione

Roma. La sua fortuna, Mathis Wackernagel
l’ha trovata nell’invenzione dell’“impronta
ecologica”. Fondatore e presidente
dal 2003 del Global Footprint Network –
sul cui sito ciascuno può fare esercizi di
eco-colpevolizzazione, dopo aver calcolato
il proprio peso sulle risorse della terra – il
quarantasettenne Wackernagel (nato in
Svizzera e californiano d’adozione) ha elaborato
nel 1996, con il collega William
Rees, il concetto di “impronta ecologica”,
“il primo strumento mondiale di misura
della domanda umana sulla natura”. Si
tratta, in pratica, di un modello matematico
per calcolare l’area di terra e la quantità
di acqua necessarie per rigenerare le
risorse consumate da una certa popolazione
umana e per assorbirne i rifiuti e l’inquinamento.
Già oggi, sostiene Wackernagel, per reggere i livelli di consumo attuali
avremmo bisogno di una terra più grande
di un quarto. Spiega anche che, se nel
1961 l’umanità usava il settanta per cento
della capacità globale della biosfera e nel
1986 il cento per cento, già nel 1999 era arrivata
al centoventi per cento. Nel 2050, di
questo passo, si raggiungerà il duecento
per cento: è quello che il Global Footprint
Network chiama “sovrasfruttamento delle
risorse”, alla lotta contro il quale dedica
ogni anno un Earth Overshoot day. La data
cambia ogni anno, perché la ricorrenza
marca il giorno in cui l’umanità comincia
a intaccare le riserve, dopo aver consumato
quello che la terra può produrre nell’arco
di dodici mesi. L’Earth Overshoot Day
2009 è stato il 25 settembre. Da allora fino
al 31 dicembre, ammonisce Mathis
Wackernagel, tutto ciò che consumiamo è
puro “debito ecologico” alle spalle delle
Wackernagenerazioni
future. Nemmeno la crisi ha
giovato granché, visto che – sempre secondo
i calcoli del Global Footprint Network
– nel 2008 l’Earth Overshoot day era scoccato
il 23 settembre. Soltanto due giorni in
più nel 2009, e dopo il solito diluvio.
Lo spauracchio agitato con un certo successo
dal Global Footprint Network (ormai
a calcolare con il suo aiuto la propria impronta
ecologica sono intere nazioni, municipalità,
aziende) altro non è che l’ultima
rimasticatura delle teorie che da Paul
e Anne Erlich, passando per Aurelio Peccei
e il Club di Roma e per il Worldwatch
Institute di Lester Brown, propongono la
litania del limite delle risorse e dei pericoli
della crescita demografica, per arrivare
alla costruzione di quel vero totem multiuso
chiamato “sviluppo sostenibile”, santificato
nella conferenza che nel 2002 gli fu
dedicata a Johannesburg dalle Nazioni
Unite. L’uomo come nemico della terra,
anzi, come nemico tout court: questo è l’esito,
nemmeno troppo nascosto, della filosofia
dello sviluppo sostenibile, anche nella
sua espressione più mite, quella che invita
semplicemente a consumare meno –
a pesare meno sul pianeta, quindi – per
lasciare un mondo in buone condizioni a
chi verrà dopo (ma sempre tenendo a
mente che, dopo, meno si sarà meglio
sarà). A questo proposito, Mathis Wackernagel
ha raccontato da Copenaghen al
Corriere della Sera di aver rinunciato al
secondo figlio per non pesare troppo sull’ecosistema,
e di non disdegnare le scatolette
scadute. Il bilancio della sua impronta
ecologica, però, è disastrosamente
penalizzato dal fatto che, per lavoro, è costretto
a prendere parecchi aerei. L’impronta
ecologica ideale, insomma, è quella
dell’uomo che non c’è