Rispetto alle reazioni che la sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo sul crocifisso ha provocato, verrebbe da dire che il problema dell’esposizione dei simboli religiosi nelle aule scolastiche non si porrebbe se le scuole non fossero pubbliche. Ma non vado oltre, dato che, in poche righe, non è possibile dare conto di tutte le buone ragioni che inducono a pensare che il diritto sostanziale (dunque per tutti, non solo per i benestanti) all’istruzione potrebbe essere meglio garantito da un sistema scolastico basato sulla libera concorrenza piuttosto che da quella complessa burocrazia chiamato scuola pubblica. Ne riparleremo, magari, in un prossimo articolo, riprendendo i saggi di Einaudi e Valitutti che hanno sostenuto, con molta più autorevolezza di chi scrive, la libertà della scuola dallo Stato.
Per tornare al rapporto tra religione e istruzione, ritenevo che ogni preoccupazione delle due fazioni di questo conflitto culturale sarebbe venuta meno al cadere del presupposto di partenza, ovvero dell’appartenenza o meno dei muri scolastici su cui appendere il crocifisso al patrimonio pubblico, piuttosto che alla proprietà di soggetti privati. Poi, però, ho letto la sentenza Lombardi Vallauri c. Italia, emessa contemporaneamente alla ben più nota pronuncia della Corte di Strasburgo.
Il caso è noto, ma vale la pena ripercorrerlo nelle linee essenziali. Il prof. Lombardi Vallauri è docente di filosofia del diritto all’Università di Firenze. Dal 1976 insegna la stessa materia anche presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano in base a contratti annuali, rinnovati anno dopo anno, previa procedura di valutazione comparativa.
Nel 1998, prima di presentare la domanda di rinnovo del contratto per l’anno accademico 1998-1999, il docente ebbe un incontro informale con la Congregazione per l’Educazione Cattolica, organo della Santa Sede. Con lettera di pochi giorni successiva a quell’incontro, la Congregazione comunicava al rettore dell’Università S. Cuore che alcuni recenti orientamenti del professore erano da ritenersi in contrasto con la dottrina cattolica, tanto da costituire condizione di rigetto della domanda di nuovo contratto annuale. Il Consiglio di facoltà si adeguava alla lettera della Congregazione.
Esaurite le vie interne di ricorso per veder soddisfatte la sua pretese circa il riconoscimento della libertà di insegnamento e religiosa, il professor Lombardi Vallauri si rivolgeva così alla Corte europea dei diritti umani.
Buon senso comune, ovvero la saggezza di chi non è abituato al cavillo giuridico, porterebbe a pensare che la pretesa del docente non avrebbe trovato soddisfazione presso la Corte di Strasburgo. Negli ordinamenti occidentali, infatti, vige su tutti il principio di libertà. Libertà che è anche libertà contrattuale che si manifesta con la libertà di scelta della controparte, con la libertà di non concludere il contratto o di concluderlo alle condizioni volontariamente pattuite tra le parti.
Questo fondamentale principio vale per tutti i privati, persone fisiche, giuridiche, enti di fatto; regime diverso vale invece per gli enti pubblici. In virtù di questo principio sovrano di libertà trovano piena legittimazione la scelte determinate da motivazioni – razionali o meno – che si appellano all’intuitu personae, secondo cui ognuno è libero di determinare con chi concludere accordi e negozi giuridici, prima ancora che di decidere con quali modalità e a quali condizioni concluderli. Si noti peraltro che nel caso dedotto avanti la Corte Europea non si trattava di sciogliere un vincolo contrattuale, ma di farne nascere uno nuovo. È noto che l’università pubblica, per sua natura, è tenuta a selezionare i docenti sulla base di parametri preordinati e oggettivi di valutazione (quali la produzione scientifica), quindi con imparzialità e neutralità rispetto a criteri basati sulla personalità o sugli orientamenti dei candidati.
Al contrario, ero convinta, e con me credo tantissimi altri, che l’esistenza delle università private fosse giustificata in virtù di una precisa opzione culturale della loro attività pedagogica e che perciò esse erano naturalmente libere di selezionare il personale docente in base a criteri anche non strettamente inerenti il solo merito accademico, senza per questo contrastare con la libertà di insegnamento prevista dall’articolo 33 della Costituzione, ma anzi sostanziando la portata degli articoli 2 e 21 della stessa. Se non bastasse il senso comune, potremmo anche aggiungere che l’Accordo di revisione del Concordato tra la Santa Sede e la Repubblica italiana (che, giova ricordare, è un atto di diritto internazionale, e non interno) prevede che “le nomine dei professori dell’Università Cattolica del Sacro Cuore […] sono subordinate al gradimento sotto l’aspetto religioso dell’autorità ecclesiastica competente”.
Pertanto, agli occhi dell’uomo medio, come potrebbe essere quello di chi scrive, è un principio lapalissiano quello secondo cui gli enti scolastici e accademici privati siano liberi di educare gli iscritti secondo i loro principi, e dunque di decidere funzionalmente il personale incaricato dell’istruzione e della formazione. Evidentemente, la Corte europea è di altro avviso. All’esito del processo, infatti, la Corte ha riconosciuto la violazione della Convenzione europea dei diritti umani sulla base di un principio che, come ha già insegnato la giurisprudenza statunitense, rischia anche in Europa di diventare il passepartout per un attivismo giudiziario e un’ingerenza della “coscienza giurisdizionale”, nei casi in cui il giudice non ha una norma precisa a cui appigliarsi direttamente: il giusto procedimento. La Corte ha infatti concluso che il professor Vallauri è stato leso nel suo diritto a un contraddittorio equo con la Congregazione e l’Università, non essendogli stata data l’occasione di discutere con tali organi delle sue posizioni personali contrastanti con la dottrina cattolica e delle eventuali ricadute che queste posizioni avrebbero avuto sull’attività di docenza.
In mancanza di sostegni giuridici più solidi, non potendo fare riferimento evidentemente né al principio di uguaglianza né alla libertà di espressione né alla libertà di religione, giustizia è stata resa sulla base di una clausola estremamente aperta, quella appunto del giusto procedimento, che, come è avvenuto con il due process d’oltreoceano, ha giustificato pronunce giurisdizionali quantomeno creative, come la presente. Tanti sono gli insegnamenti che questa sentenza reca con sé. Il primo tra tutti è che la libertà contrattuale rischia di diventare meno libera…
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