DISCERNERE

Uno sguardo profetico sugli eventi

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Il vulcano ha eruttato gli apocalittici-integrati

Amano la natura e odiano l’artificiale: farmaci, nucleare e ogm Sono in attesa del cataclisma definitivo. E la scienza? La ignorano
di Massimiliano Parente
Si può sapere chi ha inculcato alla persone l’idea che naturale è bene e artificiale è male? A rispondere «i comunisti» si passa per essere troppo berlusconiani, a rispondere «i cattolici» per troppo parentiani. Eppure sembra passata un’era geologica dalla fortunata contrapposizione tra «apocalittici e integrati» di cui non si sente neppure più l’Eco ormai. Gli apocalittici erano in genere marxisti e vedevano nell’Occidente il male peggiore, gli integrati erano gli altri, i figli dei vecchi borghesi, i conservatori, i liberali, gli ingenui, i collaborazionisti.
Gli apocalittici sono spariti? Magari. Si sono moltiplicati e siamo invasi dai loro Ogm, i loro replicanti mutanti, gli apocalitticintegrati, che sono poi gli stessi di prima arrivati al potere della comunicazione (non dovevano portarci la fantasia al potere? Perché ne hanno così poca?). E se non timbri il cartellino dell’apocalittico non sei integrato, non sei assumibile in alcuna redazione impegnata, non solo a Repubblica o all’Unità o al Fatto quotidiano ma neppure nei blog seri, e cioè alternativi, anche se leggendoli sono tutti uguali. Come la vecchia parodia morettiana dei giovani comunisti in Palombella Rossa: «Siamo diversi ma siamo uguali ma siamo diversi ma siamo uguali...». Infatti ciascuno ha il suo catastrofismo specifico, l’importante è farsi paladini della natura. Oh natura natura,/ perché non rendi poi/ Quel che prometti allor? Perché di tanto/ Inganni i figli tuoi?
Mai li ha ingannati come oggi, a Leopardi prenderebbe un infarto. Il catastrofismo deve essere sempre globale, planetario, cosmico, e sempre e comunque colpa dell’uomo moderno, alla fine stringi stringi è la trama di Avatar. Tanto per dirne una, questi mutanti dei vecchi marxisti ortodossi sono contrari all’inquinamento energetico ma anche al nucleare, tornato recentemente di moda come uno spauracchio. Le centrali nucleari cattivissime e artificialissime, che però, osservano gli scienziati tra cui il premio Nobel per la medicina Christian De Duve, sono al momento l’unica forma di energia pulita.
Sul web, tra i tanti, il top del marxismo apocalittico orfano di Marx e del Pci e del Muro di Berlino è il sito Il primo amore, che come scenari supera perfino Beppe Grillo, Al Gore e LifeGate, lì persino le eruzioni vulcaniche - come il recente caso islandese - sono causate dall’uomo. Se ci entrate dentro non ne uscite vivi. Per esempio, scrive Carla Benedetti: «Il riscaldamento globale non provoca solo lo scioglimento dei ghiacci in superficie, ma ha anche conseguenze profonde sulle attività vulcaniche, che aumentano e aumenteranno di conseguenza». Secondo Tarabbia si va verso la «disintegrazione dell’umano», mentre per fortuna Maria Pace Ottieri, tornando dall’India, ci ricorda che «siamo una specie e che la natura non ci appartiene, siamo noi ad appartenerle. E non sarà la natura a venire distrutta, ma la specie umana». Interviene anche Antonio Moresco con una lucida analisi su «cosa succederà di qui a pochi decenni se anche solo la quarta parte di quanto è purtroppo previsto si avvererà: migrazioni umane, esplosione delle strutture politiche e sociali, ingovernabilità, satrapie e concentrazione ulteriore del potere economico, politico e militare per riuscire a far fronte alla situazione senza arretrare di un pollice, per contenere masse umane atterrite prive di riferimento, prospettiva e governo». Sono diversi ma sono uguali ma sono diversi ma sono uguali ma al contempo non si capisce perché non li assumano a Hollywood come sceneggiatori dei film di Roland Emmerich.
Il bello è che gli apocalitticintegrati dicono di opporsi all’antropocentrismo ma ne sono inconsapevoli sostenitori, perché considerano l’uomo non in quanto parte della natura ma portatore di una missione speciale: distruggere il pianeta. Dimenticandosi oltretutto di essere, gli apocalitticintegrati, solo esseri umani, e che l’uomo e qualsiasi altro animale costituiscono solo l’1% delle specie sopravvissute da 570 milioni di anni a oggi, e cominciando a contare dagli eucarioti in poi, perché diventano tre miliardi e mezzo di anni se prendiamo anche i procarioti.
Gli apocalitticintegrati, a proposito, sono marxisti Ogm eppure sono contrari agli Ogm, sono favorevoli piuttosto a tutto quello che accade in natura, come se la natura fosse buona e non l’immane campo cosmico di sterminio che è.
Sono in genere vegetariani, antifarmacologici (sebbene la vita media delle civiltà prefarmacologiche fosse la metà della nostra e sebbene gli stessi apocalitticintegrati in stato di emergency combattano contro le multinazionali per mandare i farmaci nei Paesi in via di sviluppo o Paesi Emergenti o Paesi Poveri o Terzo Mondo o come preferiscono chiamarli) e dividono il mondo in naturale e artificiale. Per calmarsi prendono ogni tipo di intruglio o tisana o boccetta omeopatica e ti guardano male se ti scappano nomi di molecole a te familiarissime come alprazolam o citalopram o rizatriptan, come se ogni nostra cellula non fosse un mostruoso, spaventoso laboratorio chimico.
Si potrebbe, a scopo educativo, e non nelle scuole bensì tra gli adulti apocalitticintegrati naturalisti antiscientifici, riproporre il test che Nathan Zohner, uno studente americano quattordicenne, propose ai suoi compagni di classe di Eagle Rock. Un giorno del 1997 li invitò a firmare una petizione per bandire il monossido di di-idrogeno dal mondo, con le seguenti gravissime motivazioni: 1) è uno dei componenti principali delle piogge acide; 2) finisce per sciogliere quasi tutto quello con cui entra in contatto; 3) se inalato accidentalmente può uccidere; 4) allo stato gassoso può produrre ustioni gravi e 5) è stato trovato nei tumori di malati terminali di cancro. Tutte cose verissime. Il giovane Zohner ottenne 43 firme su cinquanta interpellati. Gli altri non si fecero fregare e trovarono al contrario molto pericoloso abolire l’acqua dall’ambiente.


«Il Giornale» del 7 maggio 2010

Al Gore premio Nobel: che vita eco-sostenibile!

Al Gore, quello che ci invita a vivere con parsimonia, coltivando uno stile di vita sostenibile, eco-compatibile, etc. etc., si è comprato una mega-villa da quasi NOVE MILIONI DI DOLLARI (per l'esattezza $8,875,000) con vista sull'oceano, 1.5 acri di terra, piscina, terme, fontane, 6 caminetti (sai quanta CO2!) 5 camere da letto e 9 (dico NOVE) bagni... ma tireranno lo sciacquone solo una volta la settimana, vedrete... anzi, sentirete (la puzza)! ;-)



© Copyright Gino

Bidoni e bufale. Perché il mito della raccolta differenziata è un inutile spreco di tempo e di denaro

