Gli effetti positivi della lotta planetaria all’Aids diventano sempre più percepibili, ma l’epidemia resta capace di punire ogni distrazione dei sistemi sanitari nazionali e delle popolazioni. È il messaggio che Unaids lancerà oggi nel quadro della Giornata mondiale della lotta alla malattia, basandosi sugli ultimi dati epidemiologici. Secondo l’agenzia dell’Onu che coordina il lavoro di diversi organismi internazionali, vivono nel mondo circa 33,4 milioni di sieropositivi. L’anno scorso, il virus ha ucciso 2 milioni di persone, mentre i contagi sono stati circa 2,7 milioni: 7.400 casi al giorno, fra cui 1.200 bambini.
Cifre sostanzialmente simili a quelle del 2007, anche se pare più allarmante che mai il fenomeno dei malati inconsapevoli. Ciò è vero pure nei Paesi industrializzati come l’Italia, dove non a caso le autorità sanitarie concentrano quest’anno la propria campagna sull’importanza di effettuare test soprattutto fra i 30 e i 40 anni. Nel nostro Paese, i sieropositivi stimati sono almeno 170 mila. Fra loro, circa 22 mila presentano tutti i sintomi della malattia. È confrontando le diverse 'fotografie' annuali dell’epidemia che emergono timidi segnali incoraggianti. Rispetto al 2001, la propagazione dell’Hiv ha rallentato la sua corsa persino in Africa, dove in 8 anni il calo del numero dei nuovi casi è stato del 15% (con 400mila nuove infezioni l’anno scorso). Meglio dunque che nell’Asia meridionale, dove i nuovi casi annuali sono diminuiti di circa il 10% rispetto sempre al 2001. Nell’Asia sud-orientale, il calo è stato invece del 25%, dunque più del 17% constatato a livello mondiale.
Secondo Unaids, inoltre, è sintomatico che il ritmo d’avanzamento paia stabilizzarsi nell’Europa orientale, dove fino a qualche anno fa la progressione pareva inarrestabile. L’effetto combinato delle triterapie e della prevenzione ha abbassato negli ultimi 5 anni di circa il 10% il numero dei morti, con una stima generale di 2,9 milioni di vite salvate dal 1996. Ma tutto ciò non significa affatto che l’epidemia è «sotto controllo». Anche perché buona parte del rallentamento sembra dovuta al naturale superamento di un picco epidemico. In totale, il numero dei malati non era mai stato tanto alto. E non è certo il momento di consolarsi, sottolinea Unaids, pensando che questo valore cresce anche per effetto della propagazione dei trattamenti e dunque di una vita media più lunga. Per Margareth Chan, al timone dell’Oms, questo è «il momento di raddoppiare gli sforzi per salvare ancora più vite», in ragione proprio del fatto che «gli investimenti internazionali e nazionali per l’estensione dei trattamenti dell’Hiv hanno dato risultati concreti e misurabili».
In Africa, dove si registrano ancora i due terzi delle infezioni planetarie, l’esempio positivo più citato è il Botswana, uno dei Paesi tradizionalmente più martoriati. Qui, ormai, 4 malati su 5 ricevono cure e il numero di morti è stato più che dimezzato nell’ultimo quinquennio. La tragedia nella tragedia degli orfani ha preso così pieghe meno cupe che in passato. Nei Paesi in via di sviluppo, in generale, su quasi 10 milioni di malati in attesa, il 67% non aveva nel 2007 alcun accesso alle cure, mentre l’anno scorso il valore è sceso al 58%. Michel Sidibé, direttore esecutivo di Unaids, ammette che c’è ancora moltissimo da fare, soprattutto perché «la programmazione della prevenzione è spesso lontana dalle realtà concrete». In Africa, ad esempio, gli investimenti nell’educazione alla salute e nella prevenzione sono stati di recente ridotti in diversi Paesi, con un quasi dimezzamento registrato in Ghana fra il 2005 e il 2007.
Avvenire 1 dic 2009
Cifre sostanzialmente simili a quelle del 2007, anche se pare più allarmante che mai il fenomeno dei malati inconsapevoli. Ciò è vero pure nei Paesi industrializzati come l’Italia, dove non a caso le autorità sanitarie concentrano quest’anno la propria campagna sull’importanza di effettuare test soprattutto fra i 30 e i 40 anni. Nel nostro Paese, i sieropositivi stimati sono almeno 170 mila. Fra loro, circa 22 mila presentano tutti i sintomi della malattia. È confrontando le diverse 'fotografie' annuali dell’epidemia che emergono timidi segnali incoraggianti. Rispetto al 2001, la propagazione dell’Hiv ha rallentato la sua corsa persino in Africa, dove in 8 anni il calo del numero dei nuovi casi è stato del 15% (con 400mila nuove infezioni l’anno scorso). Meglio dunque che nell’Asia meridionale, dove i nuovi casi annuali sono diminuiti di circa il 10% rispetto sempre al 2001. Nell’Asia sud-orientale, il calo è stato invece del 25%, dunque più del 17% constatato a livello mondiale.
Secondo Unaids, inoltre, è sintomatico che il ritmo d’avanzamento paia stabilizzarsi nell’Europa orientale, dove fino a qualche anno fa la progressione pareva inarrestabile. L’effetto combinato delle triterapie e della prevenzione ha abbassato negli ultimi 5 anni di circa il 10% il numero dei morti, con una stima generale di 2,9 milioni di vite salvate dal 1996. Ma tutto ciò non significa affatto che l’epidemia è «sotto controllo». Anche perché buona parte del rallentamento sembra dovuta al naturale superamento di un picco epidemico. In totale, il numero dei malati non era mai stato tanto alto. E non è certo il momento di consolarsi, sottolinea Unaids, pensando che questo valore cresce anche per effetto della propagazione dei trattamenti e dunque di una vita media più lunga. Per Margareth Chan, al timone dell’Oms, questo è «il momento di raddoppiare gli sforzi per salvare ancora più vite», in ragione proprio del fatto che «gli investimenti internazionali e nazionali per l’estensione dei trattamenti dell’Hiv hanno dato risultati concreti e misurabili».
In Africa, dove si registrano ancora i due terzi delle infezioni planetarie, l’esempio positivo più citato è il Botswana, uno dei Paesi tradizionalmente più martoriati. Qui, ormai, 4 malati su 5 ricevono cure e il numero di morti è stato più che dimezzato nell’ultimo quinquennio. La tragedia nella tragedia degli orfani ha preso così pieghe meno cupe che in passato. Nei Paesi in via di sviluppo, in generale, su quasi 10 milioni di malati in attesa, il 67% non aveva nel 2007 alcun accesso alle cure, mentre l’anno scorso il valore è sceso al 58%. Michel Sidibé, direttore esecutivo di Unaids, ammette che c’è ancora moltissimo da fare, soprattutto perché «la programmazione della prevenzione è spesso lontana dalle realtà concrete». In Africa, ad esempio, gli investimenti nell’educazione alla salute e nella prevenzione sono stati di recente ridotti in diversi Paesi, con un quasi dimezzamento registrato in Ghana fra il 2005 e il 2007.
Avvenire 1 dic 2009
da Parigi Daniele Zappalà