di Paolo Togni
Riporta il Mundo che nei mesi di
novembre e dicembre del 2009
gli impianti fotovoltaici della Spagna
– che traducono in energia l’irraggiamento
solare – hanno prodotto
in otto ore giornaliere di attività
seimila megavattora di energia elettrica,
per la quale i loro gestori hanno
incassato quasi tre milioni di euro
di incentivi statali relativi alla
produzione di “energia pulita”.
Niente da rilevare in proposito, se
non che tale produzione è avvenuta
tra le ventitré e le sette di mattina,
cioè in un periodo nel quale, specialmente
in inverno, l’oscurità è totale
e il sole non brilla affatto. Del
resto lo stesso autorevole quotidiano
informa che nello stesso periodo i
campi fotovoltaici della Castiglia
hanno lavorato al 65 per cento del loro
potenziale tra la mezzanotte e le
una del mattino, contro una prestazione
del 16 per cento circa tra le dodici
e le tredici. Questi dati non sono
invenzione giornalistica, ma frutto
ufficiale delle rilevazioni della Cne,
la Commissione nazionale spagnola
per l’energia, la quale attribuisce il
dato sorprendente al fatto che l’energia
dichiarata “verde” e “da fonte
rinnovabile” sia stata di fatto prodotta
utilizzando potenti motori diesel
e gli idrocarburi che tali macchine
consumano nella loro attività.
L’informazione non deve stupire: è
regola che dati e fatti diffusi dai
conformisti verdi e da coloro che
strumentalmente vi si insinuano siano
falsi, così come i loro comportamenti
tendano al truffaldino e come
le loro teorie siano in effetti per lo
più ipotesi non comprovate e poco
plausibili spacciate per verità sacrosante,
a fine di lucro (spesso) o allo
scopo di acquisire influenza sull’opinione
pubblica e sulle istituzioni.
In effetti, molte delle parole d’ordine
del conformismo ambientalista
sono prive di significato, asserzioni
false basate su premesse errate, in
buona fede o in mala fede che questo
avvenga. Basterà ricordare la
panzana della inesistente fragolapesce
Ogm; la pretesa pericolosità
del cosiddetto elettrosmog, negata
da tutte le statistiche mediche; il sostegno
ai prodotti agricoli biologici,
dei quali sono tutte da dimostrare la
superiorità rispetto a quelli oggetto
di trattamenti chimici e la non nocività,
negata da Umberto Veronesi; il
progressivo peggioramento delle
condizioni dell’atmosfera, che invece
sono drasticamente migliorate
negli ultimi decenni (basta guardare
i dati volendo vederli); e, per chiudere
questo che non è neanche un
abbozzo di indice, ma solo un richiamo
per esempi sporadici, la menzogna
dell’origine antropica del riscaldamento
della Terra, che sta dando
luogo alla più grande truffa della
storia e rischia di mettere in crisi
l’economia del mondo sviluppato e il
nostro stesso futuro. Su ognuno di
questi argomenti ci sarebbe da intrattenerci
a lungo, e col permesso
dei superiori forse lo farò.
Fermo dunque restando che mai
come nei nostri tempi tanti uomini
hanno goduto di condizioni di vita
tanto buone, come è anche dimostrato
dai dati sulle aspettative di vita,
è comunque pur vero che ci troviamo
ad affrontare problemi ambientali
realmente incombenti; i
quali, però, postulano un approccio
migliorista, nel senso che occorre
avvicinarsi progressivamente ad
uno stato di cose più soddisfacente,
laddove un approccio integralista
potrebbe condurre a contraccolpi
pesanti sulla produzione e sul benessere.
Chiarito che il primo problema
ambientale sono ambientalisti
e verdi, che sollevano problemi
inesistenti e sostengono soluzioni
cervellotiche, è sicuro che deve migliorare
ancora la qualità dell’aria,
proseguendo nell’andamento già
evidenziato, e che ciò non può essere
ottenuto impedendo il riscaldamento
e i trasporti; deve migliorare
la qualità delle gestioni idriche, che
oggi sono insufficienti soprattutto
dal punto di vista del trattamento
dei reflui; occorre procedere alle
bonifiche di una infinità di siti inquinati,
fin qui impedita da normative
talebane e da gestioni amministrative
che – applicando la regola
somma della burocrazia – volevano
rendere difficile il facile attraverso
l’inutile, e ci riuscivano perfettamente;
bisogna provvedere alla messa
in sicurezza di gran parte del territorio
nazionale, fragile per sua natura
e martoriato da improvvide iniziative
immobiliari; è necessaria
una finalmente intelligente tutela
della biodiversità, che superi posizioni
stolidamente estremiste e concili
la presenza dell’uomo sul territorio
con la presenza delle specie
animali e naturali presenti.
E c’è il problema dei rifiuti cui
trovare una soluzione strutturale. Si
tratta di un problema presente in
Italia e in alcuni paesi in via di sviluppo:
in moltissime società sviluppate,
infatti, tale problema è ottimamente
risolto.
I dati della questione sono abbastanza
semplici: ogni uomo nella sua
vita produce quotidianamente una
certa quantità di materiali da smaltire,
i rifiuti appunto, che sono detti
Rsu (rifiuti solidi urbani) e sono in
quantità più o meno proporzionale
al livello di vita del produttore. Ogni
processo industriale produce giornalmente
una certa quantità di materiali
da smaltire: i rifiuti così detti
industriali, per la loro origine. I rifiuti,
Rsu o industriali che siano, per
ovvi motivi devono essere smaltiti,
cioè eliminati. Ciò può avvenire accantonandoli
dove non diano fastidio
(la discarica) oppure distruggendoli
(le varie forme di incenerimento). O
riutilizzandoli, se ciò sia possibile:
nel qual caso non si deve più parlare
di rifiuti, ma di materie prime secondarie.
Poiché comunque si tratta
di sostanze alcune delle quali possono
dare fastidio o addirittura creare
rischi per la salute, il loro smaltimento
o il loro riutilizzo deve avvenire
secondo regole precise e fornendo
alla cittadinanza tutte le necessarie
garanzie igienico sanitarie.
E’ evidente che la soluzione migliore
è quella del riutilizzo dei rifiuti,
che consente anche un forte
risparmio di materie prime vergini;
tuttavia l’atteggiamento “panrifiutista”
di ambientalisti, magistrati e
legislatori ha molto limitato nel nostro
paese la possibilità di riutilizzo
dei residui, finché nel 2006 una
nuova legislazione, recepita poi da
una direttiva europea del 2008, non
ha reso più semplice e fluida l’operazione.
Ho detto che in tutto il mondo civile
i rifiuti non sono più un problema,
anzi la loro gestione, che avviene
in genere a costi molto inferiori
rispetto a quelli italiani, è un importante
comparto economico, e genera
utili significativi. Il motivo di questa
differenza è semplice: in altri paesi
(e in poche, virtuose, situazioni locali
italiane) si è organizzato il ciclo
dei rifiuti in maniera strutturata. In
esso le varie attività – raccolta, selezione,
smaltimento – concorrono a
formare una vera e propria realtà
industriale, gestita da un soggetto
imprenditore qualificato, nella quale
tutto è organizzato e coordinato
secondo i migliori parametri tecnici,
e al fine di produrre profitto. Che, in
genere, è tutt’altro che scarso.
Il ciclo virtuoso e non parassitario
dei rifiuti prevede, naturalmente,
che una significativa percentuale
degli stessi sia mandata a termovalorizzazione:
in alcuni paesi quasi il
settanta per cento del raccolto fa
questa fine. Non in Italia, però. Per
tanti motivi, il principale dei quali è
l’estrema difficoltà, talvolta l’impossibilità,
di realizzare impianti di
combustione. Le cause di questa difficoltà
di concretizzare opere utili
per la comunità sono diverse: certamente
una quota importante di queste
ricade sulla incapacità e sull’ignoranza
di amministrazione dei gestori
pubblici. Se non si riesce a realizzare
una piscina nel rispetto della
normativa esistente, perché si dovrebbe
riuscire con un termovalorizzatore?
Tanto più che contro la
costruzione di un inceneritore si risvegliano
pulsioni potenti: l’ignoranza
e la paura, che, combinate insieme,
costituiscono una miscela
esplosiva.
Nelle persone in buona fede c’è la
paura per i danni che potranno derivare
alla salute dei cittadini, quindi
anche alla propria; ed è giustificata
dall’ignoranza delle condizioni
reali di operatività di un impianto di
termovalorizzazione, che è obbligato
a lavorare a temperature talmente
alte da impedire la formazione di
composti dannosi. In effetti le diossine
non possono formarsi sopra i
novecento gradi, e per legge un termovalorizzatore
non può funzionare
sotto i milleduecento. Se poi aggiungiamo
che sull’argomento chiunque
parla a schiovere, ci troveremo ad
ascoltare frasi tra l’esoterico e il biblico:
“L’inceneritore è il diavolo!”
ha affermato nella fase più calda
dello scontro il vescovo di Acerra.
Ora, è vero che il magistero della
chiesa riguarda principalmente gli
argomenti spirituali, e quindi tutti
hanno il diritto di mettere in non cale
affermazioni su questa materia,
ma la prudenza è pur sempre una
virtù che i cristiani sono chiamati a
esercitare sempre, e specialmente
quando si tratta di temi che già di
per sé hanno infiammato l’opinione
pubblica. Resta da dire poi che, come
hanno esaurientemente dimostrato
gli approfonditi studi dell’Epa,
le diossine, e in quantità notevole,
vengono prodotte dai rifiuti deposti
in discarica: ma a questo nessuno
pensa.
D’altro canto, resa difficile la realizzazione
dei termovalorizzatori, accertata
la scarsa salubrità dello
smaltimento in discarica, occorreva
pur trovare una soluzione per il problema
dei rifiuti. E così viene alla
luce un altro totem del conformismo
ambientalista: la raccolta differenziata,
che da molte teste deboli o
vuote, e da qualche illuso, è vista come
la panacea di tutti i mali, la soluzione
per tutti i problemi; chi non la
pratica viene messo all’indice e additato
come un sozzo mascalzone,
nemico del bene comune. Come molti
miti, anche questo è frutto di una
micidiale combinazione di interessi
e ignoranza, di propensione al burocratismo
e di nostalgia per forme
più penetranti di limitazione della
libertà.
Come è evidente di per sé, la raccolta
differenziata va bene se è parte
di un processo organico e coerente,
che regga dal punto di vista economico
e ambientale: essa sarà praticabile
e opportuna se, e solo se, il
suo bilancio sarà positivo. Il controllo
sulla validità del ciclo economico,
però, sarebbe possibile solo se fosse
rispettata la legge che stabilisce
l’obbligo della gara per assegnare il
servizio, e a oggi tale norma è disattesa
in maniera praticamente totale:
il servizio spesso viene affidato a società
capziosamente definite pubbliche,
ma che sono in effetti controllate
dalle forze politiche territorialmente
dominanti, e il cittadino utente
paga il conto a piè di lista, contribuendo
così al finanziamento di
quel mondo parapolitico che è una
delle peggiori iatture italiane.
A questo processo contribuisce
anche la raccolta differenziata: infatti
occorre chiarire che raccogliere
i rifiuti in forma differenziata costa
alquanto più che raccoglierli in
modo indifferenziato, anche se una
logica corretta vorrebbe che i ricavi
della vendita dei materiali differenziati
debbano almeno coprire tali
costi. L’Unione europea ha pienamente
condiviso questa opinione, e
nella più recente Direttiva sui rifiuti
(dicembre 2008) dispone che la
raccolta differenziata sia fattibile a
condizione che sussistano necessità
di carattere economico o ambientale:
non dispone, in proposito, né obblighi
né obiettivi quantitativi. Diversamente
la legge italiana, che
stabilisce, con una norma del 2006,
l’obbligo per i comuni di arrivare al
65 per cento per cento di differenziazione
nel 2013. Che una norma
del 2006 non sfrutti tutta la potenzialità
offerta da una direttiva del
2008 è ragionevole; meno facile è capire
perché tali obiettivi siano stati
confermati nello schema di Decreto
legislativo con il quale si recepisce
la Direttiva del 2008, recentissimamente
approvato dal Consiglio dei
ministri, dato che il mancato rispetto
di una norma assurda da parte di
molti comuni, facilmente prevedibile,
determinerà la cessazione dei
contributi regionali.
Tecnicamente, dunque, una raccolta
differenziata che non faccia
parte di un ciclo industriale imprenditorialmente
corretto non ha
senso. Nelle condizioni nelle quali
oggi è perlopiù realizzata, essa per i
cittadini costituisce un costo, ma
non solo: è anche una gran rottura
di scatole. E’ certo che raccogliere i
rifiuti in vari sacchetti a seconda
della loro natura, trattenerli finché
venga il momento di consegnarli
agli addetti o al luogo di raccolta, risolvere
l’imbarazzo circa la destinazione
di materiali particolari, non è
il massimo della vita: conosco molti
uomini di carattere mite che danno
in escandescenze al solo pensiero di
doversi acconciare a questi comportamenti
penosi. Né può convincerci
a un atteggiamento più collaborativo
il pensiero che così facendo contribuiamo
al migliore andamento
della vita sociale, dato che il concetto
stesso di differenziazione è di
assai dubbia validità.
Potrei trovarci una certa validità
solo nel caso in cui, naturalmente effettuando
gli opportuni controlli,
fosse lo stesso cittadino a cedere il
frutto della differenziazione ad un
operatore autorizzato, ricevendone
il controvalore. La soluzione per oggi
e per domani? Un poderoso programma
di infrastrutturazione di impianti
di termovalorizzazione su tutto
il territorio nazionale, nei quali
mandare a combustione il tal quale.
Per aver espresso queste opinioni
prenderò qualche altra parolaccia
dagli ambientalisti, ma tanto ci sono
abituato. E poi, insulti e critiche valgono
quanto vale la rispettiva fonte,
quindi…

© Copyright Il Foglio 3 maggio 2010

Dogmi in cenere. Sorpresa, il cibo bio e sostenibile è diventato insostenibile. non toglierà la fame dal mondo e non fa poi così bene alla salute

Roma. Foreign Policy dichiara guerra
alla rucola. Che non è poi vera e propria
antipatia per la piccante insalatina, quanto
per chi negli Stati Uniti ne ha fatto l’icona
di un mangiare “naturale” che in
realtà non è detto che faccia bene, certamente
non aiuta a combattere la fame nel
mondo, e probabilmente non sarebbe
neanche troppo ecologico. Così spiega il
bimestrale fondato da Samuel Huntington,
e peraltro nel gruppo editoriale non propriamente
conservatore del Washington
Post, in un lungo pamphlet pubblicato sull’ultimo
numero, a firma di Robert Paarlberg.
Non un qualunque giornalista un po’
polemico ma un docente di Harvard, specialista
in agricoltura, ambiente e biotecnologie.
“Attenzione ai venditori di cibi integrali”,
è il titolo. “Basta con l’ossessione
per la rucola. Il vostro mantra della ‘sostenibilità’
– organico, locale, e lento – non è
una ricetta per salvare i milioni di affamati
del mondo”. Il problema principale, secondo
Paarlberg, è l’inceppamento di
quella Rivoluzione verde che tanto aveva
contribuito a ridurre il dramma della sottoalimentazione,
raddoppiando ad esempio
tra 1964 e 1970 la produzione di grano
indiana. “Il cibo è diventato una preoccupazione
dell’élite nell’occidente, ironicamente,
proprio mentre modi più concreti
per affrontare la fame nei paesi poveri sono
andati fuori moda”. C’erano 850 milioni
di persone denutrite nel mondo prima dei
rincari dei prezzi del 2008, e in seguito
questo numero ha passato per la prima
volta la soglia del miliardo. Il 62 per cento
di loro è costituito da contadini poveri dell’Africa
e dell’Asia le cui tecniche di coltivazione
assicurano a malapena redditi da
un dollaro al giorno. Ma secondo i teorici
del cibo organico, denuncia Paarlberg, sia-
mo noi che dovremmo imparare da loro
come si produce il cibo! Paarlberg incolpa
gli attacchi alla Rivoluzione verde fatti da
Vandana Shiva o dal vertice di ong che ebbe
luogo a Roma nel 2002, se il numero
delle persone a rischio alimentare in Africa
è cresciuto del 30 per cento in un decennio.
Da quando le crescenti pressioni
delle lobby ambientaliste hanno indotto a
togliere determinati programmi di modernizzazione
dell’agricoltura dai finanziamenti
per la cooperazione allo sviluppo.
Paarlberg evidenzia l’esistenza anche di
altri pericolosi “miti organici”. Ad esempio:
negli Stati Uniti con i sistemi industriali
di trattamento dei cibi muoiono
5.000 persone ogni anno per infezioni di
origine alimentare; in Africa, dove si usano
per lo più i sistemi tradizionali, i morti
sono 700.000. Uno studio pubblicato l’anno
scorso dall’American Journal of Clinical
Nutrition ha evidenziato come dal materiale
raccolto negli ultimi cinquant’anni
non sia emerso alcun vantaggio per la salute
del cibo organico rispetto a quello
non organico. Quanto ai fertilizzanti, è vero
che negli Stati Uniti hanno inquinato
fiumi e creato una “zona morta” nel Golfo
del Messico. Ma proviamo a immaginare
che invece di cercare fertilizzanti chimici
meno inquinanti la quota di organico cresca
dall’attuale uno per 100 all’intera agricoltura
americana. Quanto bestiame ci
vorrebbe per assicurare la quantità di
concime necessario? Almeno cinque volte
lo stock attuale. Cioè, cinque volte più immissione
di metano di origine animale
nell’atmosfera e cinque volte più pascoli,
con relativi disboscamenti. In Europa si
dovrebbero tagliare tutte le foreste che restano
in Francia, Germania, Regno Unito
e Danimarca.

© Copyright Il Foglio 30 aprile 2010

Il global warming non si porta più, quale sarà il prossimo allarme?

Roma. Un concorso tra i lettori per trovare
la prossima fobia, ora che la minaccia
del riscaldamento globale sembra avere
annoiato l’opinione pubblica. Lo ha lanciato
ieri Bret Stephens dalle pagine del
Wall Street Journal, osservando che “nel
giro di pochi anni i cambiamenti climatici
ecciteranno la gente più o meno quanto
sovrappopolazione, inverni nucleari, buchi
nell’ozono, api assassine, ogm e mucche
pazze fanno oggi”. Il mondo è stato per
alcune decadi in preda al panico ambientale,
scrive il noto editorialista, ora qualcos’altro
prenderà il suo posto. “Il soggetto
delle paure cambia, ma gli ingredienti
di base tendono a restare gli stessi”: un
trend, un’ipotesi, un’invenzione o una scoperta
che disturbano la sensazione di
equilibrio globale del mondo. Spesso l’agente
disturbatore è qualcosa di indefinibile
dai nostri sensi, una sorta di spirito.
Ma un colpevole c’è sempre, meglio se è
un’azienda e di destra. Provocazione a
parte, l’editoriale del quotidiano americano
prende le mosse dall’annotazione che
“global warming is dead”, il riscaldamento
globale è morto. Non perché la temperatura
del globo non si stia più alzando,
ma perché la percezione che la gente ha
della pericolosità dei cambiamenti climatici
è scesa sotto i livelli di guardia, complici
alcune topiche dei climatologi. Oltre
alle più volte raccontate vicende delle email
del Climategate e alla previsione
smentita sullo scioglimento dell’Himalaya,
Stephens ne riporta un’altra: a febbraio alcuni
scienziati di Cambridge avevano concluso
che l’Artico si sta sciogliendo a una
velocità tale per cui entro breve il Polo
Nord sarà quasi del tutto libero dai ghiacci.
La colpa, naturalmente, sarebbe del
global warming. Un mese dopo esce un’altra
ricerca, questa volta giapponese, nella
quale si sostiene che la perdita di spessore
dei ghiacci artici è dovuta soprattutto ai
venti che soffiano in quella zona “e non al
riscaldamento globale”. Si scopre poi che
a marzo l’estensione del ghiaccio artico è
tornata ad aumentare.
Come il Foglio scrive da tempo, i media
e l’opinione pubblica si stanno rendendo
conto dell’incertezza della scienza sull’argomento,
hanno sperimentato sulla loro
pelle che gli “inverni più caldi della media”
previsti dagli esperti non si sono verificati
e hanno cominciato ad abbandonare
il dogmatismo di quella che nel tempo è
diventata una religione in cui “le tasse sulle
emissioni di anidride carbonica hanno
sostituito la vendita delle indulgenze”:
l’ambientalismo catastrofista. Non si leggono
più sui giornali previsioni sulla fine
del mondo imminente, in Francia il libro
di Claude Allègre “L’impostura climatica”
vende milioni di copie ed è al centro di un
dibattito che occupa spesso le prime pagine
dei giornali nazionali; lo Spiegel in Germania
ha da poco pubblicato un lungo e
dettagliato riassunto delle vicende del Climategate
parlando apertamente di “scienziati
che vogliono fare i politici”; in America
il global warming è sceso al sesto posto
nella classifica dei dieci argomenti ambientali
che preoccupano di più la gente;
sul sito del New York Times, dopo mesi, il
“riscaldamento globale” non è più nell’elenco
degli articoli più letti.
Tutto già visto, spiega Stephens: una volta
individuata la nuova paura, ingenti flussi
di denaro cominciano a dirigersi nelle
casse di istituzioni e burocrazie che si ergono
a tutela dei cittadini e che hanno interesse
a tenere alto l’allarme. A questo
punto gli ambientalisti danno la loro versione
di come raggiungere la salvezza,
avanzando richieste da regime para totalitario.
I politici assemblano gruppi di
esperti che studiano la cosa e propongono
riforme e leggi molto costose. Alla fine il
problema scompare, ma pochi si rendono
conto che non c’era nessun problema.
Il clima è argomento perfetto per il “sistema”
descritto da Stephens: la sua imprevedibilità
e il fatto che ci sarà sempre
un evento atmosferico estremo per potere
gridare alla catastrofe hanno tenuto l’allarme
da global warming lontano da critiche
concrete per anni. Scoperta la fallibilità
dei suoi sacerdoti, il panico da cambiamenti
climatici sembra avere giusto il
tempo di salutare il pubblico (pagante)
prima della calata del sipario. Adesso,
punge così il Wall Street Journal, bisogna
indovinare la prossima paura. In palio ci
sono una birra e un hamburger offerti da
Stephens in un locale di New York sulla
47ma strada.

Piero Vietti

© Copyright Il Foglio 8 aprile 2010

Si estingue prima l’uomo o la zanzara? Ma quanti danni fa l’oltranzismo verde? Tutti i morti delle campagne contro il Ddt e gli Ogm



© Copyright Tempi

Al Gore ha molto freddo. La scienza del clima fa autocritica, i catastrofisti sono sempre più soli. Di Giuliano Ferrara

Re Al Gore è nudo. Sulla copertina
del Weekly Standard di questa
settimana l’ex vicepresidente degli
Stati Uniti è ritratto senza vestiti al
Polo Nord. Alle sue spalle due orsi
bianchi ridono di lui. L’attacco del settimanale
conservatore americano (da
sempre critico sulla tesi per cui il global
warming sarebbe causato dall’uomo)
al catastrofismo climatico parte
dall’editoriale di Gore sul New York
Times di dieci giorni fa (ripubblicato
in Italia da Repubblica) in cui venivano
riproposti i classici del suo repertorio:
mari che si innalzano, tempeste
mostruose, rifugiati climatici e altro.
La verità è che Al Gore è sempre più
solo. Anche i media più progressisti
come il Guardian o la Bbc hanno abbandonato
i toni apocalittici e si sono
gettati sulle ultime disavventure degli
scienziati del clima attaccandoli con
particolare durezza.
Il segretario generale delle Nazioni
Unite, Ban Ki-moon, ieri ha chiesto
che le previsioni sballate fatte dall’Ipcc
vengano riviste da altri scienziati.
All’interno dello stesso mondo
scientifico è iniziato un mea culpa che
non ha risparmiato critiche a chi, come
i vertici del panel di scienziati dell’Onu,
da tempo ripeteva che il dibattito
sul clima era chiuso. Dopo avere
annunciato che la neve d’inverno sarebbe
stata soltanto un ricordo per gli
europei, i sostenitori del riscaldamento
globale antropico si trovano a
fare i conti con nevicate che non si vedevano
da decenni. A chi prova a dire
che queste precipitazioni sono dovute
al global warming – come nel caso dell’uragano
Xinthya in Francia – altrettanti
esperti rispondono che non è vero.
Serve un approccio realista a un
problema vero, quello ambientale.
Continuando a professare il catastrofismo,
conclude il Weekly Standard, il
movimento ambientalista rischia di
fare la stessa fine di chi si ostina a
parlare in Esperanto.

© Copyright Il Foglio 11 marzo 2010

Il catastrofismo climatico è stato costruito su dati falsificati di Antonio Gaspari

In Italia solo pochi giornali se ne sono accorti ma nella stampa
anglosassone lo scandalo è enorme. Il Guardian, giornale progressista
britannico, ha scritto che "ci troviamo di fronte è un piccolo gruppo di
scienziati che, per anni, ha esercitato una grande influenza nel manovrare
l'allarme mondiale in materia di riscaldamento globale". E il Daily
Telegraph, altro quotidiano d'oltremanica, ha aggiunto: "Cambiamento
climatico: il peggiore scandalo scientifico della nostra generazione".

Stiamo parlando del "Climategate" e cioè la scoperta che Philip Jones,
direttore della CRU (Unità di Ricerca Climatica presso l'università di East
Anglia) e alcuni suoi stretti collaboratori, non solo hanno selezionato i
dati in maniera arbitraria, cioè escludendo tutti quelli che contraddicono
la teoria del global warming, ma addirittura che le serie pubblicate non
sono vere e che i dati sono stati falsificati.
Philip Jones, è responsabile delle due serie fondamentali di dati usate
dall'IPCC (Ufficio ONU per lo studio dei cambiamenti climatici). Ciò
significa che tutti i grafici che dovrebbero dimostrare la teoria del global
warming sono stati costruiti con i dati fasulli forniti da Philip Jones.
Anche il libro di Al Gore "Una scomoda verità" ed il relativo film sono
costruiti sui dati del CRU diretto da Philip Jones.
In uno dei messaggi inviati via e-mail da Philip Jones ad un suo
collaboratore si legge: "Ho appena portato a termine il trucco che Mike ha
fatto su Nature (rivista scientifica, ndr) di aggiungere le temperature
reali a ciascuna serie degli ultimi 20 anni (ad es., dal 1981 in poi) e dal
1961 per permettere a Keith di nascondere la caduta".
Le prove delle avvenute manipolazioni e falsificazioni dei dati sono così
schiaccianti che John Beddington, il capo consigliere scientifico del
governo inglese, sul sito internet del Times del 27 gennaio ha scritto:
"L'impatto del riscaldamento globale è stato esagerato da alcuni scienziati
e c'è urgente bisogno di maggiore onestà nel riportare le previsioni dei
cambiamenti climatici". Ed ha aggiunto: "I climatologi dovrebbero essere
meno ostili nei confronti degli scettici che mettono in dubbio l'origine
antropica del global warming. La scienza cresce e migliora alla luce delle
critiche". Nel frattempo, intervistato dalla BBC, il professor Jones ha
detto che i dati da lui forniti non sono disponibili perché lui ha
accumulato migliaia di fogli pieni di dati registrati a mano di cui non
ricorda l'origine. Il Climategate, che i mezzi di comunicazione italiani
hanno per lo più ignorato, sta sconvolgendo anche gli uffici delle Nazioni
Unite.
Siamo arrivati al punto che gli uomini della sicurezza alle Nazioni Unite
non solo hanno impedito al giornalista irlandese Phelim McAleer di far
domande ad Al Gore sul Climategate nel corso della conferenza di Copenhagen,
ma gli hanno anche staccato il microfono. McAleer ha cercato di porre
domande simili al docente di Stanford, Stephen Schneider, tra i maggiori
sostenitori del global warming il quale si è rifiutato di fare commenti.
Quando McAleer ha fatto una domanda a Schneider, un membro dello staff ha
cercato di azzittirlo manipolando il suo microfono e un membro della
sicurezza ha chiesto a McAleer e alla sua squadra di spegnere la telecamera
nonostante essi protestassero di essere membri accreditati della stampa. Il
18 febbraio il segretario generale dell'Onu, Ban Ki-Moon, ha preso atto "con
rammarico" delle dimissioni di Yvo De Boer, segretario esecutivo della
Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici (Unfcc). E,
come riportato anche dal quotidiano "Libero" il 15 febbraio, il prof. Robert
Watson, che ha guidato l'IPCC dal 1997 al 2002 ha dichiarato che "Non è vero
che ci stiamo squagliando. Il surriscaldamento del pianeta è un'enorme
bufala. L'organismo delle Nazioni Unite che consiglia i leader mondiali sui
cambiamenti climatici deve indagare sugli errori che hanno portato a
esagerare l'impatto del riscaldamento globale". Watson ha aggiunto che "la
relazione degli esperti del gruppo intergovernativo (Ipcc) sui cambiamenti
climatici ha sbagliato a far di conto, esagerando il problema". In effetti
l'IPCC di errori ne sta compiendo a bizzeffe. Tra gli ultimi quello relativo
allo scioglimento dei ghiacciai dell'Himalaya. Nell'ultimo rapporto
pubblicato dall'IPCC (Fourth Assessment Report del 2007) è scritto che a
causa del riscaldamento globale i ghiacciai dell'Himalaya dovrebbero
scomparire entro il 2035. Ma il governo indiano ha presentato una critica
dettagliata al rapporto dell'IPCC rilevando un colossale errore. Il rapporto
dell'IPCC faceva riferimento ad una pubblicazione degli anni '90 del
glaciologo russo Wladimir Kotljakow in cui si sosteneva che se lo
scioglimento del ghiacciaio si sarebbe verificato verso il 2350. La data del
2350 è diventata 2035 (con un taglio di 315 anni) su indicazione del
ricercatore indiano Syed Hasnain. A questo proposito il climatologo tedesco
Hans von Storch ha chiesto le dimissioni del presidente IPCC, Rajendra
Pachauri, perché questi avrebbe giocato la carta dello scioglimento dei
ghiacciai himalayani all'unico scopo di ricevere altri sostanziosi fondi per
le sue ricerche. Stupisce infatti scoprire che il ricercatore indiano Syed
Hasnain, che ha dato origine all'errore, lavora oggi all'Energy and
Resources Institute (Teri) di Nuova-Delhi, il cui direttore è proprio
Rajendra Pachauri. Sbagliati anche i dati dell'IPCC sui Paesi Bassi: secondo
il Rapporto dell'Ufficio ONU, l'Olanda sarebbe per metà sotto il livello del
mare. Il governo olandese ha fatto presente che la cifra esatta è il 26%.
Come è evidente il castello di fantasmi e di paure costruito dai
catastrofisti sta cadendo a pezzi, ma il crollo di questa ideologia, così
come quella comunista, lascerà solo macerie. Per trasformare i problemi
ambientali in risorse c'è bisogno di una nuova cultura "ecottimista", meglio
nota come "Ecologia Umana". Un'ecologia fondata su un idea più ottimista
dell'uomo e della sua capacità di amare. Un umanità che non è maledizione ma
benedizione del pianeta, non impoverimento ma ricchezza per il mondo. Un
umanità la cui prole suscita speranza e non disperazione. Diceva Wiston
Churchill: "L'ottimista vede opportunità in ogni pericolo, il pessimista
vede pericolo in ogni opportunità".






<http://www.lottimista.com/component/content/article/24-in-evidenza/127-il-c
rollo-dei-profeti-di-sventura.
html> Il Crollo dei profeti di sventura

Perchè la scienza del clima deve cambiare direzione

di Judith Carry*
Tratto dal sito Svipop il 2 marzo 2010

Il “climategate” si è ormai allargato al di là delle e-mail originali del centro CRU (Il Centro di Ricerche sul Clima dell'Univwersità East Anglia al centro dello scandalo delle e-mail 'rubate' che testimoniano 'aggiustamenti' sui dati climatici, ndt), e include "lo scandalo dei ghiacciai" e una miriade di altri problemi connessi con l'IPCC (Intergovernmental Panel on Climate Change).

Nel rispondere al “climategate”, le istituzioni che si occupano di ricerca sul clima hanno fatto appello alla propria autorità, non capendo che il “climategate” è soprattutto una crisi di fiducia. Finalmente, in un editoriale pubblicato su Science il 10 febbraio Ralph Cicerone, Presidente della US National Academy of Science, comincia ad articolare la questione della fiducia: "Questo punto di vista riflette la natura fragile del rapporto fiduciario tra scienza e società, dimostrando che la percezione di un comportamento sbagliato anche di pochi scienziati può diminuire la credibilità della scienza nel suo insieme. Che cosa bisogna fare? Due aspetti hanno bisogno di urgente attenzione: la prassi generale della scienza e i comportamenti personali degli scienziati".

Anche se mi congratulo vivamente con le affermazioni del Dr. Cicerone, sarebbe stato meglio se fossero state fatte prima, e se tra quelle e una parte del pubblico non ci fosse la barriera costituita dal dover pagare per leggere quel testo. Purtroppo, il vuoto di dichiarazioni sostanziali da parte delle nostre istituzioni è stato riempito in modi che hanno reso la situazione molto peggiore. La credibilità è una combinazione di esperienza e fiducia. Mentre gli scienziati si ostinano a pensare che debbano essere considerati attendibili a causa della loro esperienza, il “climategate” ha chiarito che la competenza in sé non è una base sufficiente per avere la fiducia da parte del pubblico. La ricaduta del “climategate” è molto più ampia rispetto alle accuse di cattiva condotta da parte degli scienziati in due università.

Di maggiore importanza è la ridotta credibilità dei rapporti dell'IPCC, che stanno fornendo la base scientifica per le politiche internazionali sul cambiamento climatico. Recenti rivelazioni riguardo l’IPCC stesso hanno portato alla luce una serie di preoccupazioni, finora non espresse apertamente: il coinvolgimento di scienziati dell'IPCC nell’attivismo politico riguardo il clima; un tribalismo che esclude gli scettici; la hubris degli scienziati riguardo una nobile (Nobel) causa; l’allarmismo; e un'attenzione inadeguata alle incertezze e complessità delle interpretazioni alternative.

Gli scienziati coinvolti nella email CRU e l'IPCC sono stati difesi in quanto scienziati armati delle migliori intenzioni, che hanno cercato di fare il loro lavoro in un ambiente molto difficile. Viene data la colpa del presunto hackeraggio alla “lobby del negazionismo climatico". Essi sono descritti come combattenti in una valorosa guerra per tenere lontana dal pubblico una disinformazione propagata da scettici collegati all'industria del petrolio. Sono anche descritti come concentrati a far progredire la scienza, piuttosto che a fare del lavoro di pulizia come archiviare documenti e dati. Si dice che hanno dovuto adottare strategie non convenzionali per lottare contro ciò che pensavano essere un’interferenza dannosa, e che difendono la loro scienza in base ai loro anni di esperienza e alla loro perizia. Alcuni scienziati stanno sostenendo che il contenuto scientifico delle relazioni dell’IPCC non è compromesso dal “climategate”. Ma non è ancora possibile essere sicuri riguardo le ricadute specifiche del “climategate” in termini delle ricostruzioni di temperature storiche e preistoriche.

Ci sono poi preoccupazioni più grandi (sollevate dal glaciergate, ecc), in particolare per quanto riguarda il rapporto dell'IPCC sugli impatti (Working Group II): è possibile che una combinazione di “pensiero di gruppo“ (“groupthink“), attivismo politico e una sindrome da nobile causa abbiano soffocato il dibattito scientifico, rallentando il progresso scientifico e corrotto le procedure scientifiche di valutazione? Se le istituzioni stanno facendo il loro lavoro, le colpe di alcuni scienziati come individui dovrebbero essere rapidamente identificate, e l'impatto dei loro comportamenti dovrebbe essere limitato e rapidamente rettificato. Le istituzioni hanno poi bisogno di guardarsi allo specchio e chiedersi come abbiano consentito che si creasse una situazione del genere, e quali opportunità hanno perso al fine di prevenire tale perdita sostanziale di fiducia da parte del pubblico nella ricerca sul clima e nei rapporti IPCC.

Nella loro guerra sbagliata contro gli scettici, le e-mail CRU rivelano che i valori della ricerca di base sono stati compromessi. Molto è stato detto circa il ruolo del contesto altamente politicizzato, che ha fatto ritrovare gli scienziati stressati da un ambiente estremamente difficile. Non vi è dubbio che questo ambiente non sia favorevole per la scienza e gli scienziati abbiano bisogno di più sostegno da parte delle loro istituzioni nel gestire la situazione. Tuttavia, non c'è nulla in questa follia per cui valga la pena di sacrificare la propria integrità personale o professionale. Quando la scienza riceve quel tipo di attenzione, significa che la scienza è veramente importante per il pubblico. Pertanto, gli scienziati devono fare tutto il possibile per assicurarsi di comunicare efficacemente l'incertezza, il rischio, la probabilità e la complessità, e provvedere un contesto che comprenda punti di vista scientifici alternativi e in competizione fra loro.

Questa è una responsabilità importante che i singoli ricercatori e, in particolare, le istituzioni devono prendere molto sul serio. Singoli scienziati e istituzioni devono guardarsi allo specchio e capire come sia successo quello che è successo. Il “climategate” non se ne andrà fino a quando questi problemi non saranno risolti. La scienza è in definitiva un processo che si auto-corregge, ma visto che sul tavolo ci sono un trattato internazionale di grande rilievo e legislazione nazionale di ampia portata, la posta in gioco non potrebbe essere più elevata.

La natura cangiante dello scetticismo sul riscaldamento globale
Nel corso degli ultimi mesi, ho cercato di capire come sia venuto a crearsi questo folle ambiente intorno alla ricerca sul clima. Nelle mie indagini informali, ho ascoltato le prospettive di una vasta gamma di persone che sono state etichettate come "scettici" o addirittura "negazionisti". Sono arrivata a capire che lo scetticismo riguardo il riscaldamento globale è molto diverso oggi rispetto a cinque anni fa. Ecco come interpreto che lo scetticismo si sia evoluto nel corso degli ultimi decenni. Dal 1980, James Hansen e Steven Schneider hanno dato la carica per informare il pubblico sui rischi dei possibili cambiamenti climatici di origine antropogenica. Sir John Houghton e Bert Bolin hanno svolto un ruolo simile in Europa. A loro si sono affiancati gruppi di ambientalisti, e così è nato l’allarmismo riguardo il riscaldamento globale.

Durante questo periodo, vorrei dire che molti, se non la maggior parte dei ricercatori, me compresa, erano scettici che il riscaldamento globale fosse rilevabile dagli archivi delle temperature e che potesse avere conseguenze disastrose.

I tradizionali nemici dei movimenti ambientalisti hanno lavorato per contrastare l'allarmismo, ma questa era per lo più una guerra tra gruppi di attivisti e non una questione principale per i media e la opinione pubblica. Nel primi anni del XXI secolo, la posta in gioco è diventata più alta e abbiamo visto la nascita di quello che alcuni hanno definito una "monolitica macchina negazionista climatica". Ricerca “ scettica “ pubblicata da accademici ha fornito munizioni alle “think tank“, rifornite di denaro dall'industria petrolifera. Tutto questo è stato amplificato da “talk show” radiofonici e vari canali televisivi.

Nel 2006 e 2007, le cose sono cambiate a causa del film di Al Gore "An Inconvenient Truth", più il IV Rapporto IPCC, e il riscaldamento globale è diventato un colosso inarrestabile. Il motivo per cui il IV Rapporto IPCC sia stato così influente è che esisteva una diffusa fiducia nelle sue procedure: la partecipazione di un migliaio di scienziati provenienti da 100 paesi diversi, che hanno lavorato per diversi anni per scrivere 3000 pagine con migliaia di riferimenti scientifici “peer reviewed”, pagine a loro volta controllate da altri esperti. Inoltre, tutto ciò è avvenuto con la partecipazione di responsabili politici e sotto gli occhi attenti dei gruppi di attivisti, mettendo insieme una vasta gamma di interessi contrastanti. Il risultato dell'influenza dell’IPCC è stato che lo scetticismo scientifico da parte di ricercatori universitari è notevolmente diminuito ed è diventato più facile costruire orpelli intorno alle conclusioni dell'IPCC, piuttosto che “remare“ contro.

I finanziamenti da parte di Big Oil verso opinioni contrarie all'IPCC sono per lo più terminati e i mass-media hanno sostenuto il consenso IPCC. Nella blogosfera invece c’è stato un movimento diverso, avviato da Steve McIntyre, movimento che definisco come i “revisori climatici”. Le istituzioni coinvolte nella ricerca sui cambiamenti climatici non sono riuscite a capire questa evoluzione dinamica, e hanno continuato a dare colpa dello scetticismo alla “macchina negazionista” finanziata dalle compagnie petrolifere.

I revisori climatici e la blogosfera.
Steve McIntyre ha iniziato il blog climateaudit. org per difendersi dalle accuse e affermazioni sul blog realclimate. org riguardo la sua critica allo "Hockey Stick", in quanto non vedeva pubblicati i suoi commenti. Climateaudit si è concentrato sulla verifica delle ricostruzioni paleoclimatiche dell’andamento delle temperature nel corso dei millenni passati, e anche del software utilizzato dai ricercatori climatici per risolvere i problemi nei dati dovuti alla scarsa qualità delle stazioni meteo. L’"auditing", la “revisione e verifica” di McIntyre è diventata molto popolare, non solo con gli scettici, ma anche con la comunità progressista "open source", ed esiste adesso una serie di blog specializzati nel genere. Quello con il pubblico più vasto è wattsupwiththat. com, guidato dal meteorologo Anthony Watts, con oltre 2 milioni di “visite uniche” ogni mese.

Allora, chi sono i “revisori del clima“? Sono persone tecnicamente istruite, che vivono soprattutto al di fuori del mondo accademico. Diverse persone hanno sviluppato notevoli competenze in vari aspetti della scienza del clima, anche se principalmente riguardo la verifica della ricerca scientifica pubblicata, piuttosto che per produrne di originale. Tendono ad essere “watchdogs”, “controllori” piuttosto che negazionisti, e molti di loro si classificano come "tiepidi" [credono cioè nel riscaldamento globale ma non ritengono che sia un problema così grande]. Sono indipendenti dalle influenze dell'industria petrolifera. Hanno trovato una voce collettiva nella blogosfera e i loro blog sono spesso ripresi dai mass-media. Esigono una maggiore responsabilità e trasparenza delle ricerche sul clima e dei rapporti IPCC.

Cosa ha dunque motivato le loro richieste “FOIA“ di libero accesso alle informazioni e messaggi del centro CRU presso l'Università di East Anglia? Lo scorso fine settimana, ho partecipato a una discussione su questo tema sul blog “The Blackboard”. Tra i partecipanti a questa discussione anche Steven Mosher, il primo a parlare del “climategate” e che ha già scritto un libro a quel riguardo. Mosher e gli altri sono preoccupati riguardo una possibile e involontaria parzialità nei dati di temperatura CRU, visto che le stesse persone che mettono insieme le temperature le utilizzano poi nella ricerca e nella verifica dei modelli climatici.

Questo problema vale anche per i dati GISS della NASA e per il lavoro svolto fra il CRU e il Centro Hadley, ed è peggiorato dalla scelta di James Hansen del GISS di diventare un attivista politico, con le sue previsioni per il futuro riguardo "gli anni più caldi". La ricerca medica è stata a lungo messa in discussione riguardo una simile parzialità, che è il motivo per cui si conducono studi in “doppio cieco“ quando si voglia provare l'efficacia di un trattamento medico. Eventuali pregiudizi e parzialità potrebbero essere individuati da un’analisi indipendente dei dati, tuttavia le persone al di fuori di una cerchia ristretta non sono state in grado di ottenere l'accesso alle informazioni necessarie per passare dai dati grezzi al prodotto finale dell’analisi.

Inoltre, la creazione di insiemi di dati delle temperature superficiali è stata trattata come un progetto di ricerca qualunque, senza alcuna enfasi sulla analisi di qualità dei dati, e senza alcun controllo indipendente. Data l'importanza di questi dati sia per la ricerca scientifica che per le decisioni governative, gli scettici pensano sia richiesta una maggiore responsabilità nei confronti del pubblico. Perché dunque i ricercatori climatici hanno problemi con i “revisori”?

Gli scienziati coinvolti nella email CRU sembrano considerare Steve McIntyre come il loro arcinemico (termine coniato da Roger Pielke Jr). Le prime critiche di Steve McIntyre allo Hockey Stick sono state denigrate, ed egli descritto come una marionetta dell'industria petrolifera. Ne è seguita una specie di lotta/guerriglia a livello accademico e blogosferico, con i ricercatori che hanno tentato di impedire che i revisori pubblicassero su riviste scientifiche e presentassero il loro lavoro in occasione di conferenze, e hanno cercato di negare loro l'accesso ai dati dietro le ricerche pubblicate e ai programmi per computer da loro usati. I blogger hanno risposto pubblicando testi molto critici nella blogosfera, e facendo richieste “FOIA” in base alla legge sull’accesso alle informazioni pubbliche. E il “climategate” è stato il risultato.

Come ha fatto questo gruppo di blogger a riuscire a far cadere in ginocchio le istituzioni di ricerca sul clima (questo è quanto è successo, che quelle istituzioni se ne rendano conto o meno)? Ancora una volta, la fiducia gioca un ruolo importante. Era abbastanza facile capire da dove venisse il denaro connesso alla "macchina negazionista". Ma i revisori climatici non sembrano avere una piattaforma politica, stanno facendo questo lavoro gratis, e hanno giocato il ruolo del “watchdog", il che ha generato fiducia in un ampio segmento della popolazione.

Come ricostruire la fiducia.
Ricostruire la fiducia con il pubblico sul tema della ricerca sul clima inizia con quanto detto da Ralph Cicerone: "Due aspetti hanno bisogno di attenzione urgente: la prassi generale della scienza e i comportamenti personali degli scienziati". Molto è stato scritto circa la necessità di una maggiore trasparenza, il riformare il "peer-to- peer", e così via, e spero che le istituzioni competenti rispondano in modo appropriato. Indagini su eventuali comportamenti fuori dalle regole sono in corso presso l'Università di East Anglia nel Regno Unito e la Penn State University negli USA.

Qui vorrei sollevare alcune questioni più ampie che richiedono una riflessione sostanziale da parte di istituzioni e anche singoli scienziati. La ricerca sul clima e le sue istituzioni non si sono ancora adeguate alla propria alta rilevanza politica. Come gli scienziati possano in maniera più efficace e corretta confrontarsi con il processo della politica è un argomento che non è stato adeguatamente discusso (per esempio la sfida del "mediatore onesto" lanciata da Roger Pielke Jr), e i ricercatori del clima sono scarsamente informati a questo proposito.

Il risultato è stato un supporto acritico dell'agenda politica della UNFCCC (il mercato delle emissioni, per esempio) da parte di molti climatologi che sono coinvolti nel dibattito pubblico (in particolare quelli che hanno collaborato all’IPCC), supporto a loro avviso che è la logica conseguenza dei risultati IPCC (che si presumono non avere indicazione politica). Il disinformato attivismo politico da parte di questo gruppo di scienziati del clima ha giocato un ruolo nella polarizzazione politica di questo problema. L'interfaccia tra scienza e politica è un vero pantano, ed è molto importante che gli scienziati abbiano una guida per navigare fra le potenziali insidie.

Migliorare questa situazione potrebbe contribuire a disinnescare l’ostilità ambientale che gli scienziati coinvolti nel dibattito pubblico si sono trovati a dover affrontare, e contribuirebbe anche a ripristinare la fiducia del pubblico nei climatologi. La impossibilità da parte del pubblico e dei responsabili politici di comprendere la verità così come presentata dall’IPCC è stata spesso attribuita a una difficoltà di comunicare una materia così complessa a persone che conoscono relativamente poco dell’argomento, e che vengono indicate negli USA dal giornalista Chris Mooney come "l’America non-scientifica". Si fanno sforzi per "rendere piu’ sempliciotto" il messaggio e per inquadrarlo in modo da rispondere a questioni che sono importanti per il pubblico.

La gente ha sentito l'allarme, ma rimane non-convinta perché percepisce che ci sia una agenda politica e le manca la fiducia nel messaggio e nei messaggeri. Allo stesso tempo, c'è un folto gruppo di persone colte che danno molta importanza all’evidenza dei fatti (ad esempio, i libertari, le persone che leggono i blog tecnici/scettici, per non parlare dei politici) che vogliono comprendere i rischi e le incertezze associati al cambiamento climatico, senza sentirsi dire che tipo di politiche dovrebbero appoggiare.

Strategie di comunicazione più efficaci possono essere messe a punto che riconoscano come ci siano due gruppi con diversi livelli di conoscenze di base sull'argomento. Ma costruire la fiducia attraverso la comunicazione pubblica su questo argomento richiede che venga riconosciuta l'incertezza. La mia esperienza nel fare presentazioni al pubblico sui cambiamenti climatici mi dice che discutere le incertezze aumenta la fiducia del pubblico in ciò che gli scienziati stanno cercando di comunicare, e non impatta negativamente la ricettività riguardo la comprensione dei rischi da cambiamento climatico (non hanno fiducia nell’allarmismo).

La fiducia può essere ricostruita attraverso la discussione di grandi scelte piuttosto che concentrandosi su politiche specifiche. E, infine, la blogosfera può essere uno strumento molto potente per aumentare la credibilità della ricerca sul clima. I “duelli dei blog“ (ad esempio climateprogress. org contro wattsupwiththat. com e realclimate. org contro climateaudit. org) possono effettivamente migliorare la fiducia del pubblico nella scienza, visto che mostrano entrambi i lati degli argomenti in discussione.

Discutere la scienza con gli scettici dovrebbe essere il sale della vita accademica, e invece i ricercatori del clima hanno perso tutto ciò in un modo o nell’altro, pensando erroneamente che gli argomenti scettici avrebbero diminuito la fiducia del pubblico nel messaggio proveniente dalle istituzioni di ricerca sul clima. Tale dibattito è vivo e vegeto nella blogosfera, ma pochi ricercatori climatici di punta partecipano al dibattito blogosferico. I climatologi a realclimate. org sono stati pionieri da questo punto di vista, e altri ricercatori del clima provenienti dal mondo accademico e dotati di blog sono Roy Spencer, Roger Pielke Sr e Jr, Richard Rood, e Andrew Dessler.

I blog che sono più efficaci sono quelli che permettono osservazioni da entrambi i lati del dibattito (molti blog sono [invece] fortemente censurati). E se la blogosfera ha un che del "selvaggio west", ho sicuramente imparato molto dai partecipanti al dibattito blogosferico, compreso il modo di affinare il mio pensiero e migliorare la retorica dei miei argomenti. Ulteriori voci scientifiche che entrino nel dibattito pubblico, in particolare nella blogosfera aiuterebbero nell’ampio sforzo della comunicazione e nel ristabilire la fiducia. E abbiamo bisogno di riconoscere i movimenti emergenti nel mondo che vive su Internet, dei revisori e dei fautori dell’“open source”, e farne un uso produttivo.

L'apertura e la democratizzazione della conoscenza permesse da Internet possono essere uno strumento formidabile per la costruzione di una comprensione da parte del pubblico della scienza del clima, e anche della fiducia nella ricerca sul clima. Nessuno crede veramente che la scienza sia "stabilita" o che "il dibattito è finito". Scienziati e altri che dicono questo sembrano voler portare avanti un loro programma politico. Non c'è niente di più dannoso per la fiducia del pubblico che tali dichiarazioni.

E, infine, mi auguro che questo esperimento blogosferico dimostri come la diversità dei vari blog possa essere utilizzata collettivamente per generare idee e discuterne, per portare un po’ di sanità mentale a tutta questa situazione che riguarda la politicizzazione della scienza del clima, e per ricostruire un rapporto di fiducia con il pubblico.

* Georgia Institute of Technology
(Traduzione di Maurizio Morabito)

Il testo originale di Judith Carry si può trovare a questo indirizzo:

http://curry.eas.gatech.edu/climate/towards_rebuilding_trust.html

La prima vittima del profetismo climatico è il principio di verità Lo dice anche il prof. Cicerone

Tratto da Il Foglio del 23 febbraio 2010

Roma. Commentando l’ultimo sondaggio che in America dà sempre meno persone preoccupate per il riscaldamento globale causato dall’uomo, Ralph Cicerone, presidente dell’Accademia nazionale delle scienze negli Stati Uniti, ha lamentato come la sempre più scarsa fiducia della gente nella climatologia si stia trasformando in sfiducia nella scienza in generale.

Quando a novembre scoppiò il Climategate (la pubblicazione su Internet di e-mail in cui alcuni studiosi del clima si accordavano per truccare i dati delle temperature), ci fu chi scrisse che da quella storia non sarebbero usciti sconfitti né gli scettici né i catastrofisti, ma appunto la scienza tout court. Così è stato, complici anche alcune recenti gaffe quale l’errata previsione dello scioglimento dei ghiacciai dell’Himalaya fatta dagli scienziati dell’Onu (l’Ipcc). Ieri il Financial Times riportava le dichiarazioni di Cicerone a pagina due, e domenica il Corriere della Sera metteva in prima un editoriale di Giulio Giorello che spiegava come gli allarmi “mandano in crisi la fiducia della gente” e che il clima è un sistema troppo complesso per vendere come certezze le previsioni fatte al computer: meno di un anno fa invece si leggeva che il discorso sul clima era chiuso e che gli scienziati erano concordi sul fatto che l’uomo provocasse il riscaldamento globale. “Che non ci fossero certezze lo sapevamo da tempo – dice al Foglio Luigi Mariani, professore di Agrometeorologia all’Università di Milano – Quelle scientifiche sono verità provvisorie, troppo spesso ce lo dimentichiamo: la scienza dovrebbe essere confronto continuo con la realtà. Per questo diffido sia di chi mi dice che tra cento anni farà caldissimo sia di chi mi assicura che tra trenta comincerà l’era glaciale”.

Punita per la sua hybris, la climatologia moderna come una Cassandra all’incontrario fa i conti con previsioni che non si avverano e temperature che non aumentano da un decennio. I dogmi scientifici resi celluloide da Al Gore non hanno retto: il Polo Nord è ancora lì, l’Antartide cresce, in buona parte del mondo fa molto freddo. Assuefatta agli allarmi, l’opinione pubblica si è destata dal torpore mediatico tutto d’un colpo e la politica ha abbandonato il carro del global warming. Giovedì scorso si è dimesso Yvo De Boer, eminenza grigia dell’Onu per le questioni climatiche e padrone di casa durante il fallimento della conferenza di Copenaghen; il direttore dell’Ipcc è a rischio dimissioni e molti chiedono di ristrutturare questo organismo: “Forse bisognerebbe abolirlo – dice Guido Guidi, meteorologo e autore del blog Climate Monitor – non servono organismi burocratici e politici che raccolgano e guidino gli scienziati”. Basterebbe che la scienza ricominciasse a fare la scienza per tornare a essere credibile.

Da santo della scienza a cialtrone, parabola di un guru del global warming

Roma. Il suo blog ufficiale è fermo da
un mese esatto, appena prima che scoppiassero
le polemiche sullo sciogliemento
dei ghiacciai dell’Himalaya che invece
adesso non si sciolgono più. Nel suo ultimo
post Rajendra Pachauri si lamentava
degli scarsi risultati prodotti dal vertice
sul clima di Copenaghen, da lui fortemente
voluto e sostenuto e nei fatti miseramente
fallito. Occhio spiritato, fare da guru
e un riporto di capelli che sfida le leggi
della fisica, l’indiano Pachauri è il presidente
dell’Ipcc, il panel di scienziati dell’Onu
che studia i cambiamenti climatici.
Come scritto dal New York Times, Pachauri
sembrava destinato alla santità scientifica,
dopo che i report del suo Ipcc erano
diventati il libro sacro del catastrofismo
climatico, quando qualcosa si è rotto. La
questione himalayana è stato l’ultimo atto
di una rappresentazione tragicomica finita
male, quella dell’infallibilità della climatologia
applicata alla fine del mondo
per autocombustione causata dalle emissioni
umane di CO2. Ora in molti da tutto il
mondo chiedono le sue dimissioni, vista
l’imprecisione di troppe previsioni. Pachauri
resiste, però, e grida al complotto
degli scettici ai suoi danni. Perché se al
complotto gridano i “negazionisti”, sono
dei paranoici, se lo fai lui è perché le compagnie
petrolifere vogliono rovinarlo.
Il bello è che Pachauri non è nemmeno
uno scienziato. Ex ingegnere ferroviario,
pare che il vincitore a metà con Al Gore
del Nobel per la Pace del 2007 abbia messo
insieme uno grosso portfolio di interessi
affaristici con realtà che investono miliardi
di dollari in organismi che dipendono
dalle decisioni e dalle politiche dell’Ipcc.
Una lunga inchiesta del Daily Telegraph
di qualche settimana fa avrebbe
svelato la rete costruita da Pachauri in
questi anni grazie a Teri, un istituto di ricerca
sull’energia di cui lui è presidente
dagli anni Ottanta, politicamente molto
potente in India e nel mondo. Questo Teri,
che all’inizio faceva affari grazie al petrolio
e al carbone, starebbe portando avanti
alcuni progetti finanziati da Onu e Ue per
combattere il riscaldamento globale. Quel
riscaldamento globale agitato da tempo
come spauracchio proprio dall’Ipcc. Non
si contano poi le poltrone occupate da Pachauri
negli istituti più disparati, ha scritto
sempre il Telegraph, non ultima la Banca
del clima di Chicago, quella che gestisce
lucrosi scambi di diritti di emissioni
dei gas serra tra paesi. Pachauri ha negato
tutto, e per questo non vuole dimettersi
dall’organismo delle Nazioni Unite che
determina la principale corrente di pensiero
sul clima a livello mediatico e politico.
“Senza l’Ipcc nessuno sarebbe preoccupato
del cambiamento climatico”, ha
detto, così chiarendo involontariamente la
funzione del panel che fa le previsioni sui
ghiacciai basandosi su tesi di laurea e ricordi
di qualche alpinista: preoccupare la
gente intorno a una cosa che c’è sempre
stata e di cui l’uomo non si è mai preoccupato,
perché abituato a conviverci dall’inizio
del mondo, il clima che cambia.
In uno dei rari commenti al suo blog, un
lettore lo paragona a Cristo, Gandhi, Socrate
ed Edgar Allan Poe per le critiche e
le persecuzioni che sta subendo in questi
giorni. Lui prosegue la sua missione salvifica
e ha già pronti “nuovi strumenti” da
usare contro il global warming: “I bambini”,
come ha detto in un’intervista ad Al
Jazeera. Più facili da indottrinare (quando
non già indottrinati da programmi e libri
per l’infanzia iper ambientalisti), i bambini
sono la speranza della lotta alla CO2.
Forse perché i suoi vecchi strumenti, i media,
gli credono sempre di meno.

Piero Vietti

© Copyright Il Foglio 19 febbraio 2010

La scoperta del vapore acqueo. Studio americano ridimensiona l’effetto delle attività umane sul clima

Uno studio appena pubblicato dal
mensile Science dimostra come
almeno un terzo dell’aumento delle
temperature globali verificatosi tra il
1990 e il 2000 non sia affatto legato alle
emissioni di anidride carbonica
prodotte dalle attività umane ma all’aumento
del vapore acqueo presente
nella stratosfera, vale a dire là dove
le attività umane non hanno alcun potere
di influenza. La ricerca, condotta
da Susan Solomon, indica inoltre nella
diminuzione di vapore acqueo nella
stratosfera dopo il 2000 la possibile
spiegazione del rallentamento nella
crescita delle temperature globali.
E’ un nuovo colpo assestato alla teoria
del riscaldamento planetario provocato
dall’uomo, e un ulteriore tassello
di quello che è ormai noto come
“Climagate” (vale a dire la manipolazione,
da parte di professionisti dell’accreditamento
dell’effetto serra, dei
dati sul clima). Solomon e colleghi
non si spingono fino al punto di negare
decisamente un effetto delle attività
umane nei cambiamenti climatici.
Ma nello studio pubblicato su
Science si chiede comunque per il futuro
“un esame più attento”, nei modelli
climatici, del ruolo del vapore
acqueo, i cui cambiamenti si sono verificati
nello strato a sedici chilometri
d’altezza, quello in cui più forte è il loro
effetto sul clima terrestre. Un effetto
già noto da tempo, ma che ora la ricerca
del Nooa, per la prima volta,
quantifica e mette in relazione con le
variazioni del clima degli ultimi tre
decenni.

Il Foglio 10 febbraio 2010

LA FAVOLA DELL’INQUINAMENTO. Secondo l’Istat l’aria in Italia è più pulita di vent’anni fa, ma nessuno lo dice

di Roberto Volpi
Il difetto di certe rilevazioni statistiche
e che non sempre sono periodiche,
cosi non sai bene quando
aspettarti i risultati, ne quali dati saranno
resi disponibili. A volte, poi, altre
rilevazioni sono addirittura una
tantum, cosicche vattelappesca quando
ti ricapitera di avere certe informazioni
di tipo quantitativo. E pero e
strano che, pur in mezzo a queste difficolta,
i dati negativi in un modo o
nell’altro trovino sempre la strada di
apparire sui mezzi di informazione
con tutto il dovuto rilievo, e pure con
il rilievo che non meriterebbero, e
quelli positivi nisba, mai neppure un
viottolo. Cosicche, per dire dell’inquinamento
dell’aria, ci hanno pressoche
ammazzato in tutti questi anni
a furia di ricordarci l’aumento dell’anidride
carbonica (CO2). Ma qualcuno
e mai riuscito a sapere, da giornali e
riviste, televisioni e radio, se nel
plumbeo cielo dell’inquinamento non
si aprisse per caso un qualche fuggevole
spiraglio che facesse meglio sperare?
Mi riferisco all’Italia, chiaro,
perche tra i dati di questo tipo nel
mondo e meglio non addentrarsi neppure
. le sabbie mobili danno una
maggiore affidabilita. Ma proprio relativamente
all’Italia sono uscite, a
meta del 2008, due pubblicazioni Istat
tanto dettagliate, precise e meritevoli
quanto assolutamente ignorate. E
vedremo una possibile spiegazione di
questo silenzio.
Le pubblicazioni sono: “Le emissioni
atmosferiche delle attivita produttive
e delle famiglie. Anni 1990-
2005” e “Le emissioni di otto metalli
pesanti delle attivita produttive e delle
famiglie. Anni 1990-2005”. La prima
pubblicazione e di gran lunga quella
che riveste il maggiore interesse, in
quanto prende in considerazione i
dieci piu importanti inquinanti dell’atmosfera,
responsabili rispettivamente:
dell’effetto serra (anidride
carbonica, protossido di azoto e metano),
delle piogge acide e dell’acidificazione
del suolo (ossidi di azoto, ossidi
di zolfo e ammoniaca) e della formazione
dell’ozono troposferico (composti
organici volatili non metanici,
monossido di carbonio, polveri sottili
e piombo). Il lungo periodo di sedici
anni preso in esame compensa in
qualche modo la non soddisfacente
attualita, in quanto consente di evidenziare
tendenze temporali sufficientemente
chiare e consolidate, in
base alle quali sarebbe perfino possibile
avanzare qualche non cosi azzardata
previsione (ma io me ne
asterro prudenzialmente).
Bene, di questi dieci inquinanti
soltanto tre sono aumentati tra il 1990
e il 2005: l’anidride carbonica e il protossido
di azoto, che vanno a incrementare
i gas serra, e l’ammoniaca,
che ha effetti sull’acidificazione. Ben
sette, diversamente, sono diminuiti: il
metano, gli ossidi di azoto, gli ossidi
di zolfo, i composti organici volatili
non metanici, le polveri sottili, il
piombo. Ma, a parte questa disparita
gia evidente tra miglioramenti da una
parte e peggioramenti dall’altra, la
cosa si fa ancora piu interessante se
traguardata alla luce, appunto, dei disastrosi
livelli di inquinamento ambientale
tanto denunciati (e annunciati).
E dunque. Si, e vero, l’effetto
serra dovuto ai tre inquinanti di cui
abbiamo detto (di cui due in crescita
e uno in calo) e aumentato del 13-14
per cento nei sedici anni considerati.
Ma a fronte stanno le piogge
acide/acidificazione del suolo (due
degli inquinanti responsabili in forte
calo, uno in debole aumento), ridotti
a circa la meta, e la produzione di
ozono troposferico (i quattro inquinanti
responsabili sono tutti diminuiti
sensibilmente), anch’essa pressoche
dimezzata.
Ora, ci vuol poco a capire da questi
dati che complessivamente parlando
la qualita dell’aria e migliorata ovvero
che, in parole povere, il famigerato
inquinamento e diminuito e non
aumentato come si vuole far credere
portando a testimonianza il solo valore
dell’anidride carbonica, ma senza
spendere una parola sugli inquinanti
che hanno subito nello stesso tempo,
in proporzione, ben piu cospicue contrazioni:
il piombo che e nell’aria oggi,
per fare l’esempio piu clamoroso,
e un millesimo (avete capito bene, un
millesimo) di quello che circolava libero
quando il cielo era sempre piu
blu, nel 1990.
Annota l’Istat in un’altra pubblicazione
ancora, datata agosto 2009 (“Indicatori
ambientali urbani. Anno
2008”) che e “migliorata la qualita dell’aria”.
Che gli sconfinamenti delle
polveri sottili, rilevati dalle centraline
urbane, oltre i limiti consentiti sono
diminuiti del 16,8 per cento nel 2008
rispetto al 2007. A qualcuno e mai arrivata
agli orecchi quest’altra notizia?
Figurarsi, si aprono i giornali (poi ci si
lamenta che le vendite precipitano), si
ascoltano telegiornali e trasmissioni
specializzate e sembra che la marcia
verso il peggio prosegua gagliarda,
passo dopo passo, inarrestabile. Gli
epidemiologi che non fanno che rammentarci
un inquinamento che ripagherebbe
l’uomo della sua insensibilita,
puntualmente contabilizzando
tanto di malattie e di morti a esso imputabili,
dovrebbero per una volta andarsi
a leggere, sempre in “Le emissioni
atmosferiche delle attivita produttive
e delle famiglie. Anni 1990-
2005”, le affermazioni del nostro Istituto
Centrale di Statistica che, dopo
averci ricordato che “le attivita produttive
hanno generato l’80 per cento
delle emissioni di inquinanti “a effetto
serra”, il 90 per cento delle emissioni
che sono all’origine del fenomeno
dell’“acidificazione” e piu del 60
per cento delle emissioni di gas responsabili
della formazione dell’ozono
troposferico”, conclude con queste
semplici e non equivocabili parole:
“nel periodo 1990-2005 il ruolo delle
attivita produttive nella generazione
delle emissioni atmosferiche si e ridotto
per quanto concerne tutti gli inquinanti
presi in esame, a eccezione
dell’SOx e del Pb (ovvero degli ossidi
di zolfo e del piombo)”.
Insomma, non c’e trippa per gatti,
viene da dire. Cioe, non ce ne sarebbe,
a meno che non si giochi a nascondino
coi dati, come invece si fa,
scegliendo di dar conto soltanto di
quelli che portano acqua a una determinata
tesi e tacendo con rara ostinazione
su tutti gli altri . ovvero, come
si e visto, sulla stragrande maggioranza
dei dati. Questa e in effetti la
forma di gran lunga piu praticata di
contraffazione statistica della realta.
Qui non c’e fumo statistico, no, non ci
sono dati inventati, aggiustati, decontestualizzati,
interpretati ad usum
delphini. C’e semplicemente una
scelta: quella di tacere sistematicamente
una parte della realta, non
dando conto di dati che ci raccontano
l’altra parte, quella scomoda, che si
preferisce ignorare perche troppo in
contrasto con le tesi precostituite che
vanno per la maggiore e che, detto
brutalmente, danno da mangiare. Come
quando, parlando di diagnosi precoce,
se ne vantano di continuo i successi,
salvo non parlar mai dei formidabili
fenomeni, a essa indissolubilmente
associati, e tanto piu corposi
quanto piu la diagnosi e precoce, dei
falsi positivi e falsi negativi (errori) e
della sovradiagnosi (la diagnosi di
quel che non c’e, con tanto di connessi
interventi).
Certo, capisco che sia dura. Perche,
insomma, come glielo vai a dire
all’affezionato lettore, allo spettatore
fidelizzato del telegiornale delle otto,
quale che sia, che non c’e pressoche
niente che quadri con tutto quello
che da quei pulpiti e stato predicato
in un decennio, il primo del
Duemila, a proposito di inquinamento
inarrestabile con contorno di nefasti
effetti? Se almeno ci fosse qualche
altra indagine sulla materia cui
appigliarsi, ufficiale s’intende, perche
di quelle “a la carte” e pieno il
mondo e anche l’Italia, ma non puoi
mica sempre citare Pinco Pallino, devi
pure appoggiarti qualche volta su
dati che non possano essere messi in
discussione dal primo che passa, o
comunque largamente attendibili e
meglio ancora se ufficiali che di piu
non si puo.
E invece, nemmeno a cercare col
lanternino. L’Istat per la verita un’altra
indagine l’ha pure fatta, e si intitola
“Le emissioni di otto metalli pesanti
delle attivita produttive e delle
famiglie. Anni 1990-2005”. Si tratta di
un’indagine che ha proprio lo scopo
di integrare i dati rilevati con l’altra,
quella di cui abbiamo parlato, relativa
alle “emissioni atmosferiche delle
attivita produttive e delle famiglie”,
che copre lo stesso intervallo temporale.
Non soddisfatto di aver fotografato
le emissioni nell’atmosfera dei
dieci maggiori inquinanti riconosciuti,
il nostro Istituto di Statistica ha indagato
quelle altre relative agli otto
metalli pesanti piu presenti nell’aria
e pericolosi. Risultato: di otto, due
soltanto (arsenico e selenio) hanno
fatto registrare un aumento di emissioni
tra il 1990 e il 2005, mentre per
gli altri sei le relative emissioni sono
risultate in contrazione: cadmio, cromo,
rame, mercurio, nichel e zinco.
Le due indagini hanno dunque fornito
risultati in totale sintonia, speculari,
sovrapponibili e, dunque, da leggersi
e interpretarsi gli uni alla luce
degli altri. Comunque lo si giri, e qualunque
componente dell’“affaire” inquinamento
si vada a cercare, ecco la
morale, il risultato non cambia. Ed e
un risultato da punteggio rugbistico
tra una squadra forte e una compagine
deboluccia: disinquinamento batte
inquinamento 13 (sette inquinanti
piu sei metalli pesanti in riduzione) a
5 (tre inquinanti piu due metalli pesanti
in aumento).
Un risultato che fa a pugni con tutto
quello che siamo abituati a sentir
discendere a mo’ di litania dai cieli
dell’informazione.
C’e anche un ultimo punto, autentica
ciliegina sulla torta. Perche i
buoni, nella fattispecie, quelli che si
sono bene adoperati su questo fronte
dell’inquinamento, sono rappresentati
dalle attivita produttive. Mentre
i cattivi sono proprio loro, le famiglie.
Sono le attivita produttive ad
avere giocato un ruolo positivo nella
contrazione delle emissioni atmosferiche,
non le famiglie che invece ne
hanno avuto uno esattamente opposto.
“Al contrario (delle attivita produttive),
nel 2005 la quota delle emissioni
delle famiglie risulta superiore
al dato del 1990 per la maggior parte
degli inquinanti” . cosi, icasticamente,
annota ancora l’Istat. E, a proposito
di quest’ultima affermazione,
sembra proprio di essere su “Scherzi
a parte”, tanto e plateale il rovesciamento
del senso comune. Tra il
1990 e il 2005 c’e stato un sensibile
miglioramento della qualita dell’aria,
grazie alle attivita produttive, alle
imprese. E nonostante i danni che
hanno combinato le famiglie con riscaldamento,
condizionamento e trasporti
privati. Chi andasse in giro a
sostenere, di fronte a un qualsivoglia
pubblico: (a) che la situazione relativa
all’inquinamento e alquanto migliorata
negli ultimi due decenni e
(b) in virtu del buon comportamento
delle attivita produttive che ha piu
che compensato quello invece dissipativo
e sconsiderato delle famiglie,
verrebbe sbertucciato a non finire o,
cosa ancor piu probabile, scambiato
per uno con qualche rotella fuori posto
al quale raccomandare, nel suo
preciso interesse, di tenere la bocca
chiusa il piu possibile. E’ vero che
queste verita sono testimoniate da
una messe di dati, per di piu ufficiali.
Ma e ancora piu vero che sono state
seppellite per anni e anni sotto
una coltre di petizioni di principio e
di ragionamenti circolari che ha occupato
ogni spazio mediatico. Riportarle
alla luce e un’impresa ben piu
disperata di quella di ripescare
Atlantide in qualche fossa oceanica.
Quelle verita, ed e questa la verita
piu vera, contano quanto il due di
picche, dal momento che si e deciso
che a fare notizia e l’inquinamento, e
l’effetto serra, sono le piogge acide, e
l’ozono. In aumento, certo, tutto indiscutibilmente
in aumento. Sono forse
domande da farsi?


Perché, tra gasolio e smog, Milano puzza ma non è così sporca come ci raccontano

Milano. Efficace è efficace. La campagna ambientale
della regione Lombardia usa le immagini
per far cogliere i passi avanti fatti nella guerra allo
smog. E’ una serie di fotografie: 1975, cielo nero come
la pece; 1995, cielo scuro per l’inquinamento. E’
nel 2000 (dopo i primi cinque anni di “cura” Formigoni?)
che si cominciano a intravedere le nuvole, anche
se il grigio scuro è ancora dominante. Le ultime
due foto, per il 2005 e il 2009, lasciano ben sperare
per la casella ancora vuota, quella del futuro: pian
piano l’azzurro si fa largo. In basso, c’è la rivendicazione
dei meriti: la Lombardia è “la prima regione
italiana che ha stanziato oltre 120 milioni di euro di
incentivi per la sostituzione dei vecchi mezzi con
nuovi modelli a minori emissioni”. E’ un punto d’orgoglio,
perché venti o trent’anni fa non era così
scontato che il cielo fosse blu sopra Milano, e però
è anche una risposta indiretta agli avvisi di garanzia
che hanno colpito, nei mesi scorsi, la giunta Formigoni
e poi quelle di Letizia Moratti, Guido Podestà
e Filippo Penati. L’accusa per regione, comune
e provincia: aver consentito un disastro ambientale
come lo smog. A guardare il cielo e ad aprire le narici,
in questi giorni, ci sarebbe da credere più agli
allarmisti che a chi rivendica successi.
Dicono le centraline di rilevamento dell’Arpa, l’agenzia
regionale per l’ambiente, che a Milano l’aria
è stata irrespirabile per più di due settimane filate,
a gennaio. Un record o quasi. Nuvole basse, nebbia,
freddo: tutto ha contribuito al superamento della soglia
accettabile di concentrazione di Pm10, le cosiddette
polveri sottili, nell’aria. Fosse caduta un po’
di pioggia, probabilmente le cose sarebbero cambiate:
l’acqua avrebbe trattenuto a terra le polveri,
che avrebbero così smesso di vagare nell’aria e nei
polmoni dei milanesi. Il comune dice che va male,
ma che poteva andare peggio: “Napoli e Torino sono
state le città più inquinate nel 2009”, ricorda il vicesindaco,
Riccardo De Corato. O Padova e Vicenza,
campionesse dello smog in questo primo mese dell’anno.
Il sindaco Moratti rivendica con una lettera
al Corriere della Sera gli obiettivi raggiunti: nel gennaio
2009 i giorni d’aria sporca erano stati venti e le
concentrazioni di Pm10 più elevate (83 microgrammi
al metro cubo contro i 68 di oggi, il limite è 50),
sottolinea l’ex ministro. Calma e gesso. Anche perché
sono in cantiere due nuove linee del metrò e il
teleriscaldamento. E, soprattutto, c’è l’Ecopass, il sistema
di ingresso a pedaggio nel centro storico della
città per le auto inquinanti.
Per gli ambientalisti è un sistema con almeno due
difetti: l’area protetta, ossia la cerchia dei bastioni,
è troppo esigua e poi basta pagare per continuare a
usare il tubo di scappamento a proprio piacere. Il
fatto è che a molti l’auto serve comunque, con o senza
pedaggio: così, passata la paura iniziale, milanesi
e pendolari hanno messo mano al portafogli. Nel
2008, primo anno completo di Ecopass, i giorni critici
per l’inquinamento furono appena 78. Nel 2009
sono già saliti a 106. Senza contare che il fronte del
no, prima ridotto all’ex sindaco Albertini e ai commercianti,
si è rapidamente esteso: lo dimostra il
fatto che Edoardo Croci, l’assessore morattiano all’Ambiente
che introdusse il pass, si è dimesso già
da tempo. Il motivo? Voleva allargare l’area di applicazione
dell’Ecopass. Non che manchino le idee
alternative: il neopresidente pidiellino della Provincia,
Guido Podestà, annuncia per i prossimi anni
misure draconiane. La ricetta è sempre quella: far
pagare cara Milano. Toccherà alle tangenziali – la
est, la ovest, la nord – diventare a pedaggio. Un incentivo,
sulla carta, a lasciare l’auto a casa e a utilizzare
di più i mezzi pubblici. L’importante, però, è
centellinare le misure tampone: targhe alterne,
blocchi del traffico, domeniche a piedi. Le targhe alterne
le chiedeva la Lega per tutto febbraio, ma alla
fine al vertice di ieri al Pirellone è prevalsa la linea
morbida: stop alle auto per tutta la domenica e,
se la situazione non migliora, applicazione dell’Ecopass
anche ai diesel Euro 4 privi di filtro antiparticolato.
Che il problema non riguardi la sola Milano,
però, è evidente. Basta guardare Roma, una delle
città con il più elevato tasso di motorizzazione del
mondo: 76 auto ogni cento abitanti. A New York la
proporzione è di 20 ogni cento. E poi c’è il parco auto,
che migliora ma non basta. Una volta a preoccupare
era il piombo nella benzina, adesso che c’è
solo la verde, il problema principale sono i motori
diesel. Una sola auto a gasolio di vecchia generazione
inquina quanto 400 veicoli catalizzati. Fanno
meglio i motori ecodiesel, che immettono nell’aria
particelle fini “solo” dieci volte di più di quelli catalitici.
Dice al Foglio Giuseppe Viviano, direttore
del dipartimento Igiene dell’aria dell’Istituto superiore
di sanità: “Certo, il problema sono soprattutto
i diesel, specialmente quelli senza filtro. Perché
di sicuro la qualità media dell’aria – negli ultimi
decenni – è migliorata: non ci sono quasi più né ottani
né benzene, altamente cancerogeno. Oggi l’inquinamento
è soltanto al settimo o all’ottavo posto
tra le cause di mortalità: vengono molto prima gli
stili di vita sbagliati. Resta il problema delle polveri,
che causano soprattutto problemi all’apparato
respiratorio: si tratta di molecole dovute però solo
in parte alle auto e alle ciminiere. Esistono le cosiddette
polveri secondarie che si formano nell’atmosfera
contro le quali un blocco del traffico non
può nulla. Di sicuro, però, la parte dovuta direttamente
alle emissioni si può ridurre con mezzi più
ecologici, come quelli elettrici, a metano o a Gpl,
oppure adottando il sistema del teleriscaldamento
per gli immobili. Ridurre il riscaldamento è invece
un rimedio che rischia di essere controproducente:
non si possono lasciare al freddo gli anziani e i
bambini”.

Alan Patarga

Il Foglio 29 gennaio 2010

Global warming. Le solite previsioni apocalittiche smentite dalla realtà

di Anna Bono
Tratto dal sito Ragionpolitica.it il 26 gennaio 2010

Un albero si può abbattere, ma le montagne no. Così il 18 gennaio l'Intergovernmental Panel on Climate Change, IPCC, l'organismo creato dalle Nazioni Unite nel 1988 per studiare il riscaldamento globale, ha dovuto ammettere ufficialmente di essersi sbagliato: i ghiacciai dell'Himalaya e del Tibet non si scioglieranno completamente entro il 2035, le previsioni apocalittiche erano prive di fondamento scientifico derivando a quanto pare da un certo documento del Wwf che riportava le speculazioni di uno scienziato indiano. Invano diversi geofisici suoi connazionali ne avevano subito contestato le affermazioni: il presidente dell'IPCC, Rajendra Pachauri, aveva liquidato le loro ricerche definendole «scienza voodoo».

Da anni la catastrofica scomparsa dei ghiacciai è uno degli argomenti principali su cui l'IPCC punta per dimostrare il riscaldamento del pianeta di origine antropica: fenomeno per contrastare il quale ha ottenuto la stesura del Protocollo di Kyoto e, nel corso degli anni, la convocazione di innumerevoli summit locali e internazionali, culminati lo scorso dicembre nella conferenza di Copenhagen sui cambiamenti climatici durante la quale, come si ricorderà, si sono chiesti risarcimenti di centinaia di miliardi di dollari ai paesi occidentali per gli effetti nocivi attuali e futuri del global warming sugli abitanti dei paesi in via di sviluppo e drastiche, onerosissime riduzioni delle emissioni di CO2.

Nel 2007, proprio per il loro impegno contro il global warming, l'IPCC e l'ex vice presidente di Bill Clinton, Al Gore, sono stati insigniti del Premio Nobel per la pace. Nella motivazione del Comitato di Stoccolma si legge che IPCC e Gore sono stati premiati «per i loro sforzi per costruire e diffondere una coscienza maggiore sui cambiamenti climatici provocati dall'uomo e per porre le basi per le misure necessarie a contrastare tali cambiamenti». Al Gore, sempre nel 2007, ha inoltre vinto due premi Oscar per un documentario da lui prodotto che illustra le conseguenze del fenomeno dal titolo An inconvenient truth, Una verità scomoda.

Di scomodo adesso vi è - per Al Gore, per l'IPCC e per tutti i movimenti ambientalisti al seguito - non solo il fatto ammesso per la prima volta di fondare con troppa leggerezza le proprie affermazioni su basi non scientifiche e quindi di mobilitare irresponsabilmente enormi risorse finanziarie e umane (alla sola conferenza di Copenhagen hanno partecipato 40. 000 delegati), ma, fatto ancora più grave, la scoperta che le prove scientifiche addotte sono state manipolate, per dimostrare l'esistenza del fenomeno del global warming e la sua origine antropica, omettendo dei dati e falsificandone altri, come risulta dalla corrispondenza elettronica intercorsa dal 1996 al 2009 tra l'IPCC e il Climatic Research Unit dell'università britannica di East Anglia, rubata e resa di dominio pubblico da un gruppo di hacker nel novembre del 2009.

L'albero di cui si diceva all'inizio sorgeva fino al 2003 in prossimità della linea costiera su una delle isole dell'arcipelago delle Maldive ed, essendo lì da oltre 50 anni, veniva usato da uno scienziato svedese, il professor Nils-Axel Morner, per confermare che il livello delle acque marine attorno all'arcipelago dell'oceano Indiano è costante da decenni, come hanno dimostrato le ricerche condotte negli anni 90 da un'equipe di scienziati da lui diretta: al minimo innalzamento dell'acqua, infatti, l'albero sarebbe stato raggiunto e in parte sommerso. È per questo che nel 2003 alcuni militanti ambientalisti australiani lo hanno abbattuto.

Il governo delle Maldive è quello che a ottobre, in vista della conferenza di Copenaghen sul clima, ha tenuto una riunione immerso in una laguna alla profondità di quattro metri. Al termine dell'incontro, su una lavagna di plastica i ministri in immersione hanno scritto con colori a prova d'acqua: «Dobbiamo unirci in uno sforzo da guerra mondiale per bloccare ulteriori aumenti delle temperature. Il cambiamento climatico è in corso e minaccia i diritti e la sicurezza di tutti sulla Terra». L'iniziativa intendeva richiamare l'attenzione sulle previsioni IPCC secondo le quali l'arcipelago verrà sommerso dal mare entro il 2100 per effetto del global warming. In quell'occasione il professor Nils-Axel Morner ha scritto una lettera al presidente delle Maldive Mohamed Nasheed che merita di essere letta. È stata pubblicata in Italia il 15 gennaio 2010 sul sito web www. svipop. org